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Riqualifica in pejus in appello non richiede rinnovazione prova dichiarativa (Cass. 36824/23)

5 settembre 2023, Cassazione penale

Non sussiste l'obbligo di rinnovazione dell'assunzione delle prove dichiarative nel caso in cui il giudizio di appello riqualifichi in pejus l'imputazione originaria: "nessun precetto nazionale o sovranazionale impone che una decisione peggiorativa per l'imputato debba necessariamente passare attraverso una rinnovazione della istruzione, sol perché fondata su una diversa valutazione della prova dichiarativa. L'obbligo di rinnovazione non ha valore euristico e, enucleato a tutela di specifici diritti e interessi, non può essere esteso a tutti i casi di riforma in pejus, sganciati dalla riforma di una pronuncia assolutoria".

 

Corte di Cassazione

 sez. V penale - udienza 13/07/2023 (deposito 5 settembre 2023), sentenza n. 36824

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 28 aprile 2021 il Tribunale di Reggio Emilia ha dichiarato, anche agli effetti civili,
C.A. responsabile del reato di cui all'art. 590 c.p., comma 2, così qualificato il fatto al capo B)
originariamente contestato come lesioni volontarie gravissime (art. 582 c.p., art. 583 c.p., comma 2, n.
2) e consistito nel colpire alla mano, con un coltello di cm 24, T.G., ex convivente, cagionandole "la
lesione completa della falange prossimale del terzo dito e la lesione irreparabile del ramo distale del
collaterale sensitivo radiale volare del terzo dito, da cui derivava deficit di sensibilità e della forza di
prensione della mano con limitazione permanente della normale funzionalità".
Con la medesima pronuncia il Tribunale ha affermato la responsabilità dell'imputato anche in ordine ai
reati di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 4 (capo C) e di minaccia grave ai danni di M.L., nuovo
fidanzato dalla donna (capo E); mentre lo ha assolto dalle imputazioni di atti persecutori (capo A) e di
furto (capo D).
2. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Bologna, investita delle impugnazioni del Pubblico
ministero e dell'imputato, in parziale accoglimento della prima, ha ricondotto il fatto sub B) alla

originaria imputazione di lesioni dolose, procedendo al conseguente aumento di pena e ritenendo
sussistente il vincolo della continuazione con i reati "satellite" sub capi C) ed E).
3. Ricorre l'imputato, tramite il difensore, articolando due motivi.
3.1. Con il primo denuncia vizio di motivazione in ordine alla qualificazione del fatto come sorretto da
dolo.
La Corte di appello ha ricondotto l'atteggiamento soggettivo dell'agente al "dolo eventuale", limitandosi
a una mera asserzione, senza minimamente confrontarsi con i principi affermati dalle Sezioni Unite
Espenhahn (sentenza n. 38343 del 2014) secondo cui: "per la configurabilità del dolo eventuale, anche
ai fini della distinzione rispetto alla colpa cosciente occorre la rigorosa dimostrazione che l'agente si sia
confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta aderendo
psicologicamente ad essa e a tal fine l'indagine giudiziaria, volta a ricostruire l'"iter" e l'esito del
processo decisionale, può fondarsi su una serie di indicatori quali: a) la lontananza della condotta tenuta
da quella doverosa; b) la personalità e le pregresse esperienze dell'agente; c) la durata e la ripetizione
dell'azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine della condotta e la compatibilità con esso
delle conseguenze collaterali; f) la probabilità di verificazione dell'evento; g) le conseguenze negative
anche per l'autore in caso di sua verificazione; h) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l'azione
nonché la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l'agente non si
sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione
dell'evento (cosiddetta prima formula di Frank)".
La lacuna argomentativa sarebbe tanto più grave se si considera che, in presenza di overturning
sfavorevole all'imputato, grava sul giudice di appello l'onere di esibire una motivazione rafforzata.
3.2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c),
l'inosservanza dell'art. 603 c.p.p., comma 3-bis.
La riqualificazione del fatto, in termini peggiorativi, poggerebbe su una diversa valutazione della prova
dichiarativa offerta dalla persona offesa e dall'imputato che avrebbe imposto una rinnovazione
dell'istruzione.
3.3. Il difensore dell'imputato ha trasmesso motivi nuovi con i quali arricchisce i contenuti del primo e
del secondo motivo; afferma inoltre che T. e M. hanno ottenuto il risarcimento del danno; allega
dichiarazioni di quietanza delle predette persone offese.
4. Il ricorso è stato trattato, senza intervento delle parti, nelle forme di cui alla L. n. 176 del 2020, art.
23, comma 8 e successive modifiche.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato.
2. Occorre una breve premessa, con alcune puntualizzazioni.
I motivi di ricorso concernono soltanto il capo B) di imputazione.
L'imputato è stato tratto a giudizio per rispondere (anche) del reato di cui all'art. 582 c.p., art. 583 c.p.,
comma 2, n. 2, (lesioni personali volontarie gravissime da "perdita di un senso") perché: "colpendo
T.G. con una con un coltello di cm 24, cagionava alla predetta lesioni personali consistite in ferita da
arma da taglio alla mano destra con prognosi di 30 giorni nonché lesione completa della falange
prossimale del terzo dito e lesione irreparabile del ramo distale del collaterale sensitivo radiale volare
del terzo dito, da cui derivava deficit della sensibilità e della forza di prensione della mano con
limitazione permanente della normale funzionalità" (capo B).
All'esito del dibattimento, il Tribunale ha riqualificato il fatto come lesioni colpose gravi, ritenendo che
la ferita inferta alla donna non fosse voluta e che dalla lesione fosse derivata non la perdita di un senso,
ma "l'indebolimento permanente del tatto nella parte coinvolta" (pag. 9 sentenza di primo grado).
La Corte di appello, accogliendo il gravame proposto sul punto del Pubblico ministero, ha ricondotto al
dolo il coefficiente soggettivo della condotta.
Quanto alla natura della aggravante ex 583 c.p., seppure in un passaggio argomentativo la sentenza
impugnata menziona l'art. 583 c.p., comma 2, n. 2, (pag. 12 sentenza di secondo grado), tuttavia è
chiaro, dal tenore complessivo della decisione, che in realtà il giudice di secondo grado ha riconosciuto
solo l'aggravante delle "lesioni gravi" (non "gravissime"), come si ricava dal fatto che afferma di voler
applicare "il minimo della pena corrispondente ad anni tre di reclusione" (pag. 13); tre anni di
reclusione rappresentano il minimo edittale delle lesioni gravi ex art. 583 c.p., comma 1; laddove per le
lesioni gravissime è prevista una pena minima di sei anni.
Il ricorso dell'imputato attiene alla riqualificazione del l'atto da colposo a doloso, non investe le
circostanze aggravanti.
Per logica espositiva occorre invertire l'ordine di trattazione dei motivi.
3. Il secondo motivo - che deduce l'inosservanza dell'obbligo di rinnovazione istruttoria ex art. 603
c.p.p., comma 3-bis - è infondato.
3.1. L'imputato è stato rinviato a giudizio per il reato di lesioni personali volontarie gravissime
commesso ai danni della ex convivente.

Il Tribunale ha qualificato il fatto ritenendolo di natura colposa.

In accoglimento della impugnazione proposta dal pubblico ministero, il giudice di secondo grado ha
validato l'originaria impostazione della pubblica accusa, recepita nel decreto ex art. 429 c.p.p., nel
senso della connotazione, in termini di dolo, dell'atteggiamento soggettivo.
In sostanza l'imputato è stato condannato per il medesimo fatto storico giuridico per il quale è stato
sottoposto a processo, nel senso che il fatto, nella sua dimensione storico - naturalistica, è identico a
quello oggetto di contestazione; la qualificazione giuridica del fatto è "tornata" alla fattispecie dolosa
ipotizzata dal pubblico ministero, ponendosi in rapporto di maggiore gravità (e quindi in termini
decisamente peggiorativi per l'imputato) rispetto al reato colposo ritenuto dal Tribunale.
3.2. Di conseguenza la questione in esame è estranea all'area precettiva dell'art. 516 c.p.p. (e ancor più
alle ulteriori ipotesi di nuove contestazioni ai sensi degli artt. 517 e 518 c.p.p.) che disciplina le
modificazioni del fatto inteso come accadimento storico (cfr. per tutte Sez. U n. 36551 del 15/07/2010,
Carelli, Rv. 248051 - 01).
Ed invero, al giudice- in applicazione del principio di legalità - è sempre consentito attribuire la corretta
qualificazione giuridica al fatto descritto nell'imputazione, senza che ciò incida sull'autonomo potere di
iniziativa del pubblico ministero, che rileva esclusivamente sotto il diverso profilo dell'immutabilità
della formulazione del fatto inteso come accadimento materiale (Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di
Francesco, Rv. 205617).
Questo potere-dovere spetta a ogni organo giurisdizionale ed è pacificamente riconosciuto alla Corte di
appello (cfr. tra le altre Sez. 6, n. 6753 del 04/06/1997, dep. 1998, Finocchi, Rv. 211010; Sez. 6, n.
46805 del 05/11/2003, Labella, Rv. 227354), come del resto alla Corte di cassazione.
3.2.1. Detto potere incontra un primo limite, connaturato all'istituto, nella condizione che il fatto, come
accadimento naturalistico, non deve subire modificazioni. In altre parole, il giudice può assegnare una
diversa definizione giuridica a condizione che il fatto contestato rimanga immutato nella sua
dimensione storica (Sez. 1, n. 3456 del 12/03/1996, Danzi, Rv. 204329).
Opera, inoltre, il divieto di reformatio in peius ex art. 597 c.p.p., nel senso che, anche quando
impugnante è solo l'imputato, il giudice può dare al fatto una definizione giuridica più grave purché -
oltre a non infrangere la competenza del giudice di primo grado - non irroghi una pena più severa (art.
597 c.p.p., comma 3; sul tema cfr. tra le altre Sez. 2, n. 39961 del 19/07/2018, Tuccillo, Rv. 27392;
Sez. 5, n. 11235 del 27/02/2019, G., Rv. 276125; Sez. 6, n. 47488 del 17/11/2022, F., Rv. 284025).
Vanno osservati, infine, i principi sovranazionali del contraddittorio e della prevedibilità delle decisioni
(per tutte Corte EDU 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia, cfr. più ampiamente infra).
3.2.2. Nel caso in rassegna tutti i presupposti sono rispettati.

Il fatto storico-naturalistico descritto nella imputazione coincide con quello oggetto di condanna: aver
ferito, con la lama di un coltello, la persona offesa cagionandole le lesioni descritte nell'editto
accusatorio.
Si esula, quindi, da quelle ipotesi, esaminate dalla giurisprudenza di legittimità, in cui la diversa
qualificazione giuridica deriva da un fatto storico oggettivamente diverso da quello contestato, per la
trasformazione radicale della fattispecie concreta nei suoi elementi essenziali, tale da ingenerare
incertezza sull'oggetto dell'imputazione e pregiudicare il diritto di difesa (si veda, a titolo
esemplificativo, tra le ultime Sez. 5, n. 37461 del 22/09/2021, Ciotoracu, Rv. 281930).
In secondo luogo, sono salvaguardati i limiti cognitivi e decisori delineati dall'art. 597 c.p.p..
In particolare, poiché il pubblico ministero ha proposto impugnazione avverso una sentenza di
condanna, il giudice di appello aveva il potere di dare al fatto una definizione giuridica più grave -
entro la competenza del giudice di primo grado - e aumentare la quantità della pena ex art. 597 c.p.p.,
comma 2, lett. a).
Infine, nessuna lesione è stata inferta ai principi sovranazionali del contraddittorio e della prevedibilità
delle decisioni.
Secondo ius receptum, l'attribuzione, all'esito del giudizio di appello, al fatto contestato di una diversa
qualificazione giuridica non si pone in contrasto con l'art. 111 Cost., comma 2, e art. 6 della
Convenzione EDU come interpretato dalla Corte Europea, qualora la nuova definizione del reato fosse
nota o comunque prevedibile per l'imputato e non abbia determinato, in concreto, una lesione dei diritti
della difesa derivante dai profili di novità che da quel mutamento scaturiscono (cfr. per tutte Sez. U, n.
31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264438 - 01).
Nella specie, la definizione giuridica del fatto non è avvenuta a "sorpresa" e sul punto si è istaurato il
contraddittorio in quanto: la qualificazione operata in appello corrisponde all'imputazione originaria; è
conseguenza dell'impugnazione sul punto del pubblico ministero; l'imputato si è difeso lungo tutto il
corso del giudizio (incentrato precipuamente su tale questione) e ha contestato la definizione del fatto
con il primo motivo del ricorso per cassazione (cfr. su caso analogo Sez. 6, n. 422 del 19/11/2019, dep.
2020, Petittoni, Rv. 278093 - 01).
3.3. Fermi questi presupposti, il punto nodale della questione, devoluta con il secondo motivo di
ricorso, si incentra sulla applicabilità o meno dell'art. 603 c.p.p., comma 3-bis (e quindi sull'obbligo di
disporre la rinnovazione dell'istruzione in appello) nel caso in cui il giudice di appello, sulla base di una
diversa valutazione della prova dichiarativa, dia al fatto - al medesimo fatto storico immutato nella sua
dimensione storico naturalistica - una definizione giuridica diversa e più grave rispetto a quella
risultante all'esito del giudizio di primo grado.

3.3.1. La Corte di cassazione - sull'onda degli innesti ermeneutici operati dalle sezioni Unite Dasgupta
e Patalano (n. 27620 del 28/04/2016 e n. 18620 del 19/01/2017) con riferimento all'ipotesi di
ribaltamento della statuizione assolutoria- ha dato al problema una iniziale risposta positiva (Sez. 1, n.
53601 del 02/03/2017, Dantese, Rv. 271638 - 01; Sez. 1, n. 29165 del 18/05/2017, H., Rv. 270280 - 01;
Sez. 2, n. 24478 del 08/0;/2017, Salute, Rv. 269967).
La rotta così intrapresa - pur ripresa da una recente decisione (Sez. 6, n. 14444 del 21/02/2023, P., Rv.
284579 - 03) - è stata invertita dalla successiva giurisprudenza di legittimità secondo cui: "Il giudice di
appello, che riqualifichi in peius il fatto contestato all'imputato in base ad una differente valutazione
della prova dichiarativa, non è tenuto a procedere alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale" (Sez.
5, n. 54296 del 28/06/2017, Pesce, Rv. 272088 - 01; Sez. 2, n. 38823 del 25/06/2019, Esposito, Rv.
277094 - 01; Sez. 6, n. 5769 del 27/11/2019, dep. 2020, Giorgi, Rv. 278210 - 01; nonché Sez. 2, n.
28957 del 03/04/2017, D'Urso; Sez. 3, n. 973 del 28/11/2018, dep. 2019, S., Sez. 5, n. 32351 del
27/03/2018, K. che in motivazione si esprimono chiaramente a favore di questo orientamento, senza
assegnare valore al dato della "identica valutazione delle risultanze probatorie" entrato nelle massime;
al di là della massimazione, non può ascriversi invece all'orientamento in rassegna Sez. 5, n. 42577 del
02/07/2018, D., Rv. 274009 - 01 che si è occupata di un caso di ribaltamento da assoluzione ad
affermazione di responsabilità ai soli effetti civili).
3.3.2. Questo collegio, in sintonia con la giurisprudenza maggioritaria, ritiene che non sussista l'obbligo
di rinnovazione dell'assunzione delle prove dichiarative nel caso in cui il giudizio di appello abbia
avuto come esito non la riforma dell'originaria sentenza di assoluzione, bensì la riqualificazione del
fatto in un reato più grave di quello per il quale l'imputato era stato condannato dal primo giudice, e ciò
anche quando tale esito sia frutto di diversa valutazione della prova dichiarativa (del resto, è ovvio che,
in mancanza di un difforme apprezzamento delle prove, il problema neppure avrebbe ragione di sorgere
dato che difetterebbe in radice il fondamentale presupposto dal quale è scaturita l'intera riflessione
interpretativa e normativa sul tema).
Nessun precetto nazionale o sovranazionale impone che una decisione peggiorativa per l'imputato
debba necessariamente passare attraverso una rinnovazione della istruzione, sol perché fondata su una
diversa valutazione della prova dichiarativa. L'obbligo di rinnovazione non ha valore euristico e,
enucleato a tutela di specifici diritti e interessi, non può essere esteso a tutti i casi di riforma in peius,
sganciati dalla riforma di una pronuncia assolutoria.
La scelta interpretativa del collegio fa leva su una pluralità di elementi: il dato testuale dell'art. 603
c.p.p., comma 3-bis; la genesi e la ratio della peculiare ipotesi di rinnovazione istruttoria in esame; la
diversità ontologica del rango di tutela offerta ai diritti in rilievo.
Anzitutto va osservato che l'art. 603 c.p.p., comma 3-bis, nel testo vigente all'epoca del giudizio di
appello (introdotto dalla L. n. 103 del 2017 ora modificato, in termini qui non rilevanti, dal D.Lgs. n.
150 del 2022), recita: "Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale".

La norma impone l'obbligo di rinnovazione solo nel caso di sentenza di proscioglimento.

Ne consegue che in presenza, come nella specie, di pronuncia di condanna in primo grado, non è
stabilito alcun obbligo di rinnovazione (rimane, ovviamente, la facoltà generale di cui all'art. 603 c.p.p.,
comma 3): "alla luce dell'attuale diritto positivo (nonché vivente), detta regola può ritenersi applicabile
soltanto nel caso in cui la Corte d'appello approdi al giudizio di colpevolezza in riforma della decisione
liberatoria di primo grado, caso all'evidenza assai lontano da quello in cui il giudice del gravame
pervenga soltanto all'aggravamento della condanna già dichiarata in primo grado in virtù di una
qualificazione giuridica peggiorativa" (così in motivazione Sez. 6, n. 5769 del 27/11/2019, dep. 2020).
In secondo luogo, come osservato da Sez. 2, n. 38823 del 25/06/2019, Esposito: "Tale obbligo non può
farsi discendere dalle fonti sovranazionali e, segnatamente, dalla giurisprudenza convenzionale. La
Corte di Strasburgo ha infatti limitato l'obbligo di rinnovazione, non senza distinguo, ai casi di
ribaltamento della sentenza assolutoria effettuata dal giudice dell'impugnazione attraverso la
rivalutazione dell'attendibilità dei testimoni su base cartolare, senza mai correlare in modo espresso e
sistematico la necessità della rinnovazione all'aggravamento della qualificazione giuridica (Dan v.
Moldavia, Corte Edu, 5 luglio 2011; Manolachi v. Romania, Corte EDU, 3^ sez., 5 marzo 2013;
Flueras v. Romania, Corte Edu, 3^ sez., 9 aprile 2013; Corte Edu, 3^ Sez., sent. 4 giugno 2013; Hanu v.
Romania, ric. 10890/04; più recentemente Moinescu v. Romania, Corte Edu, 3^ sez. 15.9.2015;
Nitulescu v. Romania, Corte Edu, 3^ sez. 22.9.2015; Lorefice v. Italia, Corte Edu, 1 sez., 29 giugno
2017)".
Peraltro, al riguardo, non è superfluo rimarcare come l'obbligo di rinnovazione dell'istruzione abbia
perso quel carattere di regola rigida e inderogabile per assumere contorni meno perentori, soprattutto
nel caso di impossibilità della rinnovazione della prova decisiva: "La più recente giurisprudenza della
Corte EDU ha ridimensionato il rigore interpretativo della regola basata sulla prova determinante,
introducendo un elemento di flessibilità rappresentato dal valore della equità complessiva del processo,
affidando al giudice di apprezzare la consistenza di tutti quei contrappesi in grado di compensare,
globalmente, le restrizioni delle prerogative difensive causate dall'utilizzazione di una prova non
verificata in contraddittorio, prova capace di incidere sull'esito del giudizio" (così in motivazione Sez.
U, n. 11586 del 30/09/2021, dep. 2022, D., Rv. 282808 - 01 e pronunce Corte Edu ivi richiamate).
In terzo luogo, l'obbligo di rinnovazione dell'istruzione, confluito nella previsione dell'art. 603 c.p.p.,
comma 3-bis, affonda le proprie radici su un terreno (esaurientemente dissodato da Sez. U n. 14800 del
21/12/2017, dep. 2018, Troise) dissimile rispetto a quello posto a sostegno della diversa definizione
giuridica del fatto.

Le Sezioni Unite Troise offrono i seguenti spunti di riflessione.

La regola dell'obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa vale nel caso di riforma della
assoluzione in condanna, perché questa ipotesi deve essere presidiata da garanzie tali da assicurare il
principio costituzionale di non colpevolezza e, di conseguenza, il canone di giudizio del "ragionevole
dubbio".
Nell'ipotesi di overturning da assoluzione a condanna occorre una "forza persuasiva superiore", tale da
far venire meno "ogni ragionevole dubbio", poiché la condanna presuppone la certezza della
colpevolezza, a differenza dell'assoluzione che non presuppone la certezza dell'innocenza, ma la mera
non certezza della colpevolezza (Sez. 6, n. 40159 del 03/11/2011, Galante, Rv. 251066).
Il principio di immediatezza, privo di tutela costituzionale autonoma, costituisce fondamentale ma non
indispensabile carattere del contraddittorio, modulabile dal legislatore sulla base dell'incidenza sulla
decisione da assumere, sicché esso diviene recessivo là dove detto canone non venga in questione (Sez.
U, n. 14800 del 21/12/201, dep. 2018, Troise, Rv. 272431 - 01 che si sono occupate della riforma da
condanna in assoluzione, ma la medesima osservazione può trasferirsi al caso di "doppia condanna" per
lo stesso accadimento storico diversamente qualificato, quando si discuta non della responsabilità
dell'imputato ma solo della definizione giuridica del fatto).
Le garanzie poste dall'art. 6 CEDU sono state delineate in favore del destinatario di un'accusa in
materia penale e in funzione della tutela del principio fondamentale della presunzione di innocenza
della persona sottoposta al processo penale, secondo una formulazione la c:ui area semantica deve
ritenersi sostanzialmente equivalente, ai sensi dell'art. 52, par. 3, della Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione Europea, al contenuto normativo dell'art. 48 della Carta medesima, ove si stabilisce che
"ogni imputato è considerato innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente
provata".
Il principio costituzionale della presunzione di innocenza (o di non colpevolezza) offre il sostrato
valoriale del canone di giudizio dell'oltre ogni ragionevole dubbio, cui sono strettamente funzionali sia
la percezione diretta della prova dichiarativa nel contraddittorio delle parti, sia il principio di
immediatezza nella sua acquisizione.
Il principio di immediatezza non può consentire di modificare la natura del giudizio di appello,
sostanzialmente cartolare, e di allontanarsi dal modello della revisio prioris instantiae, estendendo gli
obblighi di rinnovazione a ipotesi diverse da quella che lo stesso legislatore del 2017 ha circoscritto al
c.d. overturning di condanna. "Invero, occorre ribadire che l'istituto dell'appello, come delineato anche
a seguito delle modifiche apportate dalla L. n. 103 del 2017, resta un mezzo di controllo della decisione
assunta in primo grado" (così in motivazione Sez. U, n. 11586 del 30/09/2021, dep. 2022., D.).
Residua, ovviamente, la facoltà, per il giudice d'appello, di disporre la rinnovazione istruttoria qualora
ne rilevi l'opportunità o la necessità, secondo il principio del libero convincimento.

3.3.3. Come già osservato (cfr. sopra paragrafo 3.2.) il potere di dare al fatto una diversa e più grave
definizione giuridica è riconosciuto al giudice, anche a livello sovranazionale, a condizione che siano
rispettati i principi del contraddittorio e della prevedibilità della decisione, senza necessità di ulteriori
garanzie, dato che tale potere si collega non a una riforma della pronuncia assolutoria, assistita dalla
regola del "ragionevole dubbio" ma a una precedente affermazione di responsabilità per quel medesimo
fatto storico, pur diversamente qualificato.
3.3.4. Nell'ipotesi di diversa e più grave qualificazione del fatto il giudice di appello non è tenuto alla
rinnovazione dell'istruzione, indipendentemente dalla valutazione della prova dichiarativa in senso
conforme o difforme rispetto al giudice di primo grado.
La diversità delle due ipotesi assume rilievo solo al momento della verifica degli obblighi
motivazionali.
Invero, quando la diversa definizione giuridica del fatto derivi da una mutata valutazione delle prove, il
giudice di appello sarà tenuto a offrire una motivazione puntuale e adeguata, che fornisca una razionale
giustificazione della difforme conclusione adottata (arg. da Sezioni Unite Troise cit., Rv. 272430) e
l'eventuale vizio argomentativo sarà deducibile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 606 c.p.p.,
comma 1, lett. e), (sul punto si vedano Sez. 2, n. 38823 del 25/06/2019, Esposito, e Sez. 6, n. 5769 del
27/11/2019, dep. 2020, Giorgi, citate).
Di contro, quando la valutazione sia sostanzialmente sovrapponibile, e la diversa qualificazione
giuridica riposi su una diversa soluzione in diritto, alla Corte di cassazione spetta il compito di stabilire
se la questione giuridica sia stata correttamente esaminata e risolta dal primo o dal secondo giudice, e il
vizio a tal fine denunciabile è solo quello di violazione di legge (così Sez. 2, n. 38277 del 07/06/2019,
Nuzzi, Rv. 276954).
3.4. Quanto appena concluso postula, come già detto, la identità del fatto storico-naturalistico descritto
nel capo di imputazione con quello oggetto della pronuncia di condanna; quando tale necessaria
correlazione difetti, quando cioè il giudice di appello ricostruisca il fatto in termini radicalmente
difformi da quello descritto nell'editto accusatorio e su questa base assegni al fatto una diversa
qualificazione giuridica, non si ricade, in ogni caso, nell'alveo applicativo dell'art. 603 c.p.p., comma 3-
bis, ma scatta il diverso (e più "tradizionale") strumento di tutela offerto dall'art. 516 c.p.p., art. 521
c.p.p., comma 2, art. 522 c.p.p., art. 604 c.p.p., comma 1, art. 623 c.p.p., comma 1, lett. b), presidiato
dalla sanzione di nullità della sentenza.
4. Il primo motivo - che contesta la qualificazione del fatto come reato doloso - è infondato.
4.1. La ricostruzione del fatto di cui al capo B (unico, come detto, interessato dal ricorso per
cassazione) viene compiuta dal Tribunale esclusivamente sulla base della narrazione della persona
offesa (pag. 9 sentenza di primo grado); mentre, diversamente da quanto sostenuto in ricorso, non
vendono impiegate le dichiarazioni difensive dell'imputato, giudicate "inverosimili" (cfr. pag. 7).

L'imputato è stato legato da un lungo rapporto di convivenza con T.G., finché i due si sono separati,
andando a vivere in appartamenti diversi siti, però, nel medesimo stabile.
Nelle prime ore del mattino del 30 maggio 2019, M., nuovo fidanzato della T., si presenta a casa della
donna, l'imputato lo sorprende e, in preda alla gelosia, gli scaglia addosso un vaso di fiori senza
colpirlo, mettendolo in fuga; quindi si arma di un coltello. M. è lontano, l'imputato intende
raggiungerlo, ma si trova a dover affrontare la Trotta, che cerca di fermarlo in tutti i modi, bloccandolo
per le mani. Secondo quanto riferito dalla donna e riportato in sentenza: "(...) lui sfilava le mani e
cercava di colpirmi, di infilzarmi, però non ci riusciva perché lo ogni volta cambiavo la mano e allora,
quando gli ho afferrato la mano con il coltello, l'ha sfilata, mi recideva le ultime tre dita, una rimane
lesa, comincio a perdere molto sangue, mi accascio per terra" (pag. 6 sentenza di primo grado).
Sulla base di questi elementi, il Tribunale conclude che: "l'unico dato ricavabile dalle dichiarazioni
della donna indica che il ferimento si verificò nel momento in cui l'imputato sfilò la mano in cui teneva
il coltello per liberarsi della presa della persona offesa, che gli aveva bloccato il polso destro con la
propria mano destra" (pag. 9 sentenza di primo grado).
Il Tribunale esclude la volontarietà della lesione osservando che: "La lesione della donna si è verificata
non a causa di un gesto diretto, intenzionale, volutamente lesivo, ma a causa del tentativo di sfilarsi
dalla presa di lei ( T.: "non voleva ammazzarmi, però voleva colpirmi le mani, perché lui altrimenti
avrebbe potuto fare in un altro modo, non cercando di accoltellare" pag. 31). La persistente presa del
coltello da parte dell'imputato (arma che non voleva abbandonare), invece, deve essere considerata non
tanto in relazione alla sussistenza del dolo di lesioni in danno della donna quanto in relazione al dolo di
minaccia che certamente persisteva a danno dell'altro uomo. Non vi sono elementi sufficienti (anche
alla luce dell'esame di T.G. sulla dinamica del fatto) per ritenere provato il dolo di lesioni in capo
all'imputato. E' significativo infatti che il gesto lesivo non sia stato accompagnato da alcuna frase o
parola compatibile con la volontà di ferire la donna" (pag. 9).
4.2. La Corte di appello concorda con la ricostruzione della dinamica del fatto posta a base della
sentenza di primo grado: "la T. specificò che (...) dopo diversi tentativi di disarmare C., bloccava con la
propria mano destra il polso destro dell'uomo, il quale, sfilando la mano dall'alto verso il basso per
liberarsi della presa, la feriva".
La medesima Corte evidenzia, poi, che il Tribunale è incorso non in un travisamento della deposizione
della persona offesa, ma in un errore giuridico, ritenendo necessario il dolo intenzionale, laddove il
reato di lesioni personali "richiede un mero dolo generico, anche nella forma eventuale" (pag. 11
sentenza di secondo grado).
Osserva che: "e' proprio in questa pervicacia, nel volersi liberare a tutti i costi dalla presa della donna,
per proseguire la sua azione aggressiva ai danni di M., che risiede il dolo del reato di lesioni: ben
avrebbe potuto l'imputato, una volta braccato dalla donna, abbandonare la presa del coltello per

liberarsi; ma egli non ha affatto mollato la presa e, dopo aver tentato più volte di colpire anche la donna
col coltello (ciò che, invero, dimostra un dolo intenzionale anche nei suoi confronti) aveva sfilato la
mano dalla presa della donna continuando a tenere ben fermo il coltello, accettando dunque
pacificamente il rischio che con esso, come in effetti capitò, potesse cagionare lesioni alla donna che in
quel momento gli teneva la mano" (pag. 12 sentenza impugnata).
4.3. La decisione della Corte di appello è adeguatamente motivata, anche considerato che, nella
ricostruzione del fatto, è sostanzialmente sovrapponibile alla sentenza di primo grado; essa inoltre è
corretta sotto il profilo giuridico nel rilevare che: "il Tribunale confonde i piani laddove sottolinea
come l'imputato non avesse intenzione di ledere la donna: è senz'altro vero che la sua vittima
predestinata dovesse essere l'uomo, ma ciò non toglie che le lesioni furono diretta conseguenza della
sua azione volontaria" (pag. 10 sentenza appello).
4.3.1. Secondo i consolidati arresti della giurisprudenza di legittimità il dolo del reato di lesioni
volontarie consiste nella coscienza e volontà di procurare una malattia o quantomeno sensazioni
dolorose nel soggetto passivo, per cui la responsabilità per tale delitto discende da ogni condotta
volontaria idonea a determinare le lesioni, quando sia accompagnata da intenzionalità lesiva (Sez. 5, n.
25116 del 12/02/2019, P., Rv. 276204, che ha ritenuto errata la qualificazione del fatto quali lesioni
colpose come conseguenza non voluta delle percosse inflitte ad un neonato che aveva riportato ferite a
cui era conseguito pericolo di vita, una malattia con prognosi superiore a 40 giorni e postumi
permanenti; conf. Sez. 5 -, n. 8004 del 13/01/2021, C., Rv. 280672 - 01).
4.3.2. Il Tribunale erra nella ricostruzione dell'elemento soggettivo del delitto in rassegna, ritenendo
necessario il dolo intenzionale, inteso quale perseguimento dell'evento come scopo finale dell'azione.
Quel che rileva, invece, è il dato pacifico che l'imputato, impugnando il coltello, ha cercato
ripetutamente di colpire la donna per liberarsi dalla presa fino a sfilare l'arma da taglio, ferendo
gravemente la vittima (l'imputato "sfilava le mani e cercava di colpirmi, di infilzarmi, però non ci
riusciva perché ogni volta cambiavo la mano e allora, quando gli ho afferrato la mano con il coltello,
l'ha sfilata (...) mi recide le ultime tre dita, di cui una rimane lesa", così pag. 6 sentenza di primo grado
e pag. 11 sentenza di secondo grado).
La circostanza che l'obiettivo finale fosse l'altro uomo (elemento decisivo secondo il Tribunale) è del
tutto irrilevante ai fini della sussistenza del dolo.
4.3.2. Per altro verso è indubbio che la Corte di appello, pur menzionando "quantomeno" l'elemento
soggettivo del dolo eventuale (pag. 10), ricostruisce l'atteggiamento soggettivo dell'imputato (cfr.
paragrafo 4.2.) come cosciente volontà di porre in essere una condotta idonea a provocare, con certezza
o alto grado di probabilità in base alle regole di comune esperienza, l'evento lesivo ai danni della
persona verso cui la condotta stessa si dirige.
Atteggiamento che corrisponde, più esattamente, alla categoria del dolo diretto.

Il che basta a superare le obiezioni, sollevate dal ricorrente, circa l'inosservanza dei criteri dettati dalle
Sezioni Unite Espenhahn in tema di dolo eventuale.
5. In conclusione deriva il rigetto del ricorso con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
L'inerenza della vicenda a rapporti familiari impone, in caso di diffusione della presente sentenza,
l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a
norma delD.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 13 luglio 2023.
Depositato in Cancelleria il 5 settembre 2023