L'attuale fase della vita politica nazionale è caratterizzata da una evoluzione del linguaggio, nei senso di una accresciuta aggressività, se non proprio da un generalizzato imbarbarimento del costume e del linguaggio politico, che ha portato ad una desensibilizzazione dei significato, originariamente, offensivo di certe espressioni e, quindi, ad un ampliamento del limite della continenza formale della critica politica.
La libertà di manifestazione del pensiero si caratterizza per il fatto di essere controvertibile, di produrre discussione, dissenso, dialettica delle idee e la tutela di cui all'art. 21 Cost. è posta proprio a salvaguardia delle espressioni sgradite ai più, si è affermato, innanzi tutto, che non è sindacabile il contenuto delle manifestazioni del pensiero, ma esclusivamente la forma, il tempo e le modalità di estrinsecazione.
Sono lecite anche valutazioni fondate su argomenti discutibili, purchè non siano lesi i valori di indipendenza e di imparzialità della giurisdizione e i giudizi critici attengano a fatti e vicende di rilievo pubblico e, come tali, oggetto di intenso dibattito culturale e politico. Quanto alla forma delle esternazioni si è più volte ritenuto che la critica, sia pure estremamente dura e senza appello o anche ingenerosa e sicuramente inopportuna, è lecita se sia rispettato il dovere di riferire fatti veri e di non ledere l'onorabilità dei singoli o la credibilità della funzione giudiziaria.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
(ud. 24/02/2005) 12-04-2005, n. 7443
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CORONA Rafaele - Primo Presidente f.f.
Dott. SENESE Salvatore - Presidente di sezione
Dott. CRISTARELLA ORESTANO Francesco - Pres. di sezione
Dott. PAOLINI Giovanni - est. Consigliere
Dott. MENSITIERI Alfredo - Consigliere
Dott. NAPOLETANO Giandonato - Consigliere
Dott. ALTIERI Enrico - rel. Consigliere
Dott. DI NANNI Luigi Francesco - Consigliere
Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro-tempore, domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
- ricorrente -
contro
SANSA ADRIANO E NEI CONFRONTI DEL PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;
- intimati -
avverso la sentenza n. 20/04 del Consiglio superiore magistratura, depositata il 15/09/04;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/02/05 dal Consigliere Dott. Enrico ALTIERI;
udito il P.M. in persona del Procuratore Generale Aggiunto Dott. DELLI PRISCOLI Mario che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Il Dr. Adriano Sansa, magistrato in servizio, con funzioni di consigliere, presso la Corte d'appello di Genova, è stato tratto al giudizio della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura per rispondere di una incolpazione con la quale gli è stato ascritto di aver "violato la norma di cui all'art. 18 del r.d.l. 31.5.1946 n. 511, precipuamente mancando ai doveri di riserbo e di correttezza, non ottemperando alle prescrizioni dettate dall'art. 6, ult. comma, del codice etico dei magistrati, in materia di rapporti con la stampa, ed alle regole fissate dal GSM con delibere in data 18.4.90, 19.5.93 e 1^.12.94", perchè, "in particolare, rilasciava dichiarazioni che venivano pubblicate il 20.1.2003, virgolettate, dal quotidiano di Genova LAVORO - REPUBBLICA, in un articolo dal titolo Sansa 2^, il ritorno alla politica", con "sottotitolo Il mio impegno? E' ora di tirare via questa brutta gente ....", e perchè "specificamente dichiarava, tra l'altro: adesso andrò in giro, se utile, a ripetere che bisogna essere cittadini e non sudditi, che bisogna mandar via questa brutta sente, ho detto che questo squallido, pessimo governo sta distruggendo la struttura stessa del Paese, la sua immagine, il suo futuro. Ho detto che non è solo un problema delle legai che producono - la Cirami, il falso in bilancio, le rotatorie - ma che, mentre votano questi provvedimenti non fanno tutto ciò che invece andrebbe fatto... adesso tiriamo via questa brutta gente: è un impegno che ho preso, non mi sembra poco...": perchè "inoltre, nella relazione del 31.1.2003 (indirizzata al Presidente della Corte d'Appello, a seguito di richiesta del Ministero di Giustizia, riferendosi, anche, a persone e fatti di cui non si faceva cenno nell'articolo in questione, dichiarava testualmente "..., in risposta alla richiesta del Ministero della giustizia... confermo di aver espresso ferme critiche al governo in tema di giustizia, di atteggiamento verso la magistratura e di rapporti fra poteri dello Stato: il Lavoro - Repubblica ha riportato le mie opinioni in termini sostanzialmente corretti, anche se a tratti con sintesi alquanto sommaria, come là dove non riferisce argomenti e giudizi critici più ampiamente motivati, e specialmente rivolti alla arroganza e alla manchevolezza etica del presidente del consiglio e dei suoi più intimi collaboratori di fronte alla Giustizia quali si sono poi nuovamente manifestate anche nei riguardi della Suprema Corte di Cassazione, tacciata sprezzantemente come parte di una magistratura politicizzata...": "con dette espressioni rivolgendo apodittiche critiche e gravi offese all'operato dell'attuale Governo ed al Presidente del Consiglio in carica, in guisa da rendersi immeritevole della fiducia e della considerazione di cui il magistrato deve godere, così compromettendo il prestigio dell'Ordine Giudiziario", Il giudice disciplinare, con la sentenza del 5 marzo - 15 settembre 2004 di cui in epigrafe, ha assolto il Dr. Sansa dall'incolpazione nei termini riportati contestatagli "per essere risultati esclusi gli addebiti".
Il detto giudice ha motivato la così resa pronuncia con le considerazioni di seguito, testualmente, trascritte.
"1) - La sezione disciplinare ritiene che le espressioni riportate nel capo di incolpazione costituiscono esercizio del diritto costituzionale di manifestare liberamente il proprio pensiero e che le predette espressioni non abbiano superato i limiti che la giurisprudenza disciplinare ha individuato per l'esercizio di tale diritto da parte dei magistrati.
L'esame dei profili di illiceità specificati nel capo di incolpazione presuppone, quindi, la ricognizione dei principi che questa sezione e la corte di Cassazione, in conformità con l'orientamento espresso dalla corte costituzionale, hanno costantemente affermato in tema di garanzia della libertà di manifestazione del pensiero e di diritto di critica del magistrato.
Con sentenza del 7 maggio 1981 n. 100, la corte costituzionale ha affermato con particolare forza che deve riconoscersi, e non sono possibili dubbi in proposito, che i magistrati debbano godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni cittadino, aggiungendo che deve del pari ammettersi che le funzioni esercitate e la qualifica da essi rivestita non sono indifferenti e prive di effetti per l'ordinamento costituzionale. Richiamato poi il principio secondo il quale la libertà di manifestazione del pensiero non è senza limiti purchè questi siano posti dalla legge e trovino fondamento in precetti e in principi costituzionali espressamente fissati o desumibili dalla Carta costituzionale, la Corte ha individuato come valori costituzionalmente tutelati quatti dell'indipendenza e dell'imparzialità e della tutela della credibilità della funzione giudiziaria (nella quale si concreta la nozione legislativa di prestigio dell'ordine Giudiziario). La necessità di un equilibrato bilanciamento con altri interessi costituzionalmente tutelati non comprime il diritto del magistrato alla libera manifestazione delle proprie opinioni, ma ne vieta solo l'esercizio anomalo e cioè l'abuso, che si configura quando risultino lesi gli altri valori di rilievo costituzionale sopra menzionati. La Corte ha concluso affermando che dovrà l'orzano chiamato a valutare i singoli comportamenti stabilire se essi possano o meno essere riprovati dalla coscienza sociale e se siano o meno conformi alla valutazione che comunque possano fare di essi gli stessi consociati in relazione alla natura e rilevanza degli interessi tutelati ed in funzione del buon andamento dell'attività giudiziaria.
Questi principi sono stati seguiti e ribaditi dalla corte di Cassazione che ha costantemente affermato che al magistrato, come a tutti i cittadini, deve essere riconosciuto il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero essendo vietato solo l'esercizio anomalo e l'abuso che si configura quando siano lese situazioni giuridiche non meno rilevanti, come diritti e libertà altrui o i valori di imparzialità e indipendenza.
Nell'ambito dell'orientamento richiamato si è sempre posta la giurisprudenza di questa sezione che è opportuno richiamare anche con specifico riferimento alla garanzia della libertà di critica, nei limiti in cui assume rilievo ai fini della presente decisione.
Poichè la libertà di manifestazione del pensiero si caratterizza per il fatto di essere controvertibile, di produrre discussione, dissenso, dialettica delle idee e la tutela di cui all'art. 21 Cost. è posta proprio a salvaguardia delle espressioni sgradite ai più, si è affermato, innanzi tutto, che non è sindacabile il contenuto delle manifestazioni del pensiero, ma esclusivamente la forma, il tempo e le modalità di estrinsecazione. Pertanto sono lecite anche valutazioni fondate su argomenti discutibili, purchè non siano lesi i valori di indipendenza e di imparzialità della giurisdizione e i giudizi critici attengano a fatti e vicende di rilievo pubblico e, come tali, oggetto di intenso dibattito culturale e politico. Quanto alla forma delle esternazioni si è più volte ritenuto che la critica, sia pure estremamente dura e senza appello o anche ingenerosa e sicuramente inopportuna, è lecita se sia rispettato il dovere di riferire fatti veri e di non ledere l'onorabilità dei singoli o la credibilità della funzione giudiziaria.
Deve anche ricordarsi che a volte nella giurisprudenza di questa sezione sono state richiamate a sostegno dei principi affermati le risoluzioni dei Consiglio superiore della magistratura del 18 aprite 1990, 19 maggio 1993 e del 1^ dicembre 1994, aventi ad oggetto le problematiche poste dalle dichiarazioni alta stampa da parte dei magistrati.
Dopo aver ribadito la necessità di garantire anche al magistrato la libertà di manifestazione del pensiero, il csm ha sollecitato il senso di autodisciplina e di autocontrollo per assicurare il rispetto di alcuni principi che possono essere così sintetizzati:
a) - inopportunità di dichiarazioni alla stampa su processi nei quali il magistrato a qualunque titolo sia chiamato a svolgere le proprie funzioni, salvo che non siano imposte da esigenze di chiarezza e trasparenza, e cioè per fornire le necessarie precisazioni, dissipare equivoci o impedire distorsioni;
b) - cautela e attenzione nel formulare valutazioni, anche critiche, su processi diversi da quelli sub a), fermo il rispetto detta verità storica e dell'altrui onorabilità;
c) - cautela e prudenza nell'informazione dell'opinione pubblica su situazioni di particolare disfunzione o di difficoltà, per evitare interpretazioni inesatte e deformazioni strumentali, previo accertamento che di tali situazioni siano stati già edotti gli organi competenti;
d) - osservanza del canone di riservatezza di cui all'art. 6 del codice etico adottato dalla Associazione Nazionale Magistrati ai sensi dell'art. 58/bis del d.lgs. n. 29 del 1993 (che invita i magistrati a non sollecitare la pubblicità di notizie attinenti ad attività di ufficio, a evitare la costituzione di canali informativi privilegiati quando ritengano di fornire alla stampa notizie per garantire la corretta informazione, l'esercizio del diritto di cronaca o per tutelare l'onore e la reputazione dei cittadini, a usare equilibrio e misura nel rilasciare interviste).
Il capo di incolpazione attribuisce alle citate risoluzioni la natura di vero e proprio precetto deontologico, la cui violazione darebbe luogo a responsabilità disciplinare. Deve al contrario osservarsi che in relazione alle situazioni giuridiche soggettive costituzionalmente tutelate lo spazio che gli interventi di natura amministrativa possono occupare è molto ristretto perchè, come è stato già osservato da questa sezione, le circolari e le risoluzioni del csm non possono essere di per sè produttive di limitazioni di diritti costituzionali quali la libertà di manifestazione del pensiero.
A maggior ragione l'affermazione vale rispetto ad atti del Ministro della giustizia, quale la nota circolare 20 settembre 1996, sulle dichiarazioni pubbliche dei magistrati, la cui violazione, invece,è stata in alcune fattispecie (non in quella di cui si tratta) contestata come illecito disciplinare. Gli atti amministrativi di cui si tratta sono quindi legittimi nei soli limiti in cui siano ricognitivi di principi che già costituiscono diritto vivente, perchè affermati nella giurisprudenza costituzionale, della Corte di Cassazione o della sezione disciplinare, non potendo mai costituire fonte autonoma di precetti limitativi di libertà costituzionalmente garantite.
Alla stregua dei rilievi svolti deve allora ritenersi che l'effettiva portata del richiamo alle risoluzioni del csm contenuta in alcune sentenze disciplinari, in realtà, è di natura meramente argomentativa, nel senso che tale richiamo è utilizzato solo per confermare indirettamente le conclusioni raggiunte in via diretta nell'individuazione del punto di bilanciamento tra i diversi valori costituzionali in gioco (diritto di libera manifestazione del pensiero, da un lato, e tutela dell'indipendenza, dell'imparzialità e della credibilità della funzione giudiziaria, dall'altro).
A conclusioni analoghe si deve pervenire per quanto riguarda la rilevanza ai fini dell'accertamento della sussistenza dell'illecito disciplinare, del codice etico, le cui violazione nel capo di incolpazione è configurata come fonte di responsabilità disciplinare. Infatti, il precetto etico-professionale e il precetto giuridico sono ontologicamente diversi per funzione e natura e pertanto, anche quando il piano etico e quello giuridico-disciplinare si intersecano, non sussiste necessaria coincidenza fra i due tipi di norme. In alcune fattispecie la violazione del codice etico può costituire l'indice o il riscontro di una violazione di regole disciplinari (si pensi ai precetti del codice etico in materia di indipendenza, imparzialità e correttezza), ma in altre la violazione delle norme etiche si pone al di sotto della soglia dell'illecito disciplinare (come quando si prescrivono comportamenti di disponibilità nei confronti degli utenti o obblighi di aggiornamento professionale e di oculata utilizzazione delle risorse o l'obbligo del dirigente di sollecitazione del parere del personale amministrativo e degli avvocati e degli stessi magistrati sulle questioni d'ufficio). La sanzione disciplinare è giustificata per violazione, per così dire, del minimo etico, mentre il precetto etico-professionale indica agli associati obiettivi che comportano la tensione verso i livelli più elevati, appunto, di etica professionale.
La violazione delle prescrizioni dettate dall'art. 6, ultimo comma, del codice etico dei magistrati approvato dalla AMN e dei principi indicati con le delibere del csm 18 aprile 1990, 19 maggio 1993 e 1^ dicembre 1994 in materia di rapporti dei magistrati con la stampa contestata con il capo di incolpazione, pertanto, non può, in quanto tale, ritenersi sussistente, ma può essere valutata solo come richiamo a previsioni che costituiscono riprova e conferma (e solo nei limiti in cui costituiscano riprova e conferma) dell'esistenza dei limiti della libertà di manifestazione del pensiero dei magistrati individuati dalla giurisprudenza disciplinare, in conformità con gli insegnamenti della Corte costituzionale.
2) - In punto di fatto, la sezione disciplinare rileva innanzi tutto che le parti dell'intervista riportate nel capo di incolpazione sono state estrapolate da un testo ben più ampio contenente dichiarazioni che il Dottor Sansa, già sindaco di Genova, ha reso in risposta a domande che il giornalista gli ha rivolto con l'intento, reso evidente dal titolo Sansa 2, il ritorno alla politica, di verificare se la partecipazione dell'incolpato a un pubblico dibattito svoltosi il giorno prima, dibattito al quale aveva partecipato anche Sergio Cofferati e che aveva suscitato entusiastico consenso del folto pubblico presente, dovesse intendersi come manifestazione del suo intento di tornare a svolgere attività politica: nel corso dell'intervista l'incolpato ha più volte negato di avere questa intenzione, anche se ovviamente ha manifestato soddisfazione per l'apprezzamento avuto dalle sue parole. In particolare, riassumendo il contenuto dell'intervento pubblico di alcuni giorni prima, ha dichiarato, prima di esprimere le sue valutazioni sull'attività del governo in carica con le espressioni riportate nel capo di incoltazione, Ho detto che lo Stato di diritto è lo strumento fondamentale per far crescere il Paese. Ho detto che i temi della politica sono il riequilibrio del mondo, il rapporto Nord Sud, come si resola il lavoro.
Quanto alla nota indirizzata al presidente della corte d'appello, deve osservarsi che non contiene direttamente valutazioni dell'attività di Governo o dell'operato del presidente del Consiglio, limitandosi ad accennare a giudizi e valutazioni che sarebbero state manifestate all'intervistatore e che questi per eccesso di sintesi non avrebbe riportato.
3) - Quanto al merito delle contestazioni disciplinari, deve innanzi tutto escludersi che nel rendere le dichiarazioni alla stampa il Dottor Sansa abbia violato il dovere del riserbo.
Nella giurisprudenza disciplinare, e nelle stesse previsioni delle risoluzioni consiliari e dell'art. 6 del codice etico dell'ANM richiamate nel capo di incolpazione, il dovere di riserbo del magistrato si riferisce alla necessità di rispettare il segreto d'ufficio e di evitare pubblicità sulle notizie attinenti la propria o l'altrui attività, specialmente con riguardo ai procedimenti in corso, salvo che sia necessario fornire all'opinione pubblica una corretta informazione, anche per tutelare l'onore e la reputazione dei cittadini.
Ora è evidente che nell'intervista non v'è alcun riferimento a procedimenti trattati dall'incolpato o dall'ufficio al quale egli appartiene, nè ad altre vicende giudiziarie in corso, avendo il Dottor Sansa affrontato solo temi di ordine istituzionale e politico generale.
Per dovere di completezza è opportuno tuttavia farsi carico di una possibile interpretazione del capo di incolpazione sulla base della quale il riferimento diretto all'intervista non escluderebbe un'indiretta rilevanza, ai fini dell'adempimento del dovere di riserbo, della partecipazione al dibattito pubblico a palazzo San Giorgio, oggetto principale dell'intervista stessa. Ma anche di fronte a tate interpretazione deve obbiettarsi che, alla stregua del principio secondo cui i magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad opti altro cittadino, al magistrato deve riconoscersi il diritto a partecipare alla vita politica, sia pure con il limite rappresentato dalla necessità del bilanciamento di tale diritto con l'esigenza di tutela di altri beni costituzionalmente protetti, come il buon andamento della giustizia e il prestigio dell'ordine giudiziario. Deve peraltro osservarsi che l'individuazione di tali limiti, diretti ad evitare che la partecipazione politica possa condizionare l'esercizio delle funzioni giudiziarie (ma che, comunque, sono meno rigorosi di quelli che il diritto di parola del magistrato incontra quando interviene per ragioni connesse all'esercizio della sua funzione) non attiene alla problematica dell'osservanza del dovere di riserbo, della quale ora si tratta, ma solo a quella dell'adempimento del dovere di correttezza che sarà affrontata in prosieguo. Non appare inutile, a proposito del riconoscimento del diritto costituzionale di partecipazione alla vita politica, ricordare che si tratta di uno dei tratti essenziali che ha storicamente connotato la rinascita della vita democratica nel nostro paese dopo la parentesi del fascismo. E' noto infatti che con circolare del 6 giugno 1944 n. 285, confermata con circolare 18 agosto 1945, il Ministro della giustizia abolì espressamente il divieto di pubblica professione di fede politica in precedenza imposto al personale della magistratura e degli uffici giudiziari, ritenendo che la partecipazione alla vita politica sia un dovere civico e che sarebbe per i funzionari dell'ordine giudiziario un privilegio odioso il contrastare loro l'adempimento di questo dovere, limitando a priori nei loro riguardi l'esercizio dei diritti politici al semplice atto del dare il voto nelle elezioni. E facendosi carico dell'esigenza di tutela dell'indipendenza della magistratura, la stessa circolare affermò che se moventi diversi da quelli del compimento del dovere dovessero influire sulle pronunzie dei magistrati italiani, non basterebbe impedire loro l'iscrizione ai partiti perchè, dentro e fuori di questi, il giudice non potrebbe non avere le sue opinioni e relazioni, tanto più efficaci quanto più nascoste.
Del pari sono significative le vicende successive, a partire dalla genesi del terzo comma dell'art. 98 Cost., che fu il risultato di una duplice modifica del testo licenziato dalla seconda sottocommissione dell'assemblea costituente, la quale aveva proposto solo il divieto dell'iscrizione ai partiti per i magistrati. Come è noto, l'assemblea, invece, non solo trasformò il divieto immediatamente precettivo nella previsione della possibilità che il legislatore ordinano valutasse in futuro l'opportunità di introdurre limitazioni al diritto di iscriversi ai partiti, ma inserì accanto ai magistrati altre tre categorie di pubblici impiegati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari e agenti di polizia e i rappresentanti diplomatici e consolari all'estero. Nè può essere priva di rilievo la circostanza che fino ad oggi il legislatore ha ritenuto che non sussistono le condizioni per introdurre quel divieto. Infatti, successivamente all'entrata in vigore della Costituzione mentre il legislatore ordinano ha previsto limitazione alla partecipazione alla vita politica per le forze di polizia e i militari in servizio (con l'art. 6 della L. 11 luglio 1978 n. 382, è stato introdotto il divieto, in particolari circostanze, per i militari di partecipare a riunioni e manifestazioni di partiti, associazioni ed organizzazioni politiche; con l'art. 114 della L. 1^ aprile 1981 n. 121, sull'ordinamento della pubblica sicurezza, è stato introdotto, ma in via transitoria, il divieto di iscrizione ai partiti politici per gli appartenenti ai corpi di polizia), nulla ha previsto per le altre categorie di pubblici impiegati di cui al terzo comma dell'art. 98 Cosi. Tutte le intuitive legislative, parlamentari e governative, dirette a introdurre il divieto di iscrizione ai partiti politici per i magistrati, a partire dall'epoca immediatamente successiva all'entrata in vigore della Costituzione, non hanno avuto l'approvazione del Parlamento, che, evidentemente, non ha ritenuto che esistessero le necessarie condizioni storico-politiche, e anche la norma del decreto-legge 3 maggio 1991 n. 141, che aveva introdotto il divieto per tutte le quattro categorie di pubblici impiegati, ha avuto breve vita perchè il decreto non fu convertito.
Deve, infine, rilevarsi che, se la mancata introduzione di limitazioni al diritto di iscriversi a partiti politici, che pure non potrebbero mai arrivare a sancire una totale sterilizzazione politica della magistratura, costituisce una rilevante conferma, a maiori, dell'esistenza del diritto dei magistrati alla partecipazione alla vita politica, tale diritto andrebbe riconosciuto anche in presenza dette predette limitazioni, perchè la politica di cui si tratta è la politica delle idee che, come tale, non può porsi in contrasto con il dovere di imparzialità, che esige l'estraneità e l'equidistanza del magistrato dalle parti processuali e dagli interessi in gioco, ma non anche un'impossibile indifferenza ai valori o una irrealistica neutralità culturale.
4) - Al Dott. Sansa è contestata anche la violazione del dovere di correttezza per aver rivolto con l'intervista e con la relazione al presidente della corte d'appello apodittiche critiche e gravi offese all'operato dell'attuale Governo e del presidente del Consiglio in carica.
Per quanto riguarda le critiche rivolte nell'intervista, come risulta dalle espressioni riportate nel capo di incolpazione, le stesse si sostanziano nell'affermazione secondo la quale l'attività del Governo si sarebbe esaurita nel promuovere approvazione di leggi non condivise dati 'intervistato (la Cirelli, il falso in bilancio, le rogatone) mentre sarebbe mancato l'impegno a risolvere il problemi reati del Paese.
Ora, la contestazione disciplinare non nega che anche il magistrato possa esprimere salutazioni critiche sull'operato del Governo, perchè, come è orientamento giurisprudenziale pacifico, non esiste nel nostro ordinamento un divieto assoluto per tutti i titolari di pubbliche funzioni di esprimere opinioni che possano contenere giudizi sull'operato di sospetti .. che rivestono cariche di pubblico rilievo. Nè, come è stato già ricordato, può essere censurato il contenuto della manifestazione del pensiero, che può anche consistere nell'espressione di valutazioni critiche, dure, senza appello, o anche ingenerose e inopportune.
Il capo di incolpazione si incentra sul carattere apodittico delle critiche. L'aggettivo apodittico, che propriamente indica la qualità di ciò che, essendo evidente di per sè, non ha bisogno di dimostrazione, o, se dimostrato, è logicamente inconfutabile, come di frequente avviene nel linguaggio giudiziario, è usato in una diversa (e certamente impropria) accezione a significare la mancanza di un apparato argomentativo che, sorreggendo i giudizi espressi, ne dovrebbe confermare la natura di manifestazione del pensiero. Ma anche l'accogliere questo uso del termine, non può tuttavia prescindersi dalle caratteristiche del mezzo espressivo usato. Come è stato in altra occasione osservato, l'opinione espressa in una intervista, per quanto possa essere motivata, è priva di quel necessario accurato approfondimento di idee che è, invece, proprio degli apprezzamenti contenuti in un volume o in un articolo. Pertanto la sommarietà dell'argomentazione, che certamente contraddistingue l'intervista, non può ritenersi tale da togliere alle espressioni usate la natura di genuina manifestazione del pensiero, anche perchè nella specie lo stesso intervistatore affermò espressamente che le parole dell'intervistato costituivano il riassunto delle cose dette in occasione del pubblico dibattito. D'altra parte, nella breve risposta al presidente della corte d'appello di Genova in data 31 gennaio 2003, il doti. Sansa ha ribadito che le sue opinioni erano state riportate con sintesi alquanto sommaria, come là dove non riferisce argomenti e giudizi critici più ampiamente motivati...
Per quanto riguarda la richiamata nota del 31 gennaio 2003 deve rilevarsi anche che, come già osservato, in essa non vengono formulate direttamente valutazioni critiche, rispetto alle quali si possa porre un problema di accertamento di apoditticità, nel significato di cui al capo di incolpazione, ma si fa riferimento in modo generico a valutazioni critiche del comportamento del presidente del Consiglio e dei suoi più intimi collaboratori che sarebbero state espresse al giornalista e che questi non avrebbe riportato per eccesso di sintesi.
5) - L'altra censura mossa all'incolpato riguarda il carattere offensivo delle espressioni usate, anche se il procuratore generale in udienza ha precisato che il Dott. Sansa non avrebbe usato (avuto) l'intenzione di offendere, ma avrebbe dovuto comunque successivamente smentirle per evitare possibili strumentalizzazioni e, pertanto, la contestazione deve intendersi riferita a un 'ipotesi di comportamento colposo.
Prima di affrontare il profilo soggettivo è necessario tuttavia valutare se le espressioni indicate nel capo di incolpazione abbiano oggettivamente carattere offensivo. A tal fine è necessario mettere le espressioni in rapporto con il contesto generale e specifico.
Dal punto di vista generale, deve osservarsi che è pacifico che sia l'intervista che la nota indirizzata al presidente della corte d'appello, che all'intervista si riferisce, hanno riguardo alla partecipazione del Dott. Sansa a un dibattito pubblico di natura politica, in relazione al quale non risulta mossa in modo esplicito alcuna contestazione, e, come si è osservato, se una contestazione di tale oggetto dovesse intendersi implicitamente mossa, sarebbe certamente infondata dovendo riconoscersi all'incolpato il diritto di partecipare alla vita politica e non essendo stato contestato che da tale partecipazione sia derivato un condizionamento dell'attività giudiziaria. Ora, come è stato più volte sottolineato dalla giurisprudenza, anche della Corte di Cassazione, l'attuale fase della vita politica nazionale è caratterizzata dalla trasformazione del linguaggio nel senso di una maggiore aggressività, se non proprio da un generale e progressivo imbarbarimento del costume e del linguaggio politico, che ha portato ad una desensibilizzazione del significato offensivo di certe espressioni e, quindi, ad un ampliamento dei limiti della continenza formale della critica politica.
Conseguentemente, espressioni dure e pungenti, che in un altro contesto generale avrebbero potuto essere considerate offensive, purchè non volgari e triviali e comunque attinenti a comportamenti pubblici e politici e non alla sfera privata, sono ritenuti scriminati dall'esercizio legittimo del diritto di critica politica.
Con riferimento poi allo specifico contesto nel quale sono state utilizzate le espressioni brutta gente e squallido, pessimo governo, riassuntivo del giudizio politico negativo della maggioranza e del governo in carica, sono indubbiamente dure, ma, da un lato, devono essere valutate in relazione al mutamento del linguaggio politico sopra evidenziato, e, dall'altro, non può ignorarsi il loro collegamento con il pubblico dibattito, il cui contenuto l'intervista intendeva in qualche modo riassumere, nell'ambito del quale certe forme espressive icastiche sono funzionali alla esigenza di efficacia della comunicazione con un pubblico ampio ed eterogeneo.
Quanto poi al giudizio di manchevolezza etica del presidente del consiglio e dei suoi più intimi collaboratori di fronte alla Giustizia riportato nella nota al presidente della corte d'appello, deve tenersi presente che il senso effettivo dell'espressione è rappresentato non da una immotivata e generica accusa di immoralità, ma da una denuncia critica dell'atteggiamento assunto dal presidente del consiglio e dai suoi difensori, che hanno anche cariche parlamentari, con riguardo a processi nei quali sono stati adottati provvedimenti fatti oggetto di critiche molto aspre e da alcune parti considerate anche denigratorie. Tale denuncia rieccheggia cioè un dibattito politico ampiamente diffuso, e, se può giustificare qualche ragionevole dubbio di opportunità, non si pone certo al di fuori dei limiti del legittimo esercizio del diritto di libera manifestazione del pensiero, in particolare, dell'esercizio del diritto di critica politica.
Nè può tralasciarsi che la nota rappresentava il primo atto di natura latamente difensiva rispetto a una iniziativa del Ministro, sollecitata dall'interrogazione parlamentare, che si preannunciava come imminente, in relazione alla richiesta di chiarimenti rivolta all'incolpato tramite il presidente della corte d'appello.
Non può inoltre condividersi l'impostazione del procuratore generale secondo la quale, pur dovendosi escludere il carattere intenzionalmente offensivo delle espressioni usate nell'intervista, l'incolpato avrebbe comunque avuto l'obbligo di smentirle per evitare strumentalizzazioni.
Nella nota al presidente della corte d'appello il Dottor Sansa ha dichiarato che il contenuto dell'intervista nella sostanza corrispondeva al suo pensiero e che solo peccava per eccesso di sintesi. Una smentita, invece, come il Dottor Sansa ben sapeva, presupponeva errori ed omissioni idonei ad incidere sul senso delle dichiarazioni, tanto e vero che quando in un articolo di stampa è stata successivamente riportata una sua posizione in modo lacunoso, tale da autorizzarne una lettura opposta a quella dovuta, egli ha chiesto che venisse data una precisazione. Una precisazione che avesse avuto solo la funzione di integrare il contenuto dell'intervista, senza incidere sul senso complessivo, avrebbe avuto invece effetti opposti a quelli che, secondo il procuratore generale, avrebbero dovuto essere perseguiti, avrebbe cioè, come suoi dirsi, dato due volte la notizia.
Nè può essere sufficiente ad integrare l'illecito contestato la circostanza che il doti Sansa, anche per la precedente esperienza politica fatta come sindaco di Genova, avesse una particolare autorevolezza e notorietà con conseguente pericolo di strumentalizzazione delle sue dichiarazioni. Nella giurisprudenza disciplinare si è posto il problema dell'esistenza di eventuali limiti alla libertà di manifestazione del pensiero del magistrato particolarmente noto e autorevole, ma, da un lato, tale problema ha riguardato l'ipotesi di notorietà e autorevolezza conseguita con l'esercizio delle funzioni con possibile strumentalizzazione del ruolo istituzionale, mentre nella specie un pericolo del genere non si poneva perchè l'autorevolezza e notorietà del doti Sansa era, all'epoca, prevalentemente legata alla sua precedente esperienza di sindaco. D'altro lato, e tale argomento è assorbente, quella giurisprudenza ha comunque recisamente negato che un tale limite soggettivo alla libertà di manifestazione del pensiero possa derivare dalla notorietà e autorevolezza del magistrato".
Il Ministero della giustizia ricorre, con tre articolati motivi, per la cassazione della sentenza surrichiamata, comunicatagli il 16 settembre 2004.
Il Dr. Adriano Sansa, cui il ricorso è stato notificato il 13/17 novembre 2004, si è astenuto da ogni attività difensiva nella presente sede.
Il ricorso, il 13 novembre 2004, è stato notificato anche al Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte Suprema.
Motivi della decisione
1) - Il Ministero della giustizia, con il primo mezzo di ricorso, deduce che la sentenza impugnata dovrebbe essere ravvisata passibile di cassazione perchè inficiata da "violazione della norma di cui all'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., in relazione all'art. 18 del r.d.lgs. 31/05/1946 n. 511 (in relazione all'art. 6, comma 3, del codice etico dei magistrati ordinari, di cui all'art. 58/bis, comma 4, del d.lgs. 3/02/1993 n. 29, modificato dall'art. 28 del dlgs.
23/12/1993 n. 546, approvato il 7/05/1994 dal C.D.C. dell'ANM., ed in relazione alle delibere del C.S.M. in data 18/04/1990, 19/05/1993, 1^/12/1994 - violazione e falsa applicazione di norme di diritto)":
più specificamente, richiamato uno dei profili dell'iter argomentativo sviluppato nella motivazione della pronuncia contestata (integralmente riprodotta in narrativa), denuncia che "la Sezione disciplinare è incorsa nella violazione e/o nella falsa applicazione" del complesso di fonti normative testè citate "ponendosi, peraltro, in posizione di conflitto con la propria, prevalente giurisprudenza"; premesso che "nel caso di specie non è in discussione il principio" secondo cui "le circolari e le risoluzioni del csm non possono essere di per sè produttive di limitazioni di diritti costituzionali, quali la libertà di manifestazione del pensiero", denuncia che "la problematica oggetto di vasto approfondimento da parte della giurisprudenza di merito e di legittimità, appare affrontata dalla sentenza che si sottopone a gravame in termini fuorvianti e riduttivi, in misura tale da incorrere nella violazione e/o nella falsa applicazione" di legge, contraddicendo, in particolare, "principi fissati dalle SS.UU. Civili della S.C. di Cassazione con la sentenza 20/11/1998 n. 11732, che ha, tra l'altro, affermato che la sezione disciplinare del CSM, nel valutare disciplinarmente i comportamenti dei singoli magistrati, compie un'ordinaria attività ermeneutica che si realizza nell'applicare al caso concreto la previsione legale dell'art. 18 r.dlgs. 31/05/1946 n. 511, mediante un'interpretazione sistematica coordinata con le altre norme del diritto statale (Costituzione ed altre fonti di cui all'art. 1 preleggi) e con le fonti di diritto interne all'ordinamento della magistratura e di livello infralegislativo, quali il codice etico, le fonti c.d. paranormative dello stesso CSM, i precedenti in materia della Sezione Disciplinare o della corte di Cassazione"; evidenziato, quindi, che "con la citata sentenza le SS.UU hanno confermato la legittimità dell'attività della S.D. che, nell'esercizio della propria funzione giurisdizionale, ha più volte richiamato anche fonti non legislative per meglio individuare le fattispecie deontologicamente rilevanti riconducibili alla previsione di contenuto generale dettata dall'art. 18 della legge sulle guarentigie della magistratura", sostiene che, in contrasto con quanto, a suo dire, statuito nella decisione censurata, "l'atipicità dell'illecito riferito ad ogni condotta che rende il magistrato immeritevole della fiducia e della credibilità che, come singolo e come appartenente all'O.G., deve riscuotere da parte dell'intera collettività, giustifica il ricorso all'integrazione della previsione legale con norme di etica professionale, come avviene per tutte le altre forme di responsabilità disciplinare degli esercenti determinate professioni", soggiungendo che nella giurisprudenza di queste Sezioni unite è dato rinvenire, oltre a quello più sopra ricordato, altro arresto (il n. 8958 del 14 ottobre 1996) nel quale "si afferma che, per sopperire all'incompleta tipicizzazione normativa della fattispecie di rilievo disciplinare, è necessario che nella contestazione risultino indicati informa analitica e circostanziata la natura e gli elementi essenziali della condotta, nonchè il profilo sotto cui la stessa viene addebitata".
La censura non coglie nel segno e deve essere, perciò, disattesa.
Il giudice disciplinare, nella sua sentenza in argomento, non ha mai negato, in linea di principio, la utilizzabilità delle previsioni del ripetutamente ricordato c.d. codice etico adottato dalla Associazione nazionale magistrati e delle prescrizioni risultanti dalle risoluzioni emanate dal Consiglio superiore della magistratura ai fini dell'integrazione della fattispecie astratta di illecito disciplinare di cui all'art. 18 r.dlgs. n. 511 del 1946, cit, ed ha statuito, invece, che le previsioni e prescrizioni cennate, avuto riguardo al loro rango sottordinato nel sistema delle fonti normative, sono insuscettibili di importare apprezzabile compressione del, fondamentale, diritto alla libera manifestazione del pensiero, soprattutto in campo politico, che ha il suo presidio, per i magistrati come per tutti, in una disposizione costituzionale (art. 21 Cost.).
La doglianza del ricorrente, mentre non investe espressamente l'enunciazione di principio considerata, fra l'altro pienamente condivisibile e difficilmente contestabile, critica un'affermazione non contenuta nel testo della motivazione della sentenza impugnata, e, di conseguenza, appare formulata inutilmente.
2) - Il Ministero della giustizia, con il secondo mezzo di ricorso, assume risaltare nella sentenza impugnata "violazione della norma di cui all'art 360, comma 1, n. 5, c.p.c., in relazione all'art 18 del r.dlgs. 31/05/1946 n. 511 (omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia - violazione del dovere di correttezza)": segnatamente, dopo aver richiamato lunghi passi della pronuncia del giudice disciplinare, sostiene che tale pronuncia, per un verso, "enuclea i principi fissati, nella materia di che trattasi, con peculiare riguardo ai rapporti tra diritto di manifestazione del pensiero da parte del magistrato e dovere di correttezza imposto al medesimo nell'esercizio e fuori delle funzioni", e, per un altro, incorre in una "palese dicotomia tra premesse e conclusioni, con motivazione, per l'appunto, omessa e/o insistente e/o contraddittoria".
Il ricorrente, per suffragare la tesi in discorso, svolge le seguenti considerazioni.
"...si osserva e si ribadisce, rispetto alla gran parte delle premesse della sentenza della sezione disciplinare, che il nostro ordinamento giuridico riconosce anche ai magistrati il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, nonostante ponga, a detto diritto, taluni, inevitabili, limiti connessi al peculiare ruolo istituzionale da essi rivestito.
Invero, la Corte Costituzionale con sentenza n. 101 del 1981 (...) dopo aver osservato che il magistrato gode degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino, ha rilevato che ... i magistrati, per dettato costituzionale, debbono essere imparziali e indipendenti e tali valori vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giurisdizionale ma anche come regola deontologica da osservarsi in opti comportamento, al fine di evitare che possa dubitarsi della loro indipendenza e imparzialità nell'adempimento del compito loro assegnato. I principi anzidetto sono quindi volti a tutelare anche la considerazione di cui il magistrato deve godere messo la pubblica opinione e assicurano al contempo quella dignità dell'intero Ordine Giudiziario che l'art. 18 del r.d.lgs. 31/05/1946 n. 511 qualifica prestigio... Nel bilanciamento di tali interessi con il fondamentale diritto alla libera espressione del pensiero sta il giusto equilibrio, al fine di contemperare esigenze ugualmente garantite dall'ordinamento costituzionale...
A tale enunciazione segue poi la considerazione che l'equilibrato bilanciamento degli interessi tutelati non comprime la libertà di manifestare le proprie opinioni, ma ne vieta l'esercizio anomalo, ossia l'abuso che viene ad esistenza ove risultino lesi altri valori sopra menzionati.
In linea con quanto osservato dalla Coste Costituzionale si sono espresse le Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
I giudici della Suprema Corte hanno affermato che il diritto di manifestazione del proprio pensiero da parie dei magistrati non può ritenersi consentito sulla sola base del principio garantito dall'art. 21 Cost., incontrando questo i limiti posti dall'ordinamento a tutela dei diritti e delle libertà altrui e dovendo, altresì, essere coordinato con gli altri interessi di rango pubblicistico e costituzionale.
Tra i suddetti interessi di rango pubblicistico e costituzionale - con i quali va coordinata la libera manifestazione del pensiero - rientra senza dubbio l'interesse a che la sfera giuridica di altri soggetti e/o l'esercizio di funzioni costituzionalmente previste non subiscano indebiti attacchi.
Va poi ricordato che l'art. 6 del codice etico (...) approvato il 7/05/1994 dal Comitato Direttivo Centrale dell'Associazione Nazionale Magistrati, dopo aver stabilito al comma 1 che il magistrato nei contatti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione... non sollecita la pubblicità di notizie attenenti alla propria attività d'ufficio ed al comma 2 che quando non è tenuto al secreto ed alla riservatezza su informazioni conosciute per razioni del suo ufficio e ritiene di dover fornire notizie sull'attività giudiziaria, al fine di garantire la corretta informazione di cronaca, ovvero di tutelare l'onore e la reputazione dei cittadini, evita la costituzione o l'utilizzazione di canali informativi personali o riservati o privilegiati con norma di chiusura riferibile a qualsivoglia ambito di luogo e tempo della relativa esternazione, afferma (comma 3):
fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio e di misura nel rilasciare dichiarazioni e interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa.
Dall'esame dei sopra indicati principi si evince che non esiste, di certo, un generalizzato divieto per i magistrati di esprimersi in materia di politica legislativa, sempre, però che non risultino pregiudicati, a seguito delle dichiarazioni espresse, quei valori e quegli interessi sopra esaminati,' e dunque, sempre che a) - le affermazioni svolte dal magistrato non siano tali da far dubitare della sua indipendenza ed imparzialità nell'adempimento dei compiti a lui assegnati, l'una e l'altra essendo valori di rango costituzionale,' b) - dette affermazioni non determino indebite interferenze nel corretto esercizio di funzioni costituzionalmente previste (quali quelle di altri organi costituzionali o costituzionalmente rilevanti); c) - dette esternazioni non ledano altrui diritti di rango costituzionale (quali, in primis, quello all'onore).
E' da ritenere che il giudice della deontologia fornisca motivazione solo apparente, comunque insufficiente e contraddittoria della asserita correttezza delle critiche (laddove il termine apodittico sta ad indicare, secondo l'accezione comune, pur se non propriamente etimologica, gratuito, ingiustificato, privo della pur minima motivazione) all'operato dell'attuale Governo e del Presidente del Consiglio, e del ritenuto carattere non offensivo delle espressioni utilizzate (integranti, al pari delle prime, ma in maniera macroscopica, per loro stessa natura, violazione del dovere di correttezza: adesso andrò in giro, se è utile, a ripetere che bisogna essere cittadini e non sudditi, che bisogna mandar via questa brutta gente, - ho detto che questo squallido, pessimo governo sta distruggendo la struttura stessa del Paese, la sua immagine, il suo futuro - ho detto che non è solo un problema delle leggi che producono, la Cirami, il falso in bilancio, le rogatorie, ma che, mentre votano questi provvedimenti, non fanno tutto ciò che invece andrebbe fatto - adesso tiriamo via questa brutta sente: è un impenno che ho preso, non mi sembra poco.
In risposta alla richiesta del Ministero della Giustizia, comunicatami in data odierna, in relazione ad interpellanza dell'on. Bornacin ed altri, confermo di aver espresso ferme critiche al governo in tema di giustizia di atteggiamenti verso la magistratura e di rapporto tra i poteri dello Stato.
Il Lavoro-Repubblica ha riportato le mie opinioni in termini sostanzialmente corretti, anche se a tratti con sintesi alquanto sommaria, come là dove non riferisce argomenti e giudizi critici più ampiamente motivati, e specialmente rivolti alla arroganza e alla manchevolezza etica del presidente del consiglio e dei suoi più intimi collaboratori di fronte alla Giustizia.
Era compita della S.D. operare un bilanciamento di interessi, egualmente garantiti dall'ordinamento costituzionale, per stabilire se le concrete, non smentite, dichiarazioni del magistrato, oggetto di addebito, abbiano rappresentato una concreta esplicazione della libertà fondamentale di manifestazione del pensiero, ovvero se esse abbiano costituito un abuso, in quanto idonee, per il contenuto, per i modi e per i tempi, a compromettere la fiducia e la considerazione di cui il magistrato deve godere, e, di riflesso, il prestigio dell'intero ordine giudiziario.
In particolare, la sentenza della S.D., con riferimento al principio fissato dalla sentenza n. 100/1981 della Corte Costituzionale (pur citata alla pag. 4 del provvedimento impugnato: ...) non da conto, o comunque il percorso motivazionale appare inficiato dal carattere della contraddittorietà, dei motivi a cagione dei quali, nel caso di specie, le contestate esternazioni non possano essere riprovate dalla coscienza sociale (si ponga mente, fra l'altro, al mezzo - quotidiano di Genova - di propagazione dell'esternazione, e dalle funzioni esercitate dal magistrato - C.C.A. in Genova), che non è di certo riferibile solo ad una parte politica, contrapposta a quella rappresentata dal Governo in carica, e se siano o meno conformi alla valutazione che comunque possano fare di essi gli stessi consociati in relazione alla natura e rilevanza degli interessi tutelati ed in funzione del buon andamento dell'attività Giudiziaria.
In altri termini sembra che la coscienza sociale sia interpretata univocamente nel senso che tutti i consociati siano dello stesso avviso del doti Sansa in relazione alle iniziative che questi potrebbe intraprendere; il che non è assolutamente conforme al vero.
Inoltre, la S.D. non da contezza dei motivi per i quali non sarebbe stato violato il dovere di correttezza, laddove il Dott. Sansa, come detto consigliere della Corte d'Appello di Genova, dichiara seccamente alla stampa" quanto più sopra, testualmente, riportato, "così esprimendosi da uomo politico, e non certo da magistrato, giungendo ad assumersi l'impegno di mandar via questa brutta gente travalicando macroscopicamente i limiti fissati dalla Corte Costituzionale, dalle SS.UU. Civili della S.C. e dalla medesima S.D. in materia di esercizio da parte degli appartenenti all'O.G. del diritto di manifestazione del pensiero.
Tali espressioni, in particolare, non possono che riferirsi all'attività di magistrato, con la veste strumentale che ne discende dall'aver svolto le funzioni di Sindaco di Genova, e, quindi, non a lui consentite, in quanto, altrimenti, come privato cittadino, non è dato comprendere come il Dott. Sansa potrebbe in concreto dare attuazione a detti convincimenti e propositi.
La motivazione ancora appare insufficiente e contraddittoria, siccome poggiante su presupposti di fatto erronei, laddove il giudice della deontologia sembra confondere o sovrapporre la posizione del magistrato a quella del politico: Ora, come è stato più volte sottolineato dalla giurisprudenza, anche della Corte di Cassazione, l'attuale fase della vita politica nazionale è caratterizzata dalla trasformazione del linguaggio nel senso di una maggiore aggressività, se non proprio da un generale e progressivo imbarbarimento del costume e del linguaggio politico, che ha portato ad una desensibilizzazione del significato offensivo di certe espressioni e quindi a un ampliamento dei limiti della continenza formale della critica politica.
Conseguentemente espressioni dure e pungenti che in altro contesto generale avrebbero potuto essere considerate offensive, purchè non volgari e triviali e comunque attienenti a comportamenti pubblici e politici e non alla sfera privata, sono ritenute scriminate dall'esercizio legittimo del diritto di critica politica.
Con riferimento poi allo specifico contesto nel quale sono state utilizzate, deve ritenersi che le espressioni brutta gente e squallido, pessimo governo, riassuntive del giudizio politico negativo della maggioranza e del Governo in carica, sono indubbiamente dure, ma, da un lato, debbono essere valutate in relazione al mutamento del linguaggio politico sopra evidenziato, e, dall'altro, non può ignorarsi il loro collegamento con il pubblico dibattito, il cui contenuto l'intervista intendeva in qualche modo riassumere, nell'ambito del quale certe forme espressive icastiche sono funzionali all'esigenza di efficacia della comunicazione con un pubblico vasto ed eterogeneo.
Al contrario di quanto la S.D. sembra lasciare intendere, che pur definisce indubbiamente dure le espressioni utilizzate, poi ritenendo insussistenti gli illeciti contestati, i principi enucleati dalla citate sentenze della S.C. di Cassazione non si riferiscono alle esternazioni dei magistrati, che politici non sono e che, nell'esercizio e fuori delle proprie funzioni hanno il costante dovere di fornire immagine di indipendenza e di imparzialità, dovere che non limita il corretto esercizio del diritto di manifestazione del pensiero.
In tali termini, le espressioni usate, se sono consentite, lo sono soltanto nel contesto politico degli addetti ai lavori, dove si registra un mutamento indubbiamente peggiorativo, quanto a rozzezza del relativo linguaggio, ma non anche nel contesto proprio di un appartenente all'Ordine Giudiziario, ove ricorrono i limiti di cui ai più volte riferiti canoni".
Le censure nell'esposta guisa articolate non meritano accoglimento.
A) - Non è pertinente la deduzione secondo cui il giudice disciplinare, venendo meno al suo dovere (quale individuato da Corte cost., sent, n. 101 del 19 giugno 1981) "di valutare i singoli comportamenti e di stabilire se essi possano o meno essere riprovati dalla coscienza sociale e se siano o meno conformi alla valutazione che comunque possano fare di essi gli stessi consociati in relazione alla natura e rilevanza degli interessi tutelati e in funzione del buon andamento dell'attività giudiziaria" non avrebbe dato conto delle ragioni che lo hanno indotto a ritenere che "le contestate esternazioni non possono essere riprovate dalla coscienza sociale (...) che non è certo riferibile solo ad una parte politica, contrapposta a quella rappresentata dal Governo in carica" e ad escludere che "tali esternazioni non possano essere negativamente valutate dai consociati", "in relazione alla natura ed alla rilevanza degli interessi tutelati ed in funzione del buon andamento dell'attività giudiziaria", quasi volendo dare per presupposto "che la coscienza sociale sia interpretata univocamente, nel senso che tutti i consociati siano dello stesso avviso del doti Soma in relazione alle iniziative che questi vorrebbe intraprendere; il che non è assolutamente conforme al vero".
In proposito, si impongono le seguenti considerazioni.
Il giudice disciplinare, sulla premessa, incontestabile, e dal ricorrente, in linea di principio, neppure contestata (v., pag. 25 del ricorso: "il nostro ordinamento giuridico riconosce anche ai magistrati il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, nonostante ponga, a detto diritto, taluni inevitabili limiti riconnessi al peculiare ruolo istituzionale da essi rivestito"), che al magistrato compete il diritto di esprimere le proprie idee politiche, ha correttamente affermato che tale diritto comprende la facoltà di manifestare opinioni "controvertibile e "sgradite ai più", escludendo, consequenzialmente, la sindacabilità del "contenuto della manifestazione del pensiero", e, quindi, implicitamente ma inequivocabilmente, la rilevanza ai fini disciplinari del dato che le idee concretamente manifestate dal magistrato risultino, o non, condivise da una fetta più o meno larga dell'opinione pubblica.
Così stando le cose, è priva di ragion d'essere la lagnanza del ricorrente secondo la quale nella sentenza impugnata difetterebbe una motivazione adeguata in ordine alla illustrazione delle ragioni per le quali è stato ritenuto che "le contestate esternazioni non possano essere riprovate dalla coscienza sociale", asserita, in buona misura non in sintonia con le opinioni manifestate dall'attuale intimato.
B) - Non è fondata, e appare per molti versi addirittura inammissibile, l'asserzione secondo la quale il giudice disciplinare avrebbe errato nel non rilevare che il Dr. Sansa, rendendo le dichiarazioni di cui al capo di incolpazione e "giungendo ad assumersi l'impegno di mandar via questa brutta gente" (espressione evidentemente riferita all'attuale governo e alla sua maggioranza), avrebbe "travalicato i limiti fissati dalla giurisprudenza costituzionale, di legittimità e di merito in materia di esercizio, da parte degli appartenenti all'Ordine Giudiziario, del diritto di manifestazione del pensiero", posto che tali dichiarazioni non potrebbero "che riferirsi all'attività di magistrato, con la veste strumentale che ne discende dell'aver svolto le funzioni di Sindaco di Genova, e, quindi, a lui non consentite, in quanto, altrimenti, come privato cittadino, non è dato intendere come il Dr. Sansa potrebbe in concreto dare attuazione a detti convincimenti e propositi. a) - Innanzi tutto, è da dire che dal capo di incolpazione non risulta che all'intimato siano state contestale scorrettezze (violazioni del dovere di imparzialità) commesse, o programmate, nell'esercizio della sua attività giudiziaria in qualche modo correlate alla manifestazione di opinioni qui in discussione, e che nè dalla sentenza impugnata, nè dalla esposizione dei fatti della causa contenuta nel ricorso è dato ricavare che del tema in argomento si sia dibattuto nel pregresso stadio di merito del processo: ogni deduzione al riguardo, pertanto, è da intendersi preclusa dal divieto di nova in cassazione. b) - D'altronde, a prescindere dalla genericità e dalla attitudine ad incidere prevalentemente nel merito della denuncia del, preteso, mancato rilievo dell'avvenuto "travalicamento" dei limiti della legittimità dell'esercizio del diritto di manifestazione del pensiero da parte dei magistrati, deve osservarsi che il giudice disciplinare ha sufficientemente e non contraddittoriamente motivato sul punto, evidenziando che le dichiarazioni del Dr. Sansa di che trattasi, avuto riguardo al contesto in cui sono state rilasciate (intervista giornalistica riassuntiva di intervento oratorio eseguito nel corso di un convegno politico) ed al loto reale tenore (individuato sulla base di un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità), hanno costituito ragionate, e sia pure opinabili ("controvertibili"), ma in ogni caso lecite, critiche all'operato del governo e della sua maggioranza in relazione all'avvenuta approvazione di alcune, specificate leggi, dal dichiarante affermate perniciose, e alla mancata adozione di altre misure legislative, sempre a detta del dichiarante, necessarie per il bene del paese, nonchè al comportamento processuale del presidente del consiglio e di suoi collaboratori, parlamentari, nel quadro di processi penali che li hanno visti, a vario titolo, coinvolti.
E, sul punto, a confutazione della doglianza, non è inutile evidenziare che, come osservato in sede di discussione dal Procuratore generale, occorre prescindere da ogni valutazione di merito sull'opportunità e sulla durezza delle espressioni usate dall'intimato, dovendo questa Corte Suprema limitarsi alla verifica della riscontrabilità nella sentenza impugnata delle violazioni di legge e/o dei vizi di motivazione dedotti (art. 360, comma 1 nn. 3 e 5, cod.proc.civ.), e, sotto tale profilo, è da escludere la sussistenza del prospettato difetto di motivazione, rivelandosi la sentenza: impugnata sufficientemente e non contraddittoriamente motivata dalla considerazioni che ulte dette espressioni non può essere attribuito, nel contesto odierno, carattere illecito perchè "l'attuale fase della vita politica nazionale è caratterizzata da una evoluzione del linguaggio, nei senso di una accresciuta aggressività, se non proprio da un generalizzato imbarbarimento del costume e del linguaggio politico, che ha portato ad una desensibilizzazione dei significato, originariamente, offensivo di certe espressioni e, quindi, ad un ampliamento del limite della continenza formale della critica politica".
c) - Non è fondato, ancora, l'assunto del ricorrente secondo il quale le ripetute dichiarazioni del Dr. Sansa, anche se, in astratto, considerabili, consentite alla stregua del rilevato imbarbarimento del linguaggio politico, avrebbero dovuto, e dovrebbero, essere ravvisate consentite soltanto nel "contesto politico degli addetti ai lavori", ma non anche quando rilasciate da un magistrato, tenuto, in quanto tale, al dovere della riservatezza.
Ed invero, a prescindere dalla osservazione, fatta anche questa dal Procuratore generale in sede di discussione, che, una volta ammesse la libertà della manifestazione delle opinioni " politiche da parte dei magistrati e la liceità della partecipazione degli stessi al dibattito politico, non si vede come una stessa espressione di contenuto politico possa avere una maggiore o minore attitudine offensiva a seconda che sia pronunciata da un uomo politico, da un semplice cittadino o da un magistrato, l'accettabilità dell'esaminata tesi del ricorrente va esclusa sulla base di quanto detto in precedenza in ordine alla ortodossia, sufficienza e non contraddittorietà della motivazione cui il giudice disciplinare ha correlato la declaratoria della liceità e della obiettiva non offensività delle discusse dichiarazioni del Dr. Sansa.
d) - Per concludere al considerato riguardo, va evidenziato come, avendo il giudice disciplinare accertato (all'esito di un apprezzamento di fatto, giova ribadirlo, sufficientemente e non contraddittoriamente motivato, perciò non sindacabile in questa sede a mente dell'art. 360, comma 1 n. 5, cod.proc.civ.) che la contestata manifestazione del pensiero, pur nella sua sostanziale discutibilità ("controvertibilità"), quanto alla forma, è rimasta nello standard del linguaggio utilizzato nell'odierno dibattito politico, senza attingere a vertici di offensività particolarmente significativi, debba inevitabilmente escludersi che tale manifestazione possa aver minato in qualche misura la credibilità del Dr. Sansa come magistrato e diminuito la fiducia della pubblica opinione nella di lui imparzialità nell'esercizio delle funzioni giurisdizionali, con riflessi negativi sul prestigio dell'intero ordine giudiziario.
Posta, infatti, la insindacabilità del contenuto della manifestazione del pensiero (anche, e soprattutto se, non conformistica) fatta dal magistrato pubblicamente come cittadino, nell'esercizio del diritto garantito a lui, come a tutti, dall'ai. 21 della Costituzione, una volta accertata, come nella specie risulta in fatto accertata, la liceità nella forma della manifestazione stessa, non è oggettivamente ipotizzatale che da essa possa derivare una menomazione della credibilità del magistrato medesimo e della fiducia nella sua imparzialità presso la pubblica opinione.
3) - Il Ministero della giustizia, con il terzo mezzo di ricorso, asserisce che la sentenza impugnata dovrebbe essere cassata per risultare in essa riscontrabile "violazione della norma di cui all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., in relazione all'art. 18 r.dlgs.31/05/1946 n. 511 (omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia - violazione del dovere di riserbo)": nella sostanza, dopo aver trascritto ampi passaggi della motivazione della decisione contestata, sostiene che la pronuncia del giudice disciplinare "non si sottrae a censura in ordine ad omessa o comunque insufficiente motivazione" per aver detto giudice ritenuto che "la violazione del dovere di riserbo" incombente sui magistrati "sia rapportabile esclusivamente alla necessità di rispettare il segreto d'ufficio e di evitare pubblicità sulle notizie attinenti la propria e l'altrui attività, specialmente con riguardo ai procedimenti, civili e penali, in corso", mentre, da un lato, sarebbe difficilmente sostenibile che "la condotta non corretta del magistrato... realizzata mediante esternazioni contenenti... critiche ingiustificate e gravi offese al Governo e al Presidente del Consiglio non ... costituisce trasgressione del dovere di riservatezza", e dall'altro, apparirebbe manifestamente "riduttivo limitare l'inosservanza del dovere in questione ai casi indicati, a non anche alla condotta svincolata da procedimenti trattati personalmente o da altri colleghi, indipendentemente dai principi di legalità e di giustizia che sempre devono orientare le azioni del magistrato...", quando "il già menzionato art. 6, comma 3, del codice etico dei magistrati ordinari recita testualmente" che "fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero il magistrato si ispira a criteri di equilibrio e di misura nel rilasciare dichiarazioni e interviste ai giornali ed agli altri mezzi di comunicazione di massa", dettante così una norma che, correlata alla disposizione generale dell'art. 18 r.d.lgs 31.5.1946 n. 511, consentirebbe di "ipotizzare, ..., non solo profili attinenti alla correttezza, ma anche quelli concernenti il riserbo, ai quali doveri il magistrato deve orientarsi in ufficio e fuori".
Neppure la censura considerata può essere accolta. a) - Il giudice disciplinare ha affermato che la norma del c.d. codice etico dei magistrati ordinali come sopra richiamata dal ricorrente concerne la prescrizione di un "dovere di riserbo riferito alla necessità di rispettare il segreto d'ufficio e di evitare pubblicità su notizie attinenti la propria e altrui attività con riguardo ai procedimenti in corso".
La declaratoria resa da detto giudice al riguardo, concernendo l'interpretazione di un atto di autonomia privata non assimilabile alla normativa legislativa o regolamentare, integra la risultante di un accertamento di fatto sindacabile in cassazione solo con riferimento alla sufficienza ed alla non contraddittorietà della motivazione (art. 360, comma 1 n. 5, cod.proc.civ.), e non con deduzioni che, come quelle articolate nel ricorso, siano intese a prospettare soltanto, con assunti di merito, l'interpretabilità dell'atto in senso diverso da quello ravvisato dal giudice e ritenuto preferibile dalla parte deducente.
Nel contesto dato, si rivela prospettata inutilmente la tesi, secondo la quale le prescrizioni del ridetto art. 6 del codice etico imporrebbero al magistrato doveri diversi da quelli del rispetto del segreto d'ufficio e del divieto di dare pubblicità all'attività giudiziaria propria o altrui. b) - Per il resto le deduzioni articolate nel mezzo di gravame delibato altro non costituiscono che reiterazioni di asserzioni intese a denunciare la rilevanza disciplinare del comportamento ascritto al Dr. Sansa che sono state esaminate, e ritenute infondate, nel paragrafo precedente.
4) - Corollario quanto detto è che il ricorso, siccome riscontrato sorretto da mezzi inaccoglibili, deve essere rigettato.
5) - Il Dr. Sansa, intimato, non ha svolto attività difensiva nella presente sede, e, perciò, non si deve provvedere su sue spese.
Il Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte Suprema non può essere destinatario di statuizioni sulle spese (cfr., in terminis, Cass. SS.UU. civ., sent. n. 2123 del 12.10.1965, id., sent. n. 21945 del 22.11.2004).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite civili della Corte Suprema di Cassazione, il 24 febbraio 2005.
Depositato in Cancelleria il 12 aprile 2005