Il consenso del lavoratore all'installazione di un'apparecchiatura di videosorveglianza, in qualsiasi forma (scritta od orale) prestato, non esclude il reato per il datore di lavoro che abbia installato i predetti impianti in violazione delle condizioio dettate dalla legge.
Per poter installare un sistema di videosorveglianza potenzialmente in grado di controllare a distanza l'attività dei lavoratori è necessario un accordo con le rappresentanze sindacali aziendali e di provvedimento autorizzativo dell'autorità amministrativa, non bastando il consenso dei dipendenti.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Sent., (ud. 10/04/2018) 24-08-2018, n. 38882
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SARNO Giulio - Presidente -
Dott. ROSI Elisabetta - rel. Consigliere -
Dott. CERRONI Claudio - Consigliere -
Dott. LIBERATI Giovanni - Consigliere -
Dott. SEMERARO Luca - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
D.C.A., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 01/06/2017 del TRIB.SEZ.DIST. di ORTONA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere ELISABETTA ROSI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. FILIPPI Paola, che ha concluso chiedendo;
Il Proc. Gen. conclude per il rigetto.
Svolgimento del processo
1. Il Tribunale di Chieti, con sentenza emessa in data 1 giugno 2017, ha condannato D.C.A. alla pena di Euro 800,00 di ammenda per il reato D.Lgs. n. 300 del 1970, ex artt. 4 e 38, perchè quale titolare dell'omonima ditta ".." esercente attività di bar-gelateria, installava quattro telecamere, disponendole in vari punti dello stabilimento, connesse ad uno schermo LCD e a un apparato informatico, in modo da avere il controllo visivo di tutti i luoghi di lavoro dove i dipendenti svolgevano le mansioni loro attribuite ed averne il controllo a distanza (fatti accertati in (OMISSIS)).
2. Avverso tale sentenza l'imputata ha proposto, tramite il proprio difensore, atto di appello, qui trasmesso in quanto qualificato dalla Corte d'Appello come ricorso, articolato in un unico motivo con il quale lamenta la contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione nonchè l'erronea applicazione della legge, non avendo i giudici di merito adeguatamente considerato gli elementi costitutivi della fattispecie di reato per cui è processo. Nello specifico, il giudice di prime cure, provvedendo all'audizione di soli tre testimoni sui nove indicati dalla difesa, non ha adeguatamente indagato l'elemento scriminante dell'assenso dei lavoratori all'istallazione delle videocamere, assenso che, in una realtà lavorativa così piccola, poteva legittimamente sostituire l'autorizzazione sindacale necessaria per l'istallazione. Sul punto la motivazione risulta contraddittoria laddove sostiene che non è stata raggiunta la prova della mancata opposizione dei lavoratori, in quanto la mancata prova deriva proprio dalla decisione dei giudici stessi di non escutere gli altri testimoni indicati dalla difesa. La motivazione inoltre erroneamente considera la mancata opposizione una circostanza attenuante, anzichè un'esimente che avrebbe dovuto condurre all'assoluzione dell'imputata, per lo meno ex art. 530 c.p.p., comma 2. Sussiste altra violazione di legge laddove il giudice di merito ha illustrato le tre finalità che rendono lecita l'istallazione di impianti di videosorveglianza, quali le esigenze produttive od organizzative, la sicurezza del lavoro, la sicurezza del patrimonio aziendale, senza considerare la sussistenza di due di esse, delle quali l'imputata aveva fornito la prova. Nel caso di specie difatti, come emerso dalle testimonianze in dibattimento, le videocamere erano state istallate a seguito di due specifici episodi: uno consistente in un'aggressione ad una dipendente da parte di ragazzi ubriachi, e quindi l'istallazione risponderebbe ad esigenze di sicurezza sul lavoro, e l'altro riguardante furti subiti dal locale e dunque la videosorveglianza avrebbe la finalità di tutelare il patrimonio aziendale. Infine l'accusa non ha fornito prova alcuna circa il funzionamento effettivo di dette telecamere, nè la loro idoneità a riprendere i dipendenti. Non è difatti stato dimostrato che le stesse fossero accese durante l'orario lavorativo, nè è stata presa in considerazione la posizione delle telecamere, le quali erano disposte in modo tale da riprendere soltanto i punti utilizzati da avventori e clienti, mentre l'unica zona in cui vi erano solo dipendenti era la cassa, ove le telecamere erano comunque posizionate in modo tale da non riprendere il viso del lavoratore, ma soltanto quello del cliente.
Motivi della decisione
1. I motivi di ricorso risultano infondati. In primis è infondata innanzitutto la doglianza relativa al mancato riconoscimento dell'assenso dei lavoratori come causa esimente della contravvenzione D.Lgs. n. 300 del 1970, ex artt. 4 e 38, (tutela penale del divieto di operare controlli a distanza con impianti, strumenti e apparecchiature non preventivamente autorizzate confermata anche dal D.Lgs. n. 151 del 2015, art. 23, comma 2, che ha modificato il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 171).
Questo Collegio ritiene di dovere confermare anche nel caso di specie l'orientamento giurisprudenziale che ritiene che la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 4 dello Statuto dei lavoratori (L. 20 maggio 1970, n. 300) sia integrata con l'installazione di un sistema di videosorveglianza potenzialmente in grado di controllare a distanza l'attività dei lavoratori, anche quando, in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali aziendali e di provvedimento autorizzativo dell'autorità amministrativa, la stessa sia stata preventivamente autorizzata per iscritto da tutti i dipendenti (Sez. 3, n. 22148 del 31/01/2017, RV. 270507).
2 Invero, secondo quanto prescritto dalla L. n. 300 del 1970, art. 4, l'installazione di apparecchiature (da impiegare esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale ma dalle quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori) deve essere sempre preceduta da una forma di codeterminazione (accordo) tra il datore di lavoro e le rappresentanze sindacali dei lavoratori, con la conseguenza che se l'accordo (collettivo) non è raggiunto, il datore di lavoro deve far precedere l'installazione dalla richiesta di un provvedimento autorizzativo da parte dell'autorità amministrativa (Direzione territoriale del lavoro) che faccia luogo del mancato accordo con le rappresentanze sindacali dei lavoratori, cosicchè, in mancanza di accordo o del provvedimento alternativo di autorizzazione, l'installazione dell'apparecchiatura è illegittima e penalmente sanzionata.
3. Questa procedura, dettagliatamente prevista dal legislatore - frutto della scelta specifica di affidare l'assetto della regolamentazione di tali interessi alle rappresentanze sindacali o, in ultima analisi, ad un organo pubblico, con esclusione della possibilità che i lavoratori, uti singuli, possano autonomamente provvedere al riguardo - trova la sua ratio nella considerazione dei lavoratori come soggetti deboli del rapporto di lavoro subordinato. La diseguaglianza di fatto, e quindi l'indiscutibile e maggiore forza economico-sociale dell'imprenditore, rispetto a quella del lavoratore, rappresenta la ragione per la quale la procedura codeterminativa sia da ritenersi inderogabile (a differenza di quanto ritenuto invece dalla Sez. 3, n. 22611 del 17/04/2012, Banti, Rv. 253060, citata nel ricorso), potendo essere sostituita dall'autorizzazione della direzione territoriale del lavoro solo nel solo di mancato accordo tra datore di lavoro e rappresentanze sindacali, non già dal consenso dei singoli lavoratori, poichè, a conferma della sproporzione esistente tra le rispettive posizioni, basterebbe al datore di lavoro fare firmare a costoro, all'atto dell'assunzione, una dichiarazione con cui accettano l'introduzione di qualsiasi tecnologia di controllo per ottenere un consenso viziato, perchè ritenuto dal lavoratore stesso, a torto o a ragione, in qualche modo condizionante l'assunzione.
4. In conclusione, il consenso del lavoratore all'installazione di un'apparecchiatura di videosorveglianza, in qualsiasi forma (scritta od orale) prestato, non vale a scriminare la condotta del datore di lavoro che abbia installato i predetti impianti in violazione delle prescrizioni dettate dalla fattispecie incriminatrice, e dunque la doglianza della ricorrente sul punto si ritiene infondata, non assumendo alcun valore esimente la mancata opposizione dei lavoratori (ritenuta peraltro dalla ricorrente, in via di interpretazione ipotetica, consenso implicito) all'istallazione delle videocamere di cui all'imputazione.
5. Circa le altre doglianze, in parte assorbite dalle considerazioni appena svolte, basta qui aggiungere che, secondo giurisprudenza consolidata, ai fini della integrazione del reato di pericolo previsto dal combinato disposto degli artt. 4 e 38, dello Statuto dei lavoratori e D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 114 e 171, è sufficiente la mera installazione di impianti audiovisivi di controllo senza accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o comunque in difetto di permesso dall'ispettorato del lavoro, non essendo altresì richiesta per la punibilità la messa in funzione o il concreto utilizzo delle attrezzature stesse (in tal senso, Sez. 3, n. 45198 del 07/04/2016, Luzi e altro, Rv. 268342; Sez. 3, n. 4331/14 del 12/11/2013, Pezzoli, Rv. 258690; così anche la giurisprudenza civile).
Alle enunciate argomentazioni consegue il rigetto del ricorso e la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 10 aprile 2018.
Depositato in Cancelleria il 24 agosto 2018