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Laconiche conferme delle SIT bastano per prova (Cass. 35428/18)

25 luglio 2018, Cassazione penale

Le dichiarazioni predibattimentali utilizzate per le contestazioni al testimone, che siano state successivamente confermate - anche se in termini laconici, vanno recepite e valutate come dichiarazioni rese direttamente dal medesimo in sede dibattimentale. In particolare, si è ritenuto che, sebbene l'art. 500 c.p.p., comma 2, preveda che le contestazioni possano "essere valutate ai fini della credibilità del teste", non può certo ritenersi che il contenuto della contestazione, laddove abbia comunque, e finanche in termini laconici, trovato conferma da parte dell'esaminato, non debba poi, necessariamente e logicamente, essere apprezzato e recepito quale dichiarazione resa direttamente dal medesimo in sede dibattimentale. In sostanza, la norma di cui all'art. 500 c.p.p., comma 2, concerne pur sempre l'ipotesi di dichiarazioni dibattimentali dell'esaminato difformi da quelle contenute nell'atto adoperato per le contestazioni, che in precedenza (nel testo previgente dell'art. 500 c.p.p., comma 4) "erano acquisite al fascicolo dibattimentale e valutate come prova dei fatti in esse affermati".

Ne consegue che, laddove non sia possibile ravvisare tale difformità, ovvero questa sia venuta meno a seguito della contestazione, si rientra nell'ambito della normale deposizione che, nella specie, va ricondotta nell'alveo delle dichiarazioni dibattimentali, rese da persona offesa.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE II PENALE

 (data ud. 08/05/2018) 25/07/2018, n. 35428

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sui ricorsi proposti da:

C.C. nato a (OMISSIS);

P.M. nata a (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 174 della Corte d'Appello di Reggio Calabria del 18.2.2016;

Visti gli atti, la sentenza e i ricorsi;

Udita nella pubblica udienza dell'8.5.2018 la relazione fatta dal Consigliere Dott.ssa Giuseppina Anna Rosaria Pacilli;

Udito il Sostituto Procuratore Generale in persona del Dott. ANGELILLIS Ciro, che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi;

Uditi gli avv.ti EBM e DP, difensori dei ricorrenti, che hanno chiesto l'accoglimento dei ricorsi.

Svolgimento del processo


Con sentenza del 18 febbraio 2016 la Corte d'appello di Reggio Calabria, in riforma della sentenza emessa il 17 giugno 2014 dal Tribunale di Palmi, ha rideterminato la pena inflitta a P.M. e C.C., in atti generalizzati, escludendo, per la prima, l'aggravante di cui all'art. 628 c.p., n. 3 e art. 629 c.p. e confermando nel resto la pronuncia impugnata, con cui i predetti imputati sono stati condannati per il delitto di estorsione aggravata ai danni di I.R., essendo stato accertato che C.C. e S.G. erano stati autori di un'esplicita richiesta estorsiva di una somma di denaro, da consegnare a P.M., madre del C.C., in cambio della consegna di un trattore, sottratto alla persona offesa.

Avverso la sentenza d'appello i difensori degli imputati hanno proposto ricorsi per cassazione.

Il difensore di C.C. ha dedotto la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione all'art. 125c.p.p., comma 3, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e) con specifico riferimento all'art. 629 c.p., comma 2.

In particolare, il ricorrente, premessa l'inconferenza delle decisioni della Corte di cassazione, richiamate nella sentenza impugnata, ha censurato il rigetto dell'eccezione difensiva relativa all'inutilizzabilità, ai fini delle contestazioni in sede di esame dibattimentale, delle dichiarazioni rese dalla persona offesa nelle fase delle indagini, allorquando aveva ancora la veste di indagata.

Illegittimo sarebbe anche l'esame della persona offesa come testimone anzichè come imputata di reato connesso, con correlata facoltà di non rispondere, essendo stato emesso nei confronti della medesima un mero decreto di archiviazione, suscettibile di essere superato dalla riapertura delle indagini.

Per di più, la Corte d'appello non avrebbe effettuato alcun giudizio sia sulla credibilità della persona offesa, che avrebbe reso dichiarazioni non chiare, sia sull'attendibilità intrinseca ed estrinseca del collaboratore di giustizia S.G., considerato non credibile in altri processi.

Errata sarebbe anche la ritenuta configurabilità dell'aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 non essendo stata posta in essere nessuna attività con metodo mafioso.

Il difensore di P.M. ha dedotto i seguenti motivi:

1) violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione all'art. 125 c.p.p., comma 3, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), con specifico riferimento all'art. 629 c.p., comma 2, per non avere la Corte d'appello adeguatamente motivato sulle deduzioni difensive, tra cui, anzitutto, quelle sulla credibilità soggettiva e sull'attendibilità intrinseca delle dichiarazioni della persona offesa;

2) violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione all'art. 125 c.p.p., comma 3, art. 192 c.p.p., commi 1 e 2, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), con specifico riferimento all'art. 629 c.p., comma 2 c.p., per avere la Corte d'appello applicato erroneamente le regole di giudizio di cui all'art. 192 c.p.p., commi 1 e 2, e valutato illogicamente e contraddittoriamente gli elementi di prova. Ciò con particolare riferimento alle dichiarazioni della persona offesa, non sottoposte a quel vaglio di credibilità oggettiva e soggettiva, richiesto dal giudice della legittimità, più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. La Corte d'appello, infatti, avrebbe liquidato in tre righe la giustificazione sulla confusione, manifestata dalla persona offesa (ritenendola dovuta al tempo e ai numerosi episodi che l'avrebbero vista come vittima), ed avrebbe frazionato le dichiarazioni della stessa, senza spiegare perchè, per un verso, fossero sufficienti ad affermare la responsabilità della ricorrente e, per altro verso, fossero inidonee a sorreggere l'affermazione di responsabilità della presunta concorrente nel reato C.D., malgrado quest'ultima fosse stata indicata come colpevole dalla persona offesa. Per di più, la Corte di merito avrebbe riconosciuto in capo alla persona offesa un intento calunniatore nei confronti del collaboratore S. ma non avrebbe spiegato perchè tale intento fosse stato ritenuto compatibile con una più generale affermazione di credibilità soggettiva del dichiarante. Non avrebbe inoltre tenuto conto delle deduzioni difensive relative alla non convergenza sul nucleo essenziale del fatto delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia S. con quelle della persona offesa;

3) violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione all'art. 125 c.p.p., comma 3, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), con specifico riferimento all'art. 110 c.p. e art. 629 c.p., comma 2, per non avere la Corte di merito motivato sulla minaccia o sulla violenza, in ipotesi connotanti la condotta della ricorrente, e per non aver fatto buon governo dei principi in tema di concorso di persone nel reato, essendo la ricorrente stata ritenuta concorrente sostanzialmente sulla base del rapporto di parentela con il figlio ed avendo i giudici di merito travisato la prova, essendo stata la moglie dell'imputato e non la ricorrente - come affermato dalla persona offesa - a mettere in contatto la persona offesa con l'imputato ed avendo la persona offesa detto di essere stata invitata dall'imputato a consegnare i soldi alla ricorrente ma non di avere effettivamente agito così;

4) violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione all'art. 125 c.p.p., comma 3, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), con specifico riferimento al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 per essersi la Corte d'appello limitata ad inferire l'esistenza dell'aggravante del metodo mafioso dalla presunta condotta estorsiva, ritenuta di per sè sola espressione della forza intimidatrice propria di un'associazione mafiosa. Peraltro, la motivazione al riguardo adottata dalla Corte di merito non farebbe alcun riferimento alla figura della ricorrente ma solo all'agire di C.C. e di S.G.;

5) violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione all'art. 125 c.p.p., comma 3, art. 192 c.p.p., commi 1 e 2, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e) con specifico riferimento all'art. 62 bis c.p., per essere stato valorizzato, al fine del diniego delle attenuanti generiche, il presunto ruolo rilevante dell'imputata, già considerato per affermare la responsabilità della stessa (così effettuando una sorta di doppia valutazione in malam partem), e per non avere considerato elementi positivi, quali l'episodicità ed il carattere non violento della condotta.

All'odierna udienza pubblica è stata verificata la regolarità degli avvisi di rito; all'esito, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe e questa Corte, riunita in camera di consiglio, ha deciso come da dispositivo in atti, pubblicato mediante lettura in pubblica udienza.

Motivi della decisione

1. I ricorsi sono integralmente inammissibili perchè presentati per motivi non consentiti, privi di specificità nelle loro articolazioni (in quanto reiterativi di doglianze già esaminate e non accolte dalla Corte d'appello) e, comunque, manifestamente infondati.

1.1 Partendo dal ricorso proposto da C.C., deve innanzitutto rilevarsi che difetta di specificità la doglianza relativa all'illegittimità della deposizione resa dalla persona offesa quale teste anzichè come imputata di reato connesso.

Difatti, come rilevato già dalla Corte d'appello, il giudice di primo grado ha correttamente proceduto all'esame della persona offesa come teste, essendo stato emesso nei confronti della stessa decreto di archiviazione.

Così decidendo, il giudice di merito ha fatto buon governo dei principi enunciati in questa sede (v. S.U., n. 12067 del 17/12/2009, Rv. 246376; Sez. 2, n. 4123 del 9/1/2015, Rv. 262367), secondo cui non sussiste incompatibilità ad assumere l'ufficio di testimone per la persona offesa, già indagata in procedimento connesso ai sensi dell'art. 12 c.p.p., comma 1, lett. c), o per reato probatoriamente collegato, definito con provvedimento di archiviazione, in quanto la disciplina limitativa della capacità di testimoniare, prevista dall'art. 197 c.p.p., comma 1, lett. a) e b), artt. 197 bis e 210 c.p.p., si applica solo all'imputato, al quale è equiparata la persona indagata nonchè il soggetto già imputato, salvo che sia stato irrevocabilmente prosciolto per non aver commesso il fatto.

1.1.1 Priva del requisito della specificità e, comunque, manifestamente infondata è anche la censura in merito all'inutilizzabilità, al fine delle contestazioni, delle dichiarazioni rese dalla persona offesa nella fase delle indagini preliminari, allorquando aveva ancora la veste di indagata.

Al riguardo, come ricordato nella sentenza impugnata, questa Corte (Sez. 2, n. 44877 del 29/11/2011, Rv. 251361) ha già avuto modo di osservare che il principio secondo cui la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi, che dipendono da quello dichiarato nullo, non trova applicazione in materia di inutilizzabilità, riguardando quest'ultima solo le prove illegittimamente acquisite e non altre, la cui acquisizione sia avvenuta in modo autonomo e nelle forme consentite.

Nel caso in esame, la Corte territoriale, dopo aver richiamato tale principio, ha ritenuto che le dichiarazioni, rese nel corso del dibattimento dalla persona offesa, "contengono autonomamente tutti gli elementi per affermare la responsabilità dei due imputati", quali autori dell'esplicita richiesta estorsiva di una somma di denaro, da consegnare alla madre del C.C., in cambio della consegna del trattore sottratto.

Ciò, sebbene, in sede dibattimentale, "l' I. è sembrato voler minimizzare la posizione del C.C., che ha riferito di conoscere sin da piccolo, rispetto a quella del S.".

Secondo la Corte d'appello, dunque, la persona offesa aveva confermato in dibattimento quanto dichiarato in sede di indagine, così che il conclusivo giudizio di responsabilità del ricorrente si fonda su dichiarazioni dibattimentali e non sulle contestazioni.

Anche il giudice di primo grado aveva affermato che l' I. aveva tentato "di attribuire la condotta all'esclusiva responsabilità del S. (oggi collaboratore di giustizia e quindi non più in grado di nuocere)" ma aveva di seguito ceduto alle sollecitazioni del Pubblico ministero "che lo ha poi costretto a delineare in termini convincenti gli esatti termini della vicenda".

Così argomentando, i giudici di merito si sono allineati a quanto già affermato da questa Corte (Sez. 4, n. 18973 del 9.3.2009, Rv 244042; Sez. 2, n. 17089 del 28/02/2017, Rv. 270091), secondo cui le dichiarazioni predibattimentali utilizzate per le contestazioni al testimone, che siano state successivamente confermate - anche se in termini laconici, vanno recepite e valutate come dichiarazioni rese direttamente dal medesimo in sede dibattimentale. In particolare, si è ritenuto che, sebbene l'art. 500 c.p.p., comma 2, preveda che le contestazioni possano "essere valutate ai fini della credibilità del teste", non può certo ritenersi che il contenuto della contestazione, laddove abbia comunque, e finanche in termini laconici, trovato conferma da parte dell'esaminato, non debba poi, necessariamente e logicamente, essere apprezzato e recepito quale dichiarazione resa direttamente dal medesimo in sede dibattimentale. In sostanza, la norma di cui all'art. 500 c.p.p., comma 2, concerne pur sempre l'ipotesi di dichiarazioni dibattimentali dell'esaminato difformi da quelle contenute nell'atto adoperato per le contestazioni, che in precedenza (nel testo previgente dell'art. 500 c.p.p., comma 4) "erano acquisite al fascicolo dibattimentale e valutate come prova dei fatti in esse affermati".

Ne consegue che, laddove non sia possibile ravvisare tale difformità, ovvero questa sia venuta meno a seguito della contestazione, si rientra nell'ambito della normale deposizione che, nella specie, va ricondotta nell'alveo delle dichiarazioni dibattimentali, rese da persona offesa.

Nel caso in esame, a fronte delle menzionate argomentazioni dei giudici di merito, la difesa del ricorrente ha estrapolato un inciso relativo ad una singola contestazione del Pubblico ministero ma non ha dato specificamente conto, nella dovuta valutazione non atomistica ma complessiva delle dichiarazioni della persona offesa, della sua affermazione secondo cui l'attribuibilità della condotta estorsiva al ricorrente si baserebbe esclusivamente sulle contestazioni effettuate.

Del resto, a smentita dell'assunto del ricorrente sulla discrasia tra le dichiarazioni rese in sede dibattimentale dalla persona offesa e quelle utilizzate per le contestazioni, soccorre il rilievo che alla stessa domanda della difesa, riportata nel ricorso, concernente il soggetto da cui provenivano le richieste di denaro, la persona offesa ha risposto che il S. e il C.C. "erano sempre insieme".

1.1.2 Immune da vizi è anche la motivazione posta a fondamento della ritenuta attendibilità della persona offesa e di S.G..

La Corte d'appello, infatti, ha non solo sottolineato che le dichiarazioni della persona offesa erano state puntuali sullo specifico episodio dell'estorsione, realizzata mediante furto del trattore, ma ha altresì avuto cura di precisare che non poteva "minare la precisione e la coerenza della ricostruzione della vicenda, per cui si procede" l'iniziale confusione, effettuata dalla predetta parte lesa con i fatti riguardanti i danneggiamenti subiti tramite il taglio degli alberi, dovuta al tempo trascorso e ai numerosi episodi che l'avevano vista come vittima.

Peraltro, le parole della persona offesa avevano trovato riscontro in quelle del collaboratore S. ed, essendo assai precise sull'episodio del trattore, non potevano essere assimilate a quelle ritenute non attendibili, rese in altro procedimento, relativo a un episodio del tutto diverso da quello in esame.

Trattasi, all'evidenza, di motivazione che sfugge al sindacato di questa Corte, condividendo il collegio l'orientamento, oramai consolidato (cfr. ex multis Sez. 2, n. 7667 del 29/1/2015, Rv. 262575; Sez. 3, n. 8382 del 22/01/2008, Rv. 239342), secondo cui, in tema di valutazione della prova testimoniale, l'attendibilità della persona offesa dal reato è una questione di fatto, che ha la sua chiave di lettura nell'insieme di una motivazione logica, che non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice sia incorso in manifeste contraddizioni; ipotesi, quest'ultima, che non ricorre nella specie.

1.1.3 Nessun rilievo censorio può muoversi alla motivazione della sentenza nella parte in cui ha ritenuto sussistente l'aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7.

A tal riguardo va preliminarmente ricordato che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante di cui al menzionato art. 7 è necessario l'effettivo ricorso, nell'occasione delittuosa contestata, al metodo mafioso, il quale deve essersi concretizzato in un comportamento oggettivamente idoneo ad esercitare sulle vittime del reato la particolare coartazione psicologica, evocata dalla norma de qua (cfr., Sez. 6, n. 28017 del 6/05/2011, Rv. 250541; Sez. 2, n 45321 del 14/10/2015, Rv. 264900).

La medesima giurisprudenza riconosce, altresì, che l'aggravante anzidetta ricorre nel delitto di estorsione se in esso si riscontra che la condotta minacciosa, oltre ad essere obiettivamente idonea a coartare la volontà del soggetto passivo, sia espressione di capacità persuasiva, in ragione del vincolo dell'associazione mafiosa, e sia, pertanto, idonea a determinare una condizione d'assoggettamento e d'omertà (Sez. 2, n. 10467 del 10.2.2016, Rv 266654; Sez. 5, sent. n. 28442 del 17/04/2009, Rv. 244333). Invero, l'elemento caratterizzante del D.L. n. 152 del 1991, art. 7 non necessariamente deve essere diverso e più specifico rispetto alla minaccia integrante l'elemento costitutivo del reato di cui all'art. 629 c.p., essendo invece rilevante l'indagine volta a verificare se la condotta minacciosa, ascritta agli imputati, oltre ad essere obiettivamente idonea a coartare la volontà del soggetto passivo del reato, sia o meno espressione di capacità persuasiva promanante dalla forza del vincolo associativo e sia, dunque, idonea a determinare nel destinatario la condizione di assoggettamento e di omertà. Ad integrare tale elemento, non occorre pertanto un quid ulteriore e diverso, essendo sufficiente la verifica che la capacità persuasiva si riconnetta a determinate modalità della stessa condotta ed alla qualità dell'agente.

A tali principi si è uniformata la Corte d'appello, che ha rimarcato, infatti, che " C.C. e S. erano latitanti per fatti di mafia e non facevano mistero della loro appartenenza alla criminalità organizzata, tanto da indurre la persona offesa a non rivolgersi alle forze dell'ordine per il furto subito e ad acconsentire alle richieste di denaro".

L'anzidetta Corte ha aggiunto che "proprio la circostanza che i due latitanti abbiano agito manifestamente e senza alcuna precauzione - nei confronti di una persona che li conosceva e che avrebbe potuto rivelare alle forze dell'ordine la zona della latitanza - rivendicando il furto del trattore e avanzando la richiesta estorsiva in modo del tutto manifesto... sta a dimostrare come costoro abbiano perpetrato la condotta criminosa con quella ostentazione di sicurezza di impunità che è tipica espressione dell'agire mafioso".

1.2 Anche i motivi del ricorso proposto nell'interesse di P.M. sono privi del requisito della specificità e, comunque, manifestamente infondati.

1.2.1 Riguardo ai primi due motivi, che, in quanto connessi, possono essere trattati congiuntamente, deve premettersi che questa Corte ha già avuto modo di affermare che non ha rilievo il silenzio del giudice di merito su una specifica deduzione, prospettata con il gravame, qualora si tratti di deduzione disattesa dalla motivazione complessivamente considerata, non essendo necessaria l'esplicita confutazione delle specifiche tesi difensive (ex multis, Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014, Pirajno e altro).

Deve altresì premettersi, con specifico riferimento alle valutazioni effettuate dal giudice di merito in ordine all'attendibilità della persona offesa, che il Collegio condivide la consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui le regole dettate dall'art. 192 c.p.p., comma 3 non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di responsabilità, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che, in tal caso, deve essere più penetrante e rigoroso rispetto a quella a cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. Questa Corte ha altresì precisato come, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi (S.U., n. 41461 del 19/07/2012, Rv. 253214).

Peraltro, come già ricordato, costituisce principio incontroverso nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui la valutazione dell'attendibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto, che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni.

Ciò posto, osserva il Collegio che la Corte distrettuale ha fatto buon governo dei suindicati principi e ha esplicitato in modo coerente il percorso logico argomentativo attraverso il quale ha ritenuto attendibili le dichiarazioni rese dalla persona offesa, non costituitasi parte civile.

Ed invero, la Corte d'appello ha testualmente affermato che, "contrariamente a quanto si assume da parte degli appellanti, le dichiarazioni della persona offesa sono state puntuali sullo specifico episodio dell'estorsione realizzata mediante furto del trattore, non potendo tale conclusione essere contraddetta semplicemente dal fatto che inizialmente il teste avesse fatto confusione con i fatti riguardanti i danneggiamenti subiti tramite taglio di alberi. Si tratta, infatti, di un'iniziale imprecisione dovuta al tempo trascorso e ai numerosi episodi che lo hanno visto come vittima, che però non mina in alcun modo la precisione e la coerenza della ricostruzione della vicenda per cui si procede. Tra l'altro, per quanto non ve ne fosse bisogno, le parole dell' I. hanno trovato riscontro in quelle del collaboratore S., il quale ha confermato sia la vicenda dell'estorsione mediante furto del trattore, pur indicando quale profitto una somma leggermente inferiore rispetto a quella indicata dalla vittima (sette invece di otto milioni di lire); sia la circostanza che talvolta le richieste estorsive venivano avanzate da C.C. per tramite dei propri familiari, tra i quali la moglie e la madre, l'odierna imputata P.; sía infine l'abitudine dei due latitanti di tenere i contatti mediante le ricetrasmittenti".

Deve rimarcarsi, inoltre, che, contrariamente a quanto dedotto nel secondo motivo del ricorso, nel caso di specie le dichiarazioni, rese dalla persona offesa, non sono state ritenute inattendibili nella parte in cui hanno riguardato l'imputata C.D., che è stata assolta.

Al riguardo deve precisarsi che il Collegio non ignora l'orientamento, enunciato in sede di legittimità (Sez. 5, n. 46471 del 19/10/2015, Rv. 265874) e sotteso alla prospettazione difensiva del ricorrente, secondo cui è illegittima la valutazione frazionata delle dichiarazioni della persona offesa, riferibili ad un unico episodio, avvenuto in un unico contesto temporale, in quanto il giudizio di inattendibilità su alcune circostanze inficia, in tale ipotesi, la credibilità delle altre parti del racconto, essendo sempre e necessariamente ravvisabile un'interferenza fattuale e logica tra le parti del narrato.

Tale principio, tuttavia, non si attaglia al caso in esame, atteso che la persona offesa, come ben sottolineato dal giudice di primo grado, non aveva dichiarato che la sorella di C.C., coinvolta nella vicenda estorsiva, era C.D. ma, "pur riferendo della partecipazione attiva di una delle sorelle di C.C., non è stato poi in grado di specificare di chi si trattasse in concreto, essendosi limitato a riferire che secondo lui era quella più piccola con i capelli rossi".

In altri termini, la persona offesa aveva solo fornito delle indicazioni per l'identificazione della sorella del C.C.; indicazioni che non corrispondevano alla persona coinvolta nel procedimento, ossia C.D., che, come si legge nella sentenza di primo grado, non è la sorella piccola di C.C. ed aveva contestato con decisione la descrizione fisica effettuata dal teste.

E' evidente allora che il giudice di merito non ha diversamente valutato le medesime dichiarazioni della persona offesa in ordine a fatti concernenti la responsabilità di più imputati, facendone derivare, per alcuni, una valutazione di inattendibilità e, per altri, una valutazione di attendibilità ma ha compiuto una valutazione complessiva delle dichiarazioni della persona offesa, ritenendole in toto attendibili.

1.2.2 Quanto al terzo motivo, deve rilevarsi che le doglianze in esse contenute sono inammissibili perchè sostanzialmente deducono questioni di merito, sollecitando una rivisitazione, esorbitante dai compiti del giudice di legittimità, della valutazione del materiale probatorio, che la Corte distrettuale ha operato, sostenendola con motivazione coerente ai dati probatori richiamati e immune da vizi logici.

La Corte d'appello ha ritenuto che la ricorrente "era intervenuta in modo rilevante in tutte le fasi della vicenda, prima contattando la vittima del furto, poi assicurando la comunicazione tra questi e il figlio latitante ai fini dell'esplicitazione della richiesta e, infine, prendendo in consegna il denaro".

La medesima Corte ha precisato che la ricorrente era al corrente della causale della dazione di denaro richiesta all' I. non solo in ragione degli stretti legami tra la donna e il figlio, all'epoca latitante, ma anche perchè la persona offesa aveva dichiarato "che era stata proprio la P. a contattarla per la questione del trattore che gli era stato rubato un paio di giorni prima".

Risulta evidente dalla motivazione della sentenza impugnata che P.M. risponde non sulla base del rapporto di parentela con C.C. ma per aver posto in essere un contributo causalmente determinante al fine della commissione del reato in questione.

1.2.3 Manifestamente infondato è anche il motivo relativo alla sussistenza dell'aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7.

Vanno ribadite le considerazioni espresse con riferimento all'analoga doglianza sollevata dall'altro ricorrente, con la precisazione che nel caso in esame l'aggravante è stata contestata sotto il profilo del metodo mafioso e, come tale, ha natura oggettiva (Sez. 3, n. 36364 del 20/5/2015; Sez. 6, n. 25510 del 19/04/2017, Rv. 270158; Sez. 6, n. 29816 del 29/03/2017, Rv. 270602).

Ad ogni modo, deve rilevarsi che la Corte d'appello ha ritenuto che la ricorrente fosse consapevole delle modalità di realizzazione dell'estorsione, non solo in ragione degli stretti legami tra la donna e il figlio, all'epoca latitante, ma anche perchè la persona offesa aveva precisato "che era stata proprio la P. a contattarla per la questione del trattore che gli era stato rubato un paio di giorni prima".

1.2.4 Privo di specificità è anche l'ultimo motivo del ricorso.

La Corte distrettuale ha rimarcato che "le attenuanti generiche non possono essere riconosciute neppure alla P., sebbene la stessa risulti incensurata, a differenza del figlio, in considerazione del ruolo tutt'altro che marginale da lei ricoperto nell'operazione estorsiva, essendo ella intervenuta in modo rilevante in tutte le fasi della vicenda, prima contattando la vittima del furto, poi assicurando la comunicazione tra questi e il figlio latitante ai fini dell'esplicitazione della richiesta e, infine, prendendo in consegna il denaro".

Così argomentando, la Corte di merito si è correttamente conformata al consolidato orientamento di questa Corte, per la quale, al fine di ritenere od escludere la configurabilità di circostanze attenuanti generiche, il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall'art. 133 c.p., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio: anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole od all'entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può, pertanto, risultare all'uopo sufficiente (così, da ultimo, Sez. 2, sentenza n. 3609 del 18 gennaio 1 febbraio 2011, CED Cass. n. 249163).

Peraltro, nessuna doppia valutazione in malam partem del ruolo della ricorrente è stata effettuata, atteso che, da una parte, è stato ritenuto che la condotta della ricorrente integrasse il concorso nel reato e, dall'altra e per differente profilo, è stato considerato che il suo rilevante contributo in tutte le fasi della vicenda e, dunque, la gravità della sua condotta, fosse elemento ostativo alla concessione delle attenuanti generiche.

Al riguardo deve ricordarsi che questa Corte (Sez. 2, n. 24955 del 14/05/2015, Rv. 264378) ha già avuto modo di affermare che il giudice può tenere conto di uno stesso elemento (nella specie: la gravità della condotta) che abbia attitudine a influire su diversi aspetti della valutazione, ben potendo un dato polivalente essere utilizzato più volte sotto differenti profili per distinti fini senza che ciò comporti lesione del principio del "ne bis in idem".

2. La declaratoria di inammissibilità totale dei ricorsi comporta, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonchè - valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost., 13 giugno 2000 n. 186) - della somma di Euro 2.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila ciascuno a favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, nell'Udienza pubblica, il 8 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 25 luglio 2018