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Parola della vittima credibile? Condanna certa (anche per reati sessuali) (Cass. 2911/21)

25 gennaio 2021, Cassazione penale

Alle dichiarazioni della parte offesa, la cui testimonianza sia ritenuta intrinsecamente attendibile, viene riconosciuta la natura di vera e propria fonte di prova, ammettendo che sulla stessa, anche esclusivamente, possa essere fondata l’affermazione di colpevolezza dell’imputato, purché la relativa valutazione sia adeguatamente motivata.

Ciò vale, in modo particolare, con riferimento ai reati sessuali, l’accertamento dei quali è spesso caratterizzato dalla necessaria valutazione del contrasto tra le opposte versioni di imputato e parte offesa, unici protagonisti dei fatti, spesso in assenza anche di riscontri oggettivi o di altri elementi che consentano di attribuire maggiore credibilità, dall’esterno, all’una o all’altra tesi.

Il delitto di maltrattamenti in famiglia ha quale presupposto una relazione tra agente e vittima caratterizzata da uno stabile rapporto di affidamento e solidarietà, con la conseguenza che la condotta lesiva lede la dignità della persona infrangendo un rapporto che dovrebbe essere ispirato a fiducia e condivisione.
ll reato di maltrattamenti viene riconosciuto anche in relazione a situazioni di non convivenza, ma in quanto succedute a precedente convivenza e, quindi, non nel senso di assenza di convivenza ma di cessata convivenza e si evidenzia, testualmente, come il reato sia configurabile anche al di fuori della famiglia legittima, in presenza di un rapporto di stabile convivenza, come tale suscettibile di determinare obblighi di solidarietà e di mutua assistenza, senza che sia richiesto che tale convivenza abbia una certa durata, quanto - piuttosto - che sia stata istituita in una prospettiva di stabilità, quale che sia stato poi in concreto l’esito di tale comune decisione.

Pur mancando vincoli nascenti dal coniugio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche in presenza di una relazione sentimentale che abbia comportato un’assidua frequentazione della abitazione della persona offesa tale da far sorgere sentimenti di solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale o di un rapporto familiare di mero fatto in assenza di una stabile convivenza ma con un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà e assistenza.

Corte di Cassazione

sez. III Penale

sentenza 23 novembre 202 – 25 gennaio 2021, n. 2911
Presidente Sarno – Relatore Ramacci

Ritenuto in fatto

1. La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 4 giugno 2019 ha riformato la sentenza del Tribunale di Roma, Ufficio GIP del 27 febbraio 2018 appellata da B.S. e, riconosciutegli le circostanze attenuanti generiche prevalenti, ha ridotto la pena originariamente inflittagli per i delitti di cui agli art. 572, 582 e 585 c.p., art. 609 ter c.p., comma 1, n. 5 quater, e art. 609 bis c.p., commessi in danno della convivente.
Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati.
2. Con il primo motivo di ricorso deduce il vizio di motivazione in relazione al delitto di violenza sessuale, osservando che la sentenza di primo grado si era limitata a ripercorrere le dichiarazioni della persona offesa senza peraltro trattare in maniera autonoma tale delitto, contestato al capo c) dell’imputazione, offrendo una motivazione sostanzialmente apparente, mentre la Corte territoriale si sarebbe limitata a rilevare la attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa sottraendosi, però, all’esame critico degli elementi di prova dedotti dalla difesa dell’imputato, senza peraltro riuscire a collocare nel tempo l’episodio di violenza sessuale contestato.
Aggiunge che i giudici del gravame avrebbero anche omesso di considerare i plurimi elementi offerti dalla difesa, che avrebbero consentito di escludere la commissione del reato nel periodo di tempo individuato in sentenza.
3. Con un secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione al delitto di maltrattamenti contestato al capo a) dell’imputazione, segnalando la insussistenza dell’elemento costitutivo della convivenza, evidenziando anche la differenza tra il reato di maltrattamenti e quello di atti persecutori, osservando, in particolare, che l’applicazione dell’art. 572 c.p., sarebbe connessa all’accertamento di rapporti legali di coniugio ovvero di rapporti ad esso assimilabili, individuabili nelle diverse situazioni riconducibili alla c.d. famiglia di fatto, distinguendoli dalle mere relazioni sentimentali, ancorché connotate da occasionale condivisione domestica, che non assumerebbero alcuna rilevanza tipica ai fini della configurabilità del reato.
Aggiunge, inoltre, che la Corte territoriale avrebbe del tutto apoditticamente valutato come superflua la richiesta di escussione di due testimoni ai sensi dell’art. 603 c.p.p., comma 1.
Insiste, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.
4. In data 4 novembre 2020 la difesa della persona offesa ha fatto pervenire in cancelleria la revoca della costituzione di parte civile.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è solo in parte fondato.
2. Occorre rilevare che, specie nel primo motivo di ricorso, si censura la motivazione della sentenza impugnata perché ritenuta acriticamente adesiva alle dichiarazioni rese dalla persona offesa, peraltro costituitasi parte civile.
Pare opportuno ricordare, a tale proposito, che alle dichiarazioni della parte offesa, la cui testimonianza sia ritenuta intrinsecamente attendibile, viene riconosciuta la natura di vera e propria fonte di prova, ammettendo che sulla stessa, anche esclusivamente, possa essere fondata l’affermazione di colpevolezza dell’imputato, purché la relativa valutazione sia adeguatamente motivata (Sez. 4, n. 44644 del 18/10/2011, F., Rv. 251661; Sez. 3, n. 28913 del 3/5/2011, C., Rv. 251075; Sez. 3, n. 1818 del 3/12/2010 (dep. 2011), L.C., Rv. 249136; Sez. 4, n. 30422 del 21/6/2005, Poggi, Rv. 232018; Sez. 4, n. 16860 del 13/11/2003 (dep. 2004), Verardi, Rv. 227901; Sez. 5, n. 6910 del 27/4/1999, Mazzella, Rv. 213613).
La giurisprudenza di questa Corte, nel formulare il richiamato principio, ha ulteriormente precisato che esso vale, in modo particolare, con riferimento ai reati sessuali, l’accertamento dei quali è spesso caratterizzato dalla necessaria valutazione del contrasto tra le opposte versioni di imputato e parte offesa, unici protagonisti dei fatti, spesso in assenza anche di riscontri oggettivi o di altri elementi che consentano di attribuire maggiore credibilità, dall’esterno, all’una o all’altra tesi.
Nè rileva, ai fini della valenza probatoria delle dichiarazioni rese, la circostanza che la persona offesa sia costituita parte civile, richiedendosi, in tal caso, esclusivamente un maggior rigore nella valutazione di attendibilità (Sez. 1, n. 29372 del 24/6/2010, Stefanini, Rv. 248016; Sez. 6, n. 33162 del 3/6/2004, Patella, Rv. 229755; Sez. 4 n. 16860/2003, cit.; Sez. 2, n. 694 del 7/11/2000 (dep. 2001), Fedelini, Rv. 217886; Sez. 3, n. 766 del 26/11/1997 (dep. 1998), Caggiula, Rv. 209404; Sez. 1, n. 3860 del 11/11/1992 (dep. 1993), Lippolis, Rv. 195961) che, se riconosciuta dal giudice del merito, non è censurabile in sede di legittimità, quando sia sorretta da un’adeguata e coerente giustificazione che dia conto, nella motivazione, dei risultati acquisiti e dei criteri adottati (Sez. 6, n. 27322 del 14/4/2008, De Ritis, Rv. 240524; Sez. 6, n. 443 del 4/11/2004 (dep. 2005), Zamberlan Rv. 230899).
Successivamente i suddetti principi hanno avuto ulteriore conferma da parte delle Sezioni Unite di questa Corte, le quali hanno riconosciuto l’inapplicabilità delle regole fissate dall’art. 192, comma 3, c.p.p. alle dichiarazioni della persona offesa, che possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, sottoponendo a preventiva e motivata verifica la credibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità intrinseca del narrato, che deve tuttavia effettuarsi in modo più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone, aggiungendo che, in caso di costituzione di parte civile della persona offesa, può essere opportuno procedere anche al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi (Sez. U, n. 41461 del 19/7/2012, Bell’Arte, Rv. 253214).
Nell’occasione, le Sezioni Unite hanno altresì ricordato come costituisca un principio incontroverso nella giurisprudenza di legittimità l’affermazione secondo la quale la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni (a tale proposito richiamando, ex pl., Sez. 6 n. 27322 / 2008, cit.; Sez. 3, n. 8382 del 22/1/2008, Finazzo, Rv. 239342; Sez. 6, n. 443 / 2004, cit.; Sez. 3, n. 3348 del 13/11/2003 (deo, 2004), Pacca, Rv. 227493; Sez. 3, n. 22848 del 27/3/2003, Assenza, Rv. 225232).
Si è poi specificato che, per ciò che concerne la motivazione, è necessario che il giudice indichi le emergenze processuali determinanti per la formazione del suo convincimento, consentendo così l’individuazione dell’iter logico-giuridico che ha condotto alla soluzione adottata; mentre non ha rilievo, al riguardo, il silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame qualora si tratti di deduzione disattesa dalla motivazione complessivamente considerata, non essendo necessaria l’esplicita confutazione delle specifiche tesi difensive disattese ed essendo, invece, sufficiente una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezìone implicita di tale deduzione senza lasciare spazio ad una valida alternativa (così, Sez. 5, n. 1666 del 8/7/2014 (dep.2015), Pirajno e altro, Rv. 261730. V. anche Sez. 2, n. 43278 del 24/9/2015, Manzini, Rv. 265104; Sez. 5, n. 21135 del 26/3/2019, S, Rv. 275312).
Da ultimo, nel ribadire il valore probatorio delle dichiarazioni della persona offesa costituita parte civile, si è ulteriormente chiarito che, qualora risulti opportuna l’acquisizione di riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l’intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, nè assistere ogni segmento della narrazione (Sez. 5, n. 21135 dei 26/3/2019, S, Rv. 275312).
3. Nella fattispecie, in disparte la circostanza, fatta rilevare nella sentenza impugnata, che la persona offesa si è costituita parte civile dopo aver reso le dichiarazioni apprezzate nella sentenza di primo grado (avendo l’imputato optato per il rito abbreviato) e poi in quello di appello, risulta evidente che i giudici del merito hanno fatto buon uso dei principi dianzi richiamati, procedendo ad un attento esame delle dichiarazioni della persona offesa, le quali non costituiscono, peraltro, l’unico elemento su cui si fonda la decisione impugnata.
I giudici del gravame, nel rispondere alle censure mosse con l’atto di appello sul punto, non si limitano a riportare le considerazioni del primo giudice, che pure aveva dato conto di plurimi riscontri, perché procedono ad una autonoma valutazione delle dichiarazioni medesime dando conto non soltanto dei loro contenuti, ma anche dei numerosi riscontri esterni, escludendo la sussistenza di intenti calunniatori, che neppure il ricorrente evidenzia ed osservando come anche il giudice di primo grado avesse esaminato i dati fattuali indicati dalla difesa e da questa ritenuti rilevanti.
Tali considerazioni appaiono assistite da tenuta logica e coerenza strutturale e precedono le valutazioni sulla sussistenza dell’episodio di violenza sessuale, che viene esaminato specificamente, ovviamente all’esito della complessiva valutazione di attendibilità della persona offesa e dei riscontri esterni.
In risposta alle doglianze difensive il giudice dell’appello considera la collocazione temporale dell’episodio, motivatamente escludendo la dedotta contraddittorietà intrinseca del racconto della persona offesa, peraltro distinguendo tra il singolo episodio specificamente individuato nell’imputazione ed altre condotte genericamente riferite e non oggetto di contestazione.
A fronte di ciò, il ricorso lamenta la mancata considerazione di una serie di dati, anche documentali, che sostanzialmente dimostrerebbero che l’imputato non avrebbe posto in essere le condotte addebitategli.
Occorre rilevare, a tale proposito, che dei plurimi dati fattuali solo una parte risultano indicati nella sentenza impugnata come sottoposti all’esame dei giudici del gravame con l’atto di appello ed il ricorrente non ha specificamente contestato tale circostanza.
In ogni caso, deve ricordarsi che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in sede di legittimità non può muoversi censura ad una sentenza che, pur non prendendo espressamente in esame una deduzione prospettata con l’atto di impugnazione, evidenzi comunque una ricostruzione dei fatti che implicitamente, ma in maniera adeguata e logica, ne comporti il rigetto (Sez. 2, n. 35817 del 10/7/2019, Sirica, Rv. 276741; Sez. 2, n. 1405 del 10/12/2013, (dep. 2014), Cento, Rv. 259643; Sez. 5, n. 607 del 14/11/2013, (dep.2014), Maravalli, Rv. 258679; Sez. 2, n. 33577 del 26/5/2009, Bevilacqua, Rv. 245238; Sez. 2, n. 29434 del 19/5/2004, Candiano, Rv. 229220).
Non è inoltre possibile procedere, in questa sede, ad una autonoma valutazione dei dati fattuali e dei documenti allegati al ricorso.
4. Per ciò che concerne, invece, il secondo motivo di ricorso, occorre considerare che anche la sussistenza degli episodi ritenuti configurare il delitto di maltrattamenti è stata oggetto di accurata disamina da parte della Corte di appello, tenendo ancora una volta in considerazione non soltanto il complesso delle dichiarazioni della persona offesa, ma anche i risconti esterni, nonché evidenziando la conflittualità che caratterizzava il rapporto di coppia.
In tale contesto si è ritenuto accertata anche la convivenza, la cui sussistenza è oggetto di contestazione in ricorso.
Viene infatti dato atto dell’esistenza di una stabile relazione tra imputato e persona offesa, la quale andò a vivere nell’abitazione di costui, anche portando talvolta con sé la propria figlia, sebbene successivamente se ne era allontanata, pur mantenendo in locazione il proprio appartamento, il canone del quale risultava pagato anche dall’imputato, come rilevato dai documenti prodotti dalla difesa.
Sulla base di tali fattuali la Corte territoriale ha ritenuto la sussistenza di una stabile relazione sentimentale, connotata da assidua frequentazione e, talvolta, coabitazione dell’appartamento dell’imputato e da doveri di assistenza morale e materiale, in quanto tale caratterizzante il requisito della "convivenza" ritenuto necessario dalla giurisprudenza di questa Corte per la configurabilità del delitto di cui all’art. 572 c.p..
Si tratta tuttavia, ad avviso del Collegio, di una motivazione non sufficiente.
5. Come ricordato in una recente pronuncia di questa Corte (Sez. 6, n. 37628 del 25/6/2019, C, Rv. 276697) seppure con riferimento ad un diverso contesto, il delitto di maltrattamenti ha, quale presupposto, una relazione tra agente e vittima caratterizzata da uno stabile rapporto di affidamento e solidarietà, con la conseguenza che la condotta lesiva lede la dignità della persona infrangendo un rapporto che dovrebbe essere ispirato a fiducia e condivisione.
ll reato di maltrattamenti, ricorda la citata pronuncia, viene riconosciuto anche "in relazione a situazioni di non convivenza, ma in quanto succedute a precedente convivenza e, quindi, non nel senso di assenza di convivenza ma di cessata convivenza" e si evidenzia, testualmente, come il reato sia configurabile anche al di fuori della famiglia legittima, in presenza di un rapporto di stabile convivenza, come tale suscettibile di determinare obblighi di solidarietà e di mutua assistenza, senza che sia richiesto che tale convivenza abbia una certa durata, quanto - piuttosto - che sia stata istituita in una prospettiva di stabilità, quale che sia stato poi in concreto l’esito di tale comune decisione (Sez. 6, n. 20647 del 29/1/2008, Rv. 239726; Sez. 3, n. 44262 dell’8/11/2005, Rv. 232904; Sez. 6, n. 21329 del 24/1/2007, Rv. 236757; Sez. 3, n. 44262 del 8/11/2005, Rv. 232904).
Si osserva, altresì, che pur mancando vincoli nascenti dal coniugio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche in presenza di una relazione sentimentale che abbia comportato un’assidua frequentazione della abitazione della persona offesa tale da far sorgere sentimenti di solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale (Sez. 5, n. 24688 del 17/3/2010, Rv. 248312) odi un rapporto familiare di mero fatto in assenza di una stabile convivenza ma con un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà e assistenza (Sez. 6, n. 22915 del 7/5/2013, Rv. 255628; Sez. 6, n. 23830 del 07/05/2013, Rv. 256607).

6. Ciò posto, deve rilevarsi, tenendo presente i condivisibili principi appena richiamati, che la sentenza impugnata non offre adeguate indicazioni in ordine alla dimostrata esistenza di un rapporto tra l’imputato e la persona offesa collocabile nell’ambito di quelli individuati dalla giurisprudenza di questa Corte come rilevanti ai fini della configurabilità del reato in esame.
Invero, pur dandosi atto in sentenza della sussistenza di una stabile relazione tra imputato e persona offesa, definita "malata e tumultuosa", viene anche affermato che la stessa risultava instaurata da non molto tempo e, quanto alla coabitazione, essa era consistita nella permanenza "anche per due o tre giorni consecutivi" nella casa dell’imputato durante i turni di riposo dello stesso - ove la persona si recava, talvolta anche con la propria figlia, pur mantenendo la locazione del proprio appartamento il cui canone risultava versato anche dall’imputato, come deducibile dalla documentazione prodotta dalla difesa.
Si tratta, ad avviso del Collegio, di argomentazioni che non rendono adeguatamente conto della effettiva sussistenza di un rapporto di convivenza caratterizzato da stabilità e, sopratutto, da mutua solidarietà, atteso che dei doveri di reciproca assistenza morale e materiale che connoterebbero il rapporto tra imputato e persona offesa viene soltanto fatta menzione, senza tuttavia offrire una giustificazione fondata su elementi oggettivi.

Tale lacuna motivazionale, che assorbe l’ulteriore censura relativa alla violazione dell’art. 603 c.p.p., impone l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello per nuovo giudizio sul punto.
Lintervenuta revoca della costituzione di parte civile comporta, infine, la revoca delle statuizioni civili.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al capo A) - art. 572 c.p. - con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Roma.
Rigetta nel resto il ricorso.
Revoca le statuizioni civili.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.