Home
Lo studio
Risorse
Contatti
Lo studio

Decisioni

"Magistrati siete un clan" con il dito puntato: è oltraggio aggravato (Tr. Firenze, 30/6/2014)

30 giugno 2014, Tribunale di Firenze

Il dito indice alzato e puntato è fare intimidatorio, e unitamente al tono di disprezzo e ostilità  assume i connotati di una minaccia.

Non rientrano nell'ambito del legittimo esercizio del diritto di critica gli apprezzamenti rivolti non al merito dell'atto del magistrato o, in genere, al contesto processuale ma alla sua persona.

La critica ad un provvedimento del giudice esula dalla fattispecie astratta di oltraggio poiché il rispetto, di cui tutti i pubblici funzionari debbono essere circondati, non equivale ad insindacabilità. Tuttavia, perché ciò accada, è necessario che le espressioni, attraverso le quali si esercita il diritto di critica, siano immediatamente percepibili come un giudizio che investa la legittimità o l'opportunità del provvedimento in sè considerato e non la persona del pubblico ufficiale.

 

TRIBUNALE DI FIRENZE

Sez. I^ penale

30/06/2014

in composizione monocratica, in persona della dott.ssa Agnese Di Girolamo, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei confronti di:

A.L., nato a N. il (...), elettivamente domiciliato in Località Vivaro 14 Alba presso la CASA CIRCONDARIALE - DETENUTO PER ALTRA CAUSA RINUNCIANTE A COMPARIRE, difeso di fiducia dall'Avv.AF  del Foro di Catanzaro;

-assente-

IMPUTATO

del reato di cui agli artt. 81 cpv e 343 I e 3 comma c.p. perché, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, dicendo più volte nel corso della testimonianza resa all'udienza del 18.6.2011 avanti la corte di Assise di Appello di Perugia nel processo nel confronti di A.K. e R.S., che i magistrati non sapevano lavorare e non sapevano fare i magistrati, che temeva soprattutto i due pubblici ministeri (intendendo riferirsi ai P.M. dott.ssa M.C., presente in aula, ed al dott. G.M. P.M. d'udienza applicato), che non aveva fiducia nei predetti, che tutti i magistrati sono tutti un clan, offendeva l'onore e il prestigio dei dott. M.C. e G.M. e del sostituto procuratore generale G.C., con l'aggravante della minaccia, perché accompagnava le espressioni offensive tenendo l'indice della mano costantemente alzato verso i magistrati.

In Perugia, il 18.6.2011

Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Con decreto del 5.4.2012 l'imputato A.L. veniva tratto a giudizio avanti questo Tribunale per rispondere del reato di cui in rubrica.

All'esito dell'istruttoria dibattimentale, articolatasi con l'esame dei testimoni M.G., sostituto procuratore presso il Tribunale di Perugia, e P.S., Avvocato del foro di Firenze, le parti discutevano e rassegnavano le conclusioni come trascritte in epigrafe.

Nel corso del dibattimento è emerso che durante il processo, davanti alla Corte di Assise di Appello di Perugia, instaurato nei confronti di A.K. e R.S. per l'omicidio di M.K., A.L. è stato sentito come testimone indotto dalle difese degli imputati.

Nel corso di tale deposizione testimoniale, in sede di controesame, l'odierno imputato si è rivolto nei confronti del sostituto procuratore generale G.C. e del sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Perugia G.M., applicato in appello per quel processo, che stavano conducendo il controesame e nei confronti di M.C., anch'essa sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Perugia applicata in appello per quel processo e presente in aula, le frasi di cui alla imputazione con il dito indice alzato, con modi agitati e fare intimidatorio.

L'A. ha affermato, nel corso di quella deposizione, di essere stato un collaboratore di giustizia e che il programma di protezione gli era stato revocato quando aveva iniziato a dire che l'autore dell'omicidio della ragazza inglese, M.K., era il proprio fratello e non A.K. e R.S..

A seguito della domanda del sostituto Procuratore Generale, che gli ricordava che aveva riportato ben sette condanne per calunnia, l'A. ha replicato che le condanne derivavano da sue ritrattazioni e accuse verso terzi, poi non provate a causa del mancato accertamento, da parte dei Magistrati, dei fatti da lui denunciati, e poi, indicando i magistrati, ha detto "non sapete lavorare, la verità, la verità, la verità non sapete fare i magistrati"; a seguito di una domanda del sostituto procuratore Generale l'A. affermava che non intendeva rispondere finché sarebbe rimasto in cella e che temeva i Pubblici Ministeri presenti in aula rivolgendo loro le parole "io temo voi, soprattutto i due pubblici ministeri che stanno davanti a voi, non tengo proprio fiducia in vuje. Siete un clan, non siete la magistratura, siete un clan perciò non tengo fiducia in voi..." (cfr. trascrizione verbale di udienza del 18.6.2011 davanti alla Corte d'Appello di Perugia).

Tali frasi venivano pronunciate dall'A. con modi agitati, con espressioni dialettali, di disprezzo e ostilità e e con il dito indice puntato in modo intimidatorio.

Al riguardo il teste M. ha evidenziato non solo l'atteggiamento estremamente offensivo dell'A., amplificato da fatto il processo era seguito dai mezzi di informazione di tutto il mondo, la cui irriguardosità si era protratta per diversi minuti senza che il Presidente della Corte d'assiste lo richiamasse ad un comportamento più consono al ruolo di testimone, ma anche il carattere intimidatorio del gesto di puntare il dito indice verso i rappresentanti della Pubblica accusa.

La teste P., difensore di una parte civile nel predetto processo, ha confermato l'atteggiamento agitato dell'A. affermando che era palesemente arrabbiato con tutta la magistratura e, in particolare, con i pubblici ministeri che erano presenti in udienza cui si era rivolto, guardandoli e puntando il dito contro di loro, con le parole di cui alla imputazione.

La presenza in udienza di tutti e tre magistrati (dott. C., M. e C.) e non soltanto dei dott. C. e M. risulta pienamente provata non solo dalle dichiarazioni del teste P. la quale ha riferito che quel giorno vi erano, in aula, tutti e tre i rappresentanti della pubblica Accusa ma anche dal fatto che il sostituto procuratore M. ha riferito di ricordare che, nel corso del controesame dell'A., la C. era molto seccata, al pari suo, del fatto che il presidente della Corte d'assise d'appello non richiamasse il testimone ad un comportamento più rispettoso e dall'evidente significato delle parole rivolte dall'A. all'indirizzo dei rappresentati della Accusa, "io temo voi, soprattutto i due pubblici ministeri che stanno davanti a voi", che lasciano inequivocabilmente intendere che, oltre al sostituto procuratore generale che gli rivolgeva le domande, vi erano in aula gli altri due pubblici ministeri applicati per quel processo.

Tutto ciò premesso questo giudicante osserva che in relazione al reato di cui all'art. 343 c.p., ai fini della configurabilità del reato di oltraggio a magistrato in udienza, non rientrano nell'ambito del legittimo esercizio del diritto di critica gli apprezzamenti rivolti non al merito dell'atto del magistrato (o, in genere, al contesto processuale) ma alla sua persona. E ciò in quanto la critica ad un provvedimento del giudice esula dalla fattispecie astratta configurata dall'art. 343 c.p. poiché il rispetto, di cui tutti i pubblici funzionari debbono essere circondati, non equivale ad insindacabilità. Tuttavia, perché ciò accada, è necessario che le espressioni, attraverso le quali si esercita il diritto di critica, siano immediatamente percepibili come un giudizio che investa la legittimità o l'opportunità del provvedimento in sè considerato e non la persona del pubblico ufficiale (tra le tante, Sez. 6, n. 21112 del 23/03/2004).

Nel caso in esame deve ritenersi che esula dalla fattispecie del reato di oltraggio di cui all'art. 343 c.p. la condotta ascritta all'imputato consistita nell'affermare che i magistrati non sapevano lavorare e non sapevano fare i magistrati, che temeva soprattutto i due pubblici ministeri M. e C. e che non aveva fiducia nei predetti e ciò in quanto, pur trattandosi di uno sfogo aspro e non consono al ruolo di testimone in quel contesto assunto dall'A. in quanto rivolto a disapprovare l'operato dei pubblici ministeri in relazione a fatti di reato diversi da quelli per cui lo stesso era sentito come testimone, le espressioni incriminate, tese a criticare l'operato della Procura in generale e dei pubblici ministeri presenti in udienza in particolare, appaiono infatti non assumere natura oltraggiosa proprio per l'atteggiamento esplicativo dell'imputato, che nelle dichiarazioni rese precedentemente aveva affermato di essere stato condannato plurime volte per calunnia a causa del mancato accertamento, da parte dei Magistrati della Pubblica Accusa, dei fatti di reato da lui denunciati.

Quanto alla frase "i magistrati sono tutti un clan" ricorre, invece, la natura assolutamente oltraggiosa delle parole usate in quanto l'A., il quale ha origine campane, è stato collaboratore di giustizia e, tra le varie condanne, è stato condannato anche per associazione a delinquere ex art. 416 c.p., ha usato non a caso la parola clan che, in bocca a lui, assume un significato ben preciso essendo immediatamente evocativa di una associazione criminosa dedita alla commissione di reati: il dire, rivolgendosi ai dott. C., M. e C., che sono un clan e che loro non sono la magistratura equivale a dire che i tre magistrati presenti in udienza sono membri di un sodalizio criminale operante con i metodi propri di una associazione di tale tipo.

Tali espressioni sono senz'altro sorrette dall'elemento soggettivo del dolo in quanto, vista la carriera criminale dell'imputato e la mancanza di una versione alternativa da parte dello stesso, le parole usate appaiono consapevolmente usate ed inequivocabilmente dirette ad offendere, al massimo grado, l'onore ed il prestigio dei magistrati presenti in udienza attribuendo loro un fatto, l'appartenenza ad una associazione criminale, assolutamente incompatibile con il ruolo pubblico da loro rivestito.

Il carattere oltraggioso è altresì rafforzato dalla gestualità con cui l'A. ha accompagnato le sue esternazioni verbali cariche di disprezzo e ostilità verso la Pubblica accusa: il dito indice alzato e puntato verso i pubblici ministeri con fare intimidatorio, ha assunto, unitamente al tono di disprezzo e ostilità con cui ha reso le sue dichiarazioni testimoniali, i connotati di una minaccia indiscutibilmente percepita come tale dagli stessi (cfr. dichiarazioni teste M.).

Tutto ciò considerato, non ricorrono le condizioni per riconoscere in favore dell'imputato le circostanze attenuanti generiche di cui all'art. 62 bis c.p. non essendo emerso in giudizio alcun elemento da valutare positivamente in favore dello stesso.

Passando, quindi alla commisurazione della pena, avuto riguardo a tutte le circostanze di cui all'art. 133 c.p., e ritenuto evidente il nesso della continuazione tra le violazioni commesse dall'imputato in esecuzione della stessa risoluzione criminosa ai danni dei tre p.m. C., M. e C., la pena da irrogare all'imputato va fissata in mesi dieci di reclusione (p.b. mesi sei di reclusione aumentata ai sensi del secondo comma dell'art. 343 c.p. a mesi otto di reclusione aumentata poi per la continuazione, un mese per ogni violazione, per gli ulteriori due fatti di reato commessi), oltre al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
visti gli artt. 533 e 535 c.p.p.

dichiara

A.L. colpevole del reato a lui contestato in relazione alle parole con cui, affermando che i magistrati p.m. dott. M.C. e G.M. ed il sostituto procuratore generale G.C. sono un clan, offendeva l'onore e il prestigio dei predetti magistrati, riconosciuta la circostanza aggravante contestata, riuniti i fatti sotto il vincolo della continuazione, lo condanna alla pena di mesi dieci di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali;

visto l'art. 530 c.p.p.

assolve A.L. dal reato contestatogli in relazione alle parole con cui affermava che i magistrati non sapevano lavorare e non sapevano fare i magistrati, che temeva soprattutto i due pubblici ministeri C. e M. e che non teneva fiducia nei predetti, perché il fatto non sussiste.

Fissa in sessanta giorni il termine per il deposito della motivazione.

Così deciso in Firenze, il 19 maggio 2014.

Depositata in Cancelleria il 30 giugno 2014.