Sussiste il riconoscimento da parte della ricorrente, vittima di violenza sessuale, del risarcimento del danno sulla scorta della Direttiva 2004/80/CE, che impone agli Stati membri dell'Unione Europea di garantire «adeguato ed equo ristoro alle vittime di reati violenti ed internazionali, impossibilitate a conseguire dai propri offensori il risarcimento integrale dei danni subiti».
L'art. 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80/CE deve essere interpretato nel senso che «non solo obbliga gli Stati membri a dotarsi di un sistema di indennizzo delle vittime per ogni reato intenzionale violento commesso sul proprio territorio, ma consente anche ai soggetti residenti nello Stato membro, così obbligato, di poter usufruire dell'indennizzo, essendo, quindi, anch'essi titolari del diritto conferito, nella specie, dal diritto derivato dell'Unione».
L'articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80 dev'essere interpretato nel senso che un indennizzo forfettario concesso alle vittime di violenza sessuale sulla base di un sistema nazionale di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti non può essere qualificato come equo ed adeguato, ai sensi di tale disposizione, qualora sia fissato senza tenere conto della gravità delle conseguenze del reato per le vittime, e non rappresenti quindi un appropriato contributo al ristoro del danno materiale e morale subito.
Cassazione civile
sez. III, ord., 29 settembre 2021, n. 26303
Presidente Relatore Travaglino
Premesso in fatto
- che Z.M. ricorre dinanzi a questa Corte per la cassazione della suindicata sentenza della Corte di Appello di Torino, con la quale veniva accolto solo parzialmente il gravame da lei proposto avverso la sentenza del 30 marzo 2016 del Tribunale di Torino, che ne aveva respinto la domanda di risarcimento danni proposta nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri in relazione all'inadempimento dell'obbligo di dare attuazione alla Direttiva 2004/80/CE, e segnatamente della norma che impone agli Stati membri dell'Unione Europea, dal 1 luglio 2005, di garantire "adeguato" ed "equo" ristoro alle vittime di reati violenti ed intenzionali, impossibilitate a conseguire dai propri offensori il risarcimento integrale dei danni subiti;
- che, rigettata la richiesta dell'allora appellante di rinvio pregiudiziale del procedimento alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea affinché la stessa accertasse il carattere effettivamente "equo" e "adeguato" dell'indennizzo "medio tempore" introdotto dal legislatore italiano in forza di ius superveniens, e respinta la domanda volta ad accertare la responsabilità dello Stato italiano per mancata e/o inadeguata attuazione della Direttiva, la Corte subalpina aveva accolto - sul presupposto della attuazione comunque tardiva della Direttiva stessa - la domanda subordinata di pagamento degli interessi sulla somma contemplata dal già citato ius superveniens a titolo di indennizzo (somma pari a Euro 4.800), liquidando, pertanto, la somma di Euro 320,60.
- che, in punto di fatto, l'odierna ricorrente era stata vittima, nel (OMISSIS) , di aggressione e violenza sessuale, ex art. 609-bis c.p. e art. 609-ter c.p., comma 1, n. 2), perpetrata a suoi danni da tale L.B.G. , che veniva condannato, in via definitiva, alla pena di cinque anni di reclusione, oltre che al pagamento di una provvisionale di Euro 25.000,00 in favore della parte civile costituita (la medesima Z. ) - alla quale era stato, pertanto, riconosciuto il diritto a conseguire il risarcimento dei danni subiti;
- che l'odierna ricorrente, non avendo ottenuto alcunché (per non essere andati a buon fine, dopo la notifica di atto di precetto al L.B. per portare ad esecuzione la statuizione civile di condanna, i tentativi di pignoramento, a più riprese compiuti nei suoi confronti), aveva adito il Tribunale torinese affinché fosse affermata la responsabilità civile della Presidenza del Consiglio dei ministri in relazione alla tardiva e, comunque, non adeguata attuazione della suddetta Direttiva unionale;
- che la domanda era stata respinta sul presupposto, da un lato, che la Direttiva dovesse trovare applicazione con riferimento ai soli reati commessi in uno Stato diverso da quello di residenza della vittima; dall'altro, che, anche a ritenere diversamente, la violazione addebitabile allo Stato italiano per la mancata attuazione della direttiva sarebbe stata priva del carattere "grave e manifesto", necessario per riconoscerne la responsabilità;
- che il gravame proposto dall'attrice venne accolto, come detto poc'anzi, in relazione alla sola domanda subordinata - ritenuta ammissibile perché formulata alla luce dello ius superveniens costituito dalla L. 20 novembre 2017, n. 167;
- che le restanti domande vennero rigettate, ritenendo il giudice di appello che l'attuazione della Direttiva, ancorché tardiva, avesse fatto venir meno l'inadempimento statuale - e, comunque, affermando di condividere l'interpretazione del primo giudice circa il fatto che la direttiva si applicasse alle sole fattispecie cd. "transfrontaliere".
Avverso la sentenza della Corte di Appello piemontese ha proposto ricorso per cassazione la signora Z., sulla base di due motivi.
Con il primo motivo di ricorso - proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5) - è denunciata violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto in relazione all'interpretazione dell'art. 12 della Direttiva 2004/80/CE, nonché violazione dei principi del diritto comunitario e delle libertà fondamentali previsti dagli artt. 49, 50 e 63 del Trattato sul funzionamento della Unione Europea, vale a dire da "fonti di diritti direttamente azionabili dai residenti nei confronti dello Stato di appartenenza", in applicazione dei principi di cui agli artt. 18 20 e 21, del medesimo Trattato, questi ultimi finalizzate ad assicurare, nel rispetto dei principi di eguaglianza e o non discriminazione, la corretta applicazione dei principi del diritto comunitario.
Si assume, in sostanza, che la corretta applicazione delle norme suddette avrebbe dovuto avere come conseguenza l'estensione degli effetti di carattere indiretto della direttiva in esame, imponendo, così, allo Stato italiano, in via immediata e diretta, il recepimento della direttiva stessa, "con la previsione di un sistema indennitario generalizzato e necessariamente applicabile anche nei confronti dei residenti" in Italia, qualora riconosciuti vittime di reati violenti e intenzionali nel territorio dello Stato.
Si censura, pertanto, l'interpretazione data dai giudici di merito nella parte in cui si è ritenuta la direttiva "non applicabile nei casi di situazioni puramente interne", evidenziandosi, inoltre, che, sebbene la ricorrente potesse vantare una situazione soggettiva ormai riconducibile a quella prevista dalla sopravvenuta L. n. 122 del 2016 (e successive modificazioni), il giudizio instaurato concerneva il diritto al risarcimento del danno da inadempimento statuale dell'obbligo di trasposizione tempestiva del diritto dell'Unione, e non la pretesa di conseguire, in base al diritto nazionale, l'indennizzo attualmente stabilito in applicazione della normativa interna di attuazione.
Il secondo motivo - sempre proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5) - denuncia violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, con riferimento ai principi di equità e adeguatezza previsti nella liquidazione del danno dagli artt. 1226 e 2056 c.c. e all'art. 3 Cost., e ciò in riferimento all'applicazione della L. n. 122 del 2016, come modificata dalla L. n. 167 del 2017 e poi dalla L. n. 145 del 2018, quanto all'indennizzo previsto come "equo ed adeguato", nell'importo di Euro 4.800, in attuazione di quanto prescritto dall'art. 12 della direttiva 2004/80/CE.
Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto di non dare corso alla domanda di trasmissione degli atti alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea al fine di accertare la corretta attuazione della Direttiva de qua, e ciò in ragione della discrezionalità che, secondo la sentenza impugnata, spetterebbe al legislatore nella scelta sia dell'ammontare dell'indennizzo che della tipologia dei danni da ristorare.
Di converso, la ricorrente assume che l'importo dell'indennizzo, come previsto dal già citato ius superveniens, non possa ritenersi "equo ed adeguato" alla luce del disposto degli artt. 1226 e 2056 c.c., e ciò considerata l'intrinseca gravità del reato di violenza sessuale in relazione al quale esso è stato stabilito. Tale conclusione si confermerebbe, vieppiù, considerando la diversa misura degli indennizzi concessi a vittime di altri reati, quali, in particolare, quelli di cui alla L. 20 ottobre 1990, n. 302, alla L. 3 agosto 2004, n. 106, al D.P.R. 30 ottobre 2009, n. 181, al D.L. 12 novembre 2010, n. 187.
Per questo motivo, la ricorrente chiede che, anche sul punto, la sentenza impugnata venga cassata, ovvero, in alternativa, che questa Corte, ritenuta rilevante la questione interpretativa sull'adeguatezza dell'indennizzo previsto dal legislatore nazionale per le vittime di reati intenzionali e violenti, in attuazione dell'art. 12 della direttiva 2004/80, voglia disporre rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea.
Ha resistito la Presidenza del Consiglio dei Ministri, chiedendo in limine litis la declaratoria di improcedibilità del ricorso in ragione dello ius superveniens costituito dalla citata L. n. 167 del 2017, ovvero, in subordine, che lo stesso sia dichiarato inammissibile o rigettato.
Invoca, poi, una pronuncia di inammissibilità della richiesta di disporre rinvio pregiudiziale alla CUGE, poiché la rimessione interpretativa attiene alla specifica fattispecie delle situazioni transfrontaliere (nella specie non predica bile).
Nel merito, infine, la controricorrente lamenta l'infondatezza dei motivi, il primo, perché la lettera stessa della Direttiva non lascia dubbi sul fatto che l'indennizzo spetti alla vittima di un reato commesso in Stato diverso da quello di residenza della stessa; il secondo, perché gli indennizzi in esame costituiscono elargizione di natura solidaristica posti a carico della fiscalità generale e non risarcimenti in senso proprio.
Tanto premesso, la Corte.
Osserva in diritto
Il ricorso è fondato.
Ai principi affermati, in subiecta materia, da questo stesso giudice di legittimità (Cass. 24 novembre 2020, n. 26757), all'esito del giudizio in cui venne disposto il rinvio pregiudiziale alla CGUE, il collegio intende, difatti, dare continuità, in doverosa applicazione dei dicta del giudice sovranazionale.
In via preliminare, quanto all'eccezione di improcedibilità del ricorso per cessazione della materia del contendere avanzata dall'odierno controricorrente, va osservato come la pretesa azionata in giudizio dalla signora Z. abbia ad oggetto il risarcimento del danno per l'inadempimento statuale all'obbligo di trasposizione tempestiva del diritto dell'Unione (art. 12, par. 2, della Direttiva 2004/80/CE), e non già il conseguimento, in base al diritto nazionale, dell'indennizzo attualmente stabilito dalla L. n. 122 del 2016, ed applicabile retroattivamente in ragione di quanto stabilito dalla successiva L. n. 167 del 2017. Come già sottolineato da questa Corte, si tratta "di domande aventi ad oggetto distinte causae petendi e distinti petita", l'una relativa ad "una prestazione indennitaria stabilita dalla legge, come effetto dell'attuazione di obblighi derivanti dalla partecipazione dello Stato all'Unione Europea" - e, dunque, "una obbligazione ex lege da assolversi nei confronti degli aventi diritto, individuati dalla stessa disciplina di fonte legale e che prescinde dalla ricorrenza degli elementi costitutivi dell'illecito il quale, nel sistema della responsabilità civile, sia di fonte contrattuale, che aquiliana, si pone come indefettibile presupposto per la liquidazione del danno, ossia delle conseguenze pregiudizievoli da esso scaturenti"; l'altra, invece, concernente "il diritto al risarcimento dei danni per omessa o tardiva trasposizione di direttiva non autoesecutiva da parte del legislatore italiano nel termine prescritto dalla direttiva stessa, che va ricondotto allo schema della responsabilità contrattuale per inadempimento dell'obbligazione ex lege dello Stato", responsabilità che, "in ragione della natura antigiuridica del comportamento omissivo dello Stato anche sul piano dell'ordinamento interno", nonché della necessità di "ricondurre ogni obbligazione nell'ambito della ripartizione di cui all'art. 1173 c.c.", dovrà essere "inquadrata nella figura della responsabilità contrattuale, in quanto nascente non da un fatto illecito di cui all'art. 2043 c.c., bensì da un illecito ex contractu, e cioè dall'inadempimento di un rapporto obbligatorio preesistente" (Cass. n. 26757 del 2020, cit.).
Ne consegue che la (sopravvenuta) possibilità per l'odierna ricorrente di fruire della prestazione indennitaria, in forza del combinato disposto della L. n. 122 del 2016 e L. n. 167 del 2017, non determina alcuna cessazione della materia del contendere in relazione alla (già proposta) domanda risarcitoria, relativa, invece, alla tardiva attuazione della suddetta direttiva unionale; e ciò anche in considerazione del fatto che i beneficiari della prestazione indennitaria possono dimostrare "l'esistenza di perdite supplementari patite per il fatto stesso di non avere potuto usufruire nel momento previsto dei vantaggi pecuniari garantiti dalla direttiva, le quali andrebbero, dunque, parimenti risarcite" (così, nuovamente, Cass. n. 26757 del 2020, cit.).
Il primo motivo di ricorso è fondato.
Non appare, infatti, conforme a diritto il principio, che la Corte territoriale ha condiviso con il primo giudice, secondo cui gli scopi e le finalità della direttiva 2004/80/CE sarebbero stati quelli di prevedere un sistema indennitario per le vittime di reati intenzionali e violenti limitatamente alle cd. "situazioni transfrontaliere" - con esclusione, dunque, di quelle meramente interne.
Sul punto, invero, vale richiamare quanto affermato dalla Corte di giustizia in esito al rinvio pregiudiziale disposto da questa Corte, ovvero che l'art. 12, par. 2, della direttiva deve essere interpretato nel senso che "non solo obbliga gli Stati membri a dotarsi di un sistema di indennizzo delle vittime per ogni reato intenzionale violento commesso sul proprio territorio, ma che consente anche ai soggetti residenti nello Stato membro, così obbligato, di poter usufruire dell'indennizzo, essendo, quindi, anch'essi titolari del diritto conferito, nella specie, dal diritto derivato dell'Unione".
Del pari viene ritenuto sussistente l'ulteriore requisito per ravvisare la responsabilità dello Stato legislatore per mancata trasposizione del diritto unionale, ovvero la violazione "grave e manifesta" dello stesso.
Come già osservato da questa Corte, "la portata estensiva" dell'art. 12, par. 2, della Direttiva 2004/80/CE, ovvero la circostanza che esso fosse "applicabile anche nei confronti delle vittime residenti nello Stato membro in cui il reato stato commesso", verrà predicata dallo stesso giudice sovranazionale "in forza di una interpretazione piana e diretta (senza altre mediazioni volte dissipare incertezze interpretative, non altrimenti palesate) della sola Direttiva 2004/80/CE, di per sé ritenuta, ab origine, fonte chiaramente orientata a conferire anche alle vittime non transfrontaliere la tutela indennitaria da essa contemplata" (Cass. n. 26757 del 2020, cit.).
Anche il secondo motivo di ricorso risulta fondato.
Sul punto, decisive appaiono le affermazioni contenute nella citata sentenza della Corte di giustizia, ove si legge che "il regime di responsabilità extracontrattuale di uno Stato membro", per il danno causato dalla violazione del diritto unionale - costituito, nella specie, dal fatto che esso "non ha trasposto in tempo utile l'art. 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80" sussiste pure "nei confronti di vittime residenti in detto Stato membro nel cui territorio il reato intenzionale violento sia stato commesso".
Seguendo la medesima linea interpretativa, la Corte di Lussemburgo ha poi affermato che "l'art. 12, paragrafo 2, della Direttiva 2004/80 dev'essere interpretato nel senso che un indennizzo forfettario concesso alle vittime di violenza sessuale sulla base di un sistema nazionale di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti non può essere qualificato come "equo ed adeguato", ai sensi di tale disposizione, qualora sia fissato senza tenere conto della gravità delle conseguenze del reato per le vittime, e non rappresenti quindi un appropriato contributo al ristoro del danno materiale e morale subito".
Il principio risulta perfettamente sovrapponibile al caso di specie, avendo la ricorrente lamentato di essere stata vittima di violenza sessuale.
Va ancora specificato come la CGUE, pur premettendo che l'indennizzo "non deve necessariamente corrispondere al risarcimento del danno che può essere accordato, a carico dell'autore di un reato intenzionale violento, alla vittima di tale reato" - sicché esso "non deve necessariamente garantire un ristoro completo del danno materiale e morale subito dalla vittima"), ha poi precisato che "lo Stato membro eccederebbe il margine di discrezionalità accordato dall'art. 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80 se le sue disposizioni nazionali prevedessero un indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti puramente simbolico o manifestamente insufficiente alla luce della gravità delle conseguenze del reato per tali vittime", potendo il contributo "essere considerato "equo ed adeguato" se compensa, in misura appropriata, le sofferenze alle quali esse sono state esposte".
Anche il tema, dunque, della non adeguatezza di importi che prescindono dalla valutazione delle concrete conseguenze del reato (come quello della illegittimità dell'esclusione dell'indennizzo in caso di vicende cd. "puramente interne") risulta essere stato affrontato, e risolto in senso favorevole alla ricorrente, dalla sentenza della Corte di Lussemburgo (rendendo superfluo procedere al rinvio pregiudiziale sollecitato in ricorso).
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia il procedimento alla Corte di appello di Torino, che, in diversa composizione, farà applicazione dei principi di diritto suesposti.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, si dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.