L’individuazione di un soggetto - sia personale che fotografica - è una manifestazione riproduttiva di una percezione visiva e rappresenta, una specie del più generale concetto di dichiarazione; pertanto la sua forza probatoria non discende dalle modalità formali del riconoscimento, bensì dal valore della dichiarazione confermativa, alla stessa stregua della deposizione testimoniale.
Non è possibile pervenire ad una compiuta tipizzazione delle cautele procedimentali che devono assistere l’assunzione di un atto di riconoscimento fotografico o personale effettuato dinanzi alla polizia giudiziaria, stante la atipicità di detto strumento probatorio, sicché la metodologia dell’assunzione del riconoscimento fotografico potrà influenzare la sua efficacia dimostrativa, sotto il profilo della valenza di attendibilità della dichiarazione attraverso la quale viene veicolato ed introdotto nel processo, ma non potrà certamente essere ritenuta idonea a generare nullità o inutilizzabilità di sorta, qualora non si avvicini o non ricalchi le sembianze procedimentali previste dall’art. 213 c.p.p..
Corte di Cassazione
sez. V Penale
sentenza 10 – 29 luglio 2020, n. 23090
Presidente Sabenone – Relatore Brancaccio
Ritenuto in fatto
1. Con la sentenza impugnata, datata 10.7.2018, la Corte d’Appello di Catania ha confermato la pronuncia del Tribunale di Catania del 15.9.2017, con cui S.A.A. è stato condannato alla pena di tre anni di reclusione e 500 Euro di multa per i reati di concorso in furto aggravato e concorso in porto illegale aggravato di due coltelli, insieme ad altri tre complici, nei confronti dei quali si è proceduto separatamente.
Le aggravanti del furto ritenute dai giudici di merito sono state l’aver agito con violenza sulle cose e su cose esposte alla pubblica fede, nonché l’aver agito in quattro persone.
2. Avverso la pronuncia d’appello propone ricorso l’imputato mediante il difensore avv. A. R..
2.1. Il primo motivo di ricorso deduce vizio di motivazione mancante o illogica e contraddittoria quanto all’affermazione di colpevolezza del ricorrente per entrambe le contestazioni oppostegli.
Il riconoscimento dell’imputato da parte dell’unico teste - il L. , che lo aveva visto fuggire dal luogo del delitto - è avvenuto in condizioni critiche di tempo e modo (di notte, con condizioni di cattiva visibilità, nel corso della fuga ed avendolo potuto osservare solo di profilo): la difesa del ricorrente dubita della sua effettività e ritiene piuttosto che esso si sia basato su un intimo convincimento del carabiniere, successivamente alla visione del documento d’identità del ricorrente.
La Corte d’Appello non spiega perché ritiene attendibile il riconoscimento e risponde in modo apodittico ai dubbi del ricorrente già sollevati nell’impugnazione di merito.
2.2. La seconda delle censure difensive attiene ancora al riconoscimento dell’imputato, ritenuto critico anche sotto il profilo dell’inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità o decadenza.
La Corte di merito ha omesso di rispondere al motivo relativo all’illegittimità e inutilizzabilità dei due verbali indicati come "di riconoscimento", acquisiti all’udienza del 28.2.2014.
In particolare, si deduce che il verbale di ricognizione non recherebbe la specifica indicazione del fatto che il riconoscimento fosse stato preceduto da una descrizione dell’imputato preliminare alla ricognizione, doverosa per consentire ogni verifica da parte della difesa.
La violazione delle forme previste per la ricognizione di persona, dunque, inficia il riconoscimento.
2.3. Il terzo motivo di ricorso censura il vizio di illogicità, contraddittorietà e mancanza della motivazione del provvedimento impugnato ancora una volta quanto all’affermazione di responsabilità del ricorrente, questa volta sotto il profilo dell’erronea valutazione della piattaforma probatoria: non vi sarebbe prova del concorso dell’imputato nel reato commesso dagli altri tre complici - arrestati in flagranza in possesso della refurtiva e degli strumenti da scasso a bordo della loro auto, subito dopo il furto - dal momento che il ricorrente era stato soltanto colto all’esterno della vettura dal cui interno era stata sottratta la refurtiva ed aveva cominciato a scappare per evitare l’identificazione, secondo quella che è la stessa testimonianza del carabiniere intervenuto.
Si evidenzia, pertanto, che la mera presenza sul luogo del delitto da parte dell’imputato non può essere ritenuta sufficiente a fondare le accuse di concorso nel reato da parte sua, nè può essere rilevante la circostanza della conoscenza tra il ricorrente e i tre autori del reato colti in flagranza.
Inoltre, la Corte non ha preso in alcuna considerazione le dichiarazioni di questi ultimi, che hanno escluso il coinvolgimento nel reato del ricorrente.
2.4. Il quarto motivo di ricorso deduce vizio di motivazione, contraddittoria e illogica, della sentenza impugnata quanto alla dosimetria della pena, nella quale non si è tenuto conto in primo grado dell’aumento per la continuazione, commisurando la pena al minimo edittale solo per il reato di furto.
2.5. Un ultimo argomento difensivo attiene alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, negata nonostante l’imputato sia incensurato ed abbia subito, dopo i fatti, una malattia invalidante; non risulta, altresì, che egli abbia avuto un ruolo effettivo nella commissione del reato in concorso con gli altri tre presunti complici, i quali, avendo definito la loro posizione con un rito alternativo, hanno ottenuto un giudizio dosimetrico della sanzione molto più favorevole rispetto al ricorrente (sono stati condannati a sei mesi di reclusione, a fronte dei tre anni di reclusione inflitti a S. ).
Considerato in diritto
1. Il ricorso è inammissibile.
2. I primi due motivi, che attengono entrambi alla valenza del riconoscimento dell’imputato, sono manifestamente infondati.
Dal punto di vista processuale, anzitutto deve essere chiarito che agli atti del procedimento, per quanto consta dalle sentenze di merito ed è dato comprendere anche dal ricorso e dagli allegati, sono stati acquisiti due verbali di ricognizione: uno fotografico, da parte del carabiniere F. ; l’altro effettuato "in presenza" dalla polizia giudiziaria intervenuta e, in particolare, dal teste L. .
Orbene, il riconoscimento fotografico operato in sede di indagini di polizia giudiziaria, ancorché non sia regolato dal codice di rito, costituisce un accertamento di fatto utilizzabile in giudizio ai sensi dell’art. 189 c.p.p. (Sez. 5, n. 6456 del 01/19/2015, Verde, Rv. 266023) e catalogabile, dunque, nel novero delle cd. prove atipiche.
La certezza del riconoscimento fotografico non discende dal riconoscimento come strumento probatorio, ma dall’attendibilità accordata alla deposizione di chi si dica certo dell’individuazione (ex multis: Sez. 6, n. 17103 del 31/20/2018, dep. 2019, Aouchini, Rv. 275548; Sez. 5, n. 9505 del 24/11/2015, dep. 2016, Coccia, Rv. 267562; Sez. 4, n. 16902 del 04/02/2004, Pantaleo, Rv. 228043).
Egualmente ciò vale per il riconoscimento personale effettuato dalla polizia giudiziaria, di cui si verte nel caso di specie, essendo stato sentito in dibattimento il teste L. , autore del riconoscimento personale in caserma il giorno (OMISSIS).
È stato molto chiaramente affermato, infatti, con un principio che il Collegio ribadisce, che l’individuazione di un soggetto - sia personale che fotografica - è una manifestazione riproduttiva di una percezione visiva e rappresenta, una specie del più generale concetto di dichiarazione; pertanto la sua forza probatoria non discende dalle modalità formali del riconoscimento, bensì dal valore della dichiarazione confermativa, alla stessa stregua della deposizione testimoniale (Sez. 4, n. 1867 del 21/2/2013, dep. 2014, Jonovic, Rv. 258173).
Da ciò consegue che, anche nelle ipotesi in cui il riconoscimento sia operato da agenti della polizia giudiziaria, il giudice non è esonerato dalla valutazione della efficacia dimostrativa di tale atto.
E tuttavia, il rispetto delle modalità formali previste dall’art. 213 c.p.p., per la ricognizione di persona effettuata dinanzi al giudice nel corso del processo - costituente una prova tipica - non è un’opzione obbligata, come sembra invece sostenere il ricorrente, elencando requisiti dell’atto di riconoscimento che evocano tale disposizione e che sarebbero stati disattesi.
Nella giurisprudenza di legittimità, alcune pronunce hanno in passato espressamente affermato che l’individuazione fotografica non deve essere preceduta dalla descrizione delle fattezze fisiche della persona indagata, trattandosi di adempimento preliminare richiesto solo per la ricognizione di persona (Sez. 2, n. 9380 del 20/02/2015, Panarese, Rv. 263302; Sez. 1, n. 47937, del 09/11/2012, Palumbo, Rv. 253885); altre pronunce, pur rilevando che le modalità con cui viene effettuato il riconoscimento devono avvicinarsi il più possibile all’analogo mezzo di prova tipico costituito dalla ricognizione di persona, non arrivano certo ad omologare tale ultimo mezzo di prova a quello atipico dell’individuazione fotografica o svolta "in presenza" dinanzi alla polizia giudiziaria nel corso delle indagini preliminari (cfr. Sez. 5, n. 9505, del 24/11/2015, Coccia, Rv. 267562; Sez. 6, n. 17747 del 15/2/2017, Buonaurio, Rv. 269876).
Ed allora deve concludersi che non è possibile pervenire ad una compiuta tipizzazione delle cautele procedimentali che devono assistere l’assunzione di un atto di riconoscimento fotografico o personale effettuato dinanzi alla polizia giudiziaria, stante la atipicità di detto strumento probatorio, sicché la metodologia dell’assunzione del riconoscimento fotografico potrà influenzare la sua efficacia dimostrativa, sotto il profilo della valenza di attendibilità della dichiarazione attraverso la quale viene veicolato ed introdotto nel processo, ma non potrà certamente essere ritenuta idonea a generare nullità o inutilizzabilità di sorta, qualora non si avvicini o non ricalchi le sembianze procedimentali previste dall’art. 213 c.p.p..
In coerenza con la linea interpretativa appena enunciata e da preferirsi, a giudizio del Collegio, è stato anche affermato che l’individuazione diretta di persona effettuata nei locali della polizia giudiziaria (nella specie, dalle persone offese) trova il suo paradigma nella prova dichiarativa proveniente da un soggetto che dichiara di avere accertato direttamente l’identità personale dell’imputato. Pertanto, essa deve essere tenuta distinta dalla ricognizione personale, disciplinata dall’art. 213 c.p.p., essendo inquadrabile, invece, tra le prove non disciplinate dalla legge di cui all’art. 189 c.p.p., e pienamente utilizzabile, ferma restando la facoltà del giudice di apprezzarne liberamente le risultanze (Sez. 2, n. 16773 del 20/3/2015, Osas, Rv. 263767; vedi anche sul tema, Sez. 5 n. 51729 del 12/10/2016, D B, Rv. 268860).
Deve, pertanto, affermarsi il seguente principio di diritto: "l’individuazione di un soggetto - sia personale che fotografica - da parte della polizia giudiziaria in fase di indagini è una manifestazione riproduttiva di una percezione visiva e rappresenta, una specie del più generale concetto di dichiarazione, sicché la sua forza probatoria non discende dalle modalità formali del riconoscimento, bensì dal valore della dichiarazione confermativa assunta in sede di deposizione testimoniale; trattandosi di una prova atipica ex art. 189 c.p.p., essa deve essere tenuta distinta dalla ricognizione personale, disciplinata espressamente nelle sue forme dall’art. 213 c.p.p., nè le forme tipizzate di quest’ultima devono essere osservate necessariamente nella metodologia di assunzione dell’individuazione personale o fotografica, potendo eventualmente essere utili alla sua efficacia dimostrativa secondo il criterio del libero apprezzamento del giudice".
Nel caso del ricorrente S. , la Corte d’Appello, e prima ancora il giudice di primo grado, hanno svolto il dovuto vaglio di attendibilità del teste di polizia giudiziaria, che ha effettuato il riconoscimento "in presenza" presso la caserma dei carabinieri, attestandone la particolare convinzione sulla certezza dell’individuazione dell’imputato per essere il quarto uomo sfuggito all’arresto in flagranza della notte stessa del reato dopo un inseguimento (peraltro l’individuazione è confortata, per quanto si comprende dalla motivazione e dal verbale allegato al ricorso, anche dal riconoscimento analogo di altri militari dei carabinieri intervenuti al momento del reato).
Il teste L. - sottolinea la Corte di merito - ha riferito di aver visto il ricorrente chiaramente e di averlo in seguito riconosciuto senza ombra di dubbio, avendolo ben osservato durante l’inseguimento; sono stati fatti controlli sulle frequentazioni e queste coinvolgevano i complici poi arrestati in flagranza a bordo dell’auto dentro cui sono stati trovati gli oggetti della refurtiva, ad ulteriore conferma dell’attendibilità del risultato di accertamento finale.
Dunque, non soltanto la dichiarazione del teste ha superato il vaglio di attendibilità e risulta credibile quanto al riconoscimento del ricorrente come complice del reato, ma ulteriori elementi indiziari confortano tale individuazione.
Del resto, affermare, come fa il ricorso, che solo perché i fatti sono avvenuti di notte non sarebbe di per sé possibile effettuare un riconoscimento dell’autore di un reato con margini di buona attendibilità è a dir poco una petizione di principio indimostrata nella realtà. Anche nel merito, pertanto, le osservazioni della difesa del ricorrente sono, per l’altro profilo di doglianza eccepito, manifestamente infondate.
3. Il terzo motivo è svolto in fatto e chiede al Collegio, in ultima analisi una rivalutazione nel merito della piattaforma probatoria, non consentita in sede di legittimità, dimenticando che la neutralità del dato che il ricorrente "sostasse" - come afferma la difesa - proprio vicino all’auto da cui era stata sottratta la refurtiva rinvenuta a bordo di quella degli altri tre concorrenti è implausibile per le circostanze di tempo in cui si è verificata la situazione - l’imputato è stato trovato insieme ai complici, in un orario a dir poco insolito (le quattro del mattino) - e per il suo comportamento successivo all’arrivo dei militari: la fuga repentina dal posto per evitare di essere riconosciuto e bloccato insieme agli altri, risultati suoi conoscenti perché controllati insieme in precedenza.
In sintesi, la Corte d’Appello ha scelto, motivandola adeguatamente, l’opzione che oltre ogni ragionevole dubbio si prospettava logica e fondata, a meno di non voler conferire valore di alternativa plausibile ad una ricostruzione di quanto avvenuto in termini di una serie di incredibili coincidenze.
Ed infatti, in tema di valutazione della prova, l’omessa prospettazione da parte dell’imputato di una ricostruzione alternativa plausibile dai fatti in addebito, pur non potendo essere valutata come prova a carico, può costituire un argomento di supporto logico della assenza di ipotesi suscettibili di minare il giudizio di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio già espresso sulla base delle prove acquisite (Sez. 6, n. 50542 del 12/11/2019, Erario, Rv. 277682).
Deve ribadirsi, pertanto, il principio, di recente espresso molto chiaramente, secondo cui, nel giudizio di legittimità, perché sia ravvisabile la manifesta illogicità della motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), è necessario che la ricostruzione dei fatti prospettata dall’imputato che intenda far valere l’esistenza di un ragionevole dubbio sulla sua colpevolezza, contrastante con il procedimento argomentativo seguito dal giudice, sia inconfutabile e non rappresentativa soltanto di un’ipotesi alternativa a quella ritenuta nella sentenza impugnata, dovendo il dubbio sulla corretta ricostruzione del fatto-reato nei suoi elementi oggettivo e soggettivo fare riferimento ad elementi sostenibili, cioè desunti dai dati acquisiti al processo, e non meramente ipotetici o congetturali seppure plausibili (Sez. 2, n. 3817 del 9/10/2019, dep. 2020, Mannile, Rv. 278237; vedi anche Sez. 5, n. 18999 del 19/2/2014, C, Rv. 260409).
Nel caso di specie, la scarsa plausibilità dell’ipotesi alternativa, formulata anche in modo del tutto vago, rende ancor più salda la verifica del canone logico dell’oltre ogni ragionevole dubbio, il cui superamento è necessario all’affermazione di colpevolezza.
4. Il quarto motivo di ricorso è inammissibile per mancanza di interesse.
L’imputato lamenta il mancato aumento per la continuazione criminosa tra il reato di furto e quello, pure contestato ed accertato, di porto illegale di due coltelli.
È evidente che la ragione difensiva è puramente pretestuosa, essendo indubbio che dall’errore nella dosimetria della pena si sia determinato un risultato sanzionatorio più favorevole al ricorrente.
Costituisce orientamento consolidato, invero, ritenere che, in tema di impugnazioni, l’interesse richiesto dall’art. 568 c.p.p., comma 4, sussista solo se il gravame sia idoneo a determinare, attraverso l’eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa per l’impugnante rispetto a quella esistente, non essendo tutelabile attraverso il sistema delle impugnazioni un interesse astratto all’esatta applicazione della legge (Sez. 6, n. 47498 del 22/9/2015, H V., Rv. 265242; Sez. 1, n. 3083 del 23/9/2014, dep. 2015, Stracuzzi, Rv. 262181; Sez. 6, n. 49879 del 6/12/2012, Leskaj, Rv. 258060; Sez. U, n. 42 del 13/12/1995, Timpani, Rv. 203093).
5. Il quinto argomento difensivo censura il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, tuttavia motivato dalla Corte d’Appello in relazione alla gravità della condotta ed al comportamento complessivo dell’imputato, che colora l’intensità del coefficiente soggettivo doloso. Inoltre, la Corte richiama nel suo complesso l’adeguatezza della sanzione inflitta in primo grado avuto riguardo al disvalore del reato compiuto.
La motivazione resa si sottrae alla verifica di questa Corte, secondo il pacifico orientamento in base al quale, in tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 c.p., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione (così, da ultimo, Sez. 5, n. 43952 del 13/4/2017, Pettinelli, Rv. 271269; Sez. 2, n. 3896 del 20/1/2016, De Cotiis, Rv. 265826; Sez. 3, n. 28535 del 19/3/2014, Lule, Rv. 259899).
6. Alla declaratoria d’inammissibilità segue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente che lo ha proposto al pagamento delle spese processuali nonché, ravvisandosi profili di colpa relativi alla causa di inammissibilità (cfr. sul punto Corte Cost. n. 186 del 2000), al versamento, a favore della Cassa delle Ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 3.000.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.