Se non vengono ripresi o fotografati comportamenti della vita privata sottratti alla normale osservazione dall’esterno, non c'è reato perché la tutela del domicilio è limitata a ciò che si compie nei luoghi di privata dimora in condizioni tali da renderlo tendenzialmente non visibile a terzi.
Ai fini della tutela della riservatezza accordata a fatti che si svolgono in condizioni di riservatezza, ciò che rileva è la pacifica e nota destinazione di un determinato luogo alla regolare esplicazione di atti della vita privata, rimanendo irrilevante il fatto che detto luogo sia destinato anche ad altre funzioni (es. magazzino).
Corte di Cassazione
sez. III Penale
sentenza 10 luglio 2018 – 8 gennaio 2019, n. 372
Presidente Lapalorcia – Relatore Liberati
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 27 settembre 2017 la Corte d’appello di Milano, provvedendo sulle impugnazioni proposte dall’imputato R.S. e dalle parti civili P.U. e C.T. , nei confronti della sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Busto Arsizio del 17 novembre 2016, con cui era stata affermata la responsabilità dell’imputato in relazione ai reati di cui all’art. 81 cpv. c.p. e art. 609 quater c.p., u.c., (per avere, in più occasioni, compiuto atti sessuali nei confronti di una minore di dieci anni, capo A della rubrica), art. 81 cpv. c.p. e art. 615 bis c.p., comma 1, (per essersi procurato indebitamente, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva, più immagini di tre proprie dipendenti, mentre erano intente a cambiarsi d’abito all’interno dello spogliatoio di un esercizio commerciale, da considerarsi luogo di privata dimora, capo B della rubrica), e art. 615 bis c.p., comma 1, (per essersi procurato indebitamente video e fotografie di Cr.Ch.Fr.Ma. , mentre si trovava all’interno della abitazione della madre, nuda e intenta a uscire dalla doccia, capo C della rubrica), ha ridotto la pena inflittagli a tre anni e due mesi di reclusione e, accogliendo le impugnazioni delle parti civili, lo ha condannato a risarcire anche i danni sopportati in proprio dai genitori della minore vittima del reato di violenza sessuale (P.U. e C.T. ) e quella sopportati dalla persona offesa del reato di cui al capo B (C.T. ).
2. Avverso tale sentenza l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, enunciati nei limiti strettamente necessari ai fini della motivazione.
2.1. Con un primo motivo ha lamentato la violazione e l’errata applicazione dell’art. 615 bis c.p. e l’insufficienza della motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) et e), in riferimento alla qualificazione come luogo di privata dimora del locale, adibito a magazzino, utilizzato dalle dipendenti dell’esercizio commerciale a esso attiguo per cambiarsi d’abito, trattandosi di un magazzino utilizzato saltuariamente come spogliatoio, al quale era consentito liberamente l’accesso a tutti coloro che lavoravano nel suddetto esercizio commerciale (svolgente attività di bar) e al datore di lavoro (che avrebbe potuto installarvi dei dispositivi di controllo a distanza dei lavoratori), cosicché sarebbe errata la sua qualificazione come luogo di privata dimora e la conseguente affermazione di responsabilità in ordine al reato di interferenze illecite nella vita privata, di cui al capo b) della rubrica.
2.2. Con un secondo motivo ha lamentato ulteriore violazione ed erronea applicazione dell’art. 615 bis c.p. e l’insufficienza della motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) et e), in relazione alla contestazione del reato di cui al capo c) della rubrica, e cioè alla indebita realizzazione di filmati e fotografie di una vicina di casa mentre si trovava nella doccia della sua abitazione, non avendo la Corte territoriale adeguatamente considerato la circostanza che la abitazione dell’imputato e quella della persona offesa erano adiacenti e che la persona offesa si mostrava nuda pur sapendo che la propria abitazione era priva di tende, con la conseguente insussistenza di lesioni alla riservatezza della persona fotografata.
2.3. Con il terzo motivo ha lamentato la violazione dell’art. 62 c.p., n. 6, e la insufficienza della motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) et e), in relazione al mancato riconoscimento della riparazione del danno, nonostante il pagamento della somma di Euro 50.000,00 a favore dei genitori della minore vittima del reato di cui al capo a) anteriormente al giudizio di primo grado, non essendo, tra l’altro, stati espletati accertamenti di sorta circa l’entità del danno subito dalla minore.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è fondato solamente in relazione al reato di cui al capo c).
2. Le censure in ordine alla affermazione di responsabilità dell’imputato in relazione al reato di cui al capo b), ascrittogli per essersi procurato indebitamente video ritraenti tre proprie dipendenti, all’interno dello spogliatoio adiacente all’esercizio commerciale presso il quale le stesse lavoravano, mentre erano intente a cambiarsi d’abito, non sono fondate.
La Corte territoriale ha disatteso le, analoghe, doglianze formulate dall’imputato sul punto con l’atto d’appello, escludendo che l’utilizzo solo occasionale del locale come spogliatoio impedisse di considerarlo come luogo di privata dimora, cioè di luogo destinato a consentire riservatamente l’esplicazione di un atto della vita della privata senza intrusioni esterne.
Tale considerazione, nei confronti della quale si appuntano le censure dell’imputato, è corretta, in quanto la qualificazione come luogo di privata dimora, inteso come luogo nel quale si esplicano atti della vita privata (tra i quali, certamente, rientra il cambio di indumenti collegato allo svolgimento di attività lavorativa, da svolgersi nell’esercizio commerciale attiguo a tale locale), del locale utilizzato dalle dipendenti dell’imputato per cambiarsi d’abito, risponde alla ratio e alla funzione della norma incriminatrice, di proteggere la riservatezza di atti relativi alla sfera personale e destinati a essere compiuti nella abitazione o, comunque, con modalità tali da evitare ingerenze o intrusioni di terzi nel loro.
La circostanza che la destinazione del locale utilizzato per il cambio di indumenti non fosse esclusiva, venendo utilizzato anche come magazzino o deposito, non esclude che esso, nel momento in cui veniva utilizzato dalle dipendenti dell’imputato (con il suo consenso, non essendo stato dedotto che ciò avvenisse contro la sua volontà o a sua insaputa) per tale atto, fosse destinato alla esplicazione di atti della vita privata in assenza di intrusioni, con la conseguente correttezza della affermazione della illiceità della condotta dell’imputato.
Ciò che rileva è, infatti, la pacifica e nota destinazione di un determinato luogo (nella specie il suddetto locale magazzino) alla regolare esplicazione di atti della vita privata (non essendo stato dedotto che il cambio di indumenti sia stato occasionale o estemporaneo, emergendo, piuttosto, dalla motivazione, la abitualità di tale condotta), giacché in tale occasione opera in relazione a esso la speciale protezione di cui all’art. 615 bis c.p., rimanendo irrilevante il fatto che detto luogo sia destinato anche ad altre funzioni, dovendo operarvi la speciale protezione apprestata da detta disposizione in concomitanza con il compimento di atti della vita privata (cfr. Sez. 3, n. 27847 del 30/04/2015, R., Rv. 264196; Sez. 5, n. 4669 del 07/11/2017, dep. 31/01/2018, Fontana, Rv. 272279).
Ne consegue, in definitiva, l’infondatezza delle censure sollevate con il primo motivo.
3. Fondate risultano, invece, le censure formulate con il secondo motivo, in relazione al reato di cui al capo c) della rubrica, e cioè la realizzazione indebita di video e fotografie di una donna all’interno della abitazione della madre, nuda e intenta a uscire dalla doccia.
La Corte territoriale ha disatteso le doglianze formulate dall’imputato, in ordine alla affermazione di responsabilità in relazione a tale reato, affermando che le riprese video di una persona che si trovi nel bagno di una abitazione privata è condotta punibile ai sensi dell’art. 615 bis c.p., non rilevando l’assenza di tende alla finestra.
Ora, essendo pacifico, in punto di fatto, che le abitazioni dell’imputato e della persona offesa erano frontistanti, che quella di quest’ultima non aveva tende alle finestre e che l’imputato non utilizzò alcun accorgimento per fotografare e filmare la persona offesa, deve escludersi la configurabilità del reato di interferenza illecita nella vita privata di cui al capo c), non essendo stati ripresi comportamenti della vita privata sottratti alla normale osservazione dall’esterno, posto che la tutela del domicilio è limitata a ciò che si compie nei luoghi di privata dimora in condizioni tali da renderlo tendenzialmente non visibile a terzi (cfr. Sez. 2, n. 25363 del 15/05/2015, Belleri, Rv. 265044; Sez. 5, n. 25453 del 18/04/2011, Roma, Rv. 250462).
L’art. 615 bis c.p. prevede, infatti, che sia punito "chiunque, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell’art. 614 c.p.": il tenore della disposizione lascia intendere, dunque, che, affinché la condotta descritta integri il reato, non è sufficiente che la stessa abbia ad oggetto immagini che riguardino atti che si svolgano in uno dei luoghi indicati dall’art. 614 c.p. (e, dunque, l’abitazione o altro luogo di privata dimora o le appartenenze di essi), ma è anche necessario che tale condotta sia posta in essere "indebitamente"; ciò significa, dunque, in necessaria connessione logica con quanto del resto più specificamente previsto dall’art. 614 c.p., su cui la disposizione è "ritagliata", che, seppure la condotta avvenga in uno di detti luoghi, la stessa non sarebbe illecita ove non avvenga in contrasto od eludendo, clandestinamente o con inganno, la volontà di chi abbia il diritto di escludere dal luogo l’autore delle riprese (Sez. 3, n. 27847 del 30/04/2015, R., Rv. 264196 cit.).
Se, dunque, l’azione, pur svolgendosi in luoghi di privata dimora, possa, come nel caso in esame, essere liberamente osservata dagli estranei, senza ricorrere a particolari accorgimenti, non si configura una lesione della riservatezza del titolare del domicilio (cfr. Corte cost., sentenza n. 149 del 16 aprile 2008).
Ne consegue l’insussistenza del fatto di cui al capo c), posto che l’osservazione della persona offesa avvenne liberamente e senza utilizzare alcun accorgimento.
4. Infondata risulta la censura, formulata con il terzo motivo di ricorso, relativa alla esclusione della configurabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, pur avendo l’imputato corrisposto ai genitori della vittima la somma di Euro 50.000,00 a titolo di risarcimento del danno, anteriormente all’inizio del giudizio di primo grado.
La configurabilità di tale circostanza attenuante è stata esclusa dalla Corte territoriale in considerazione della gravità delle condotte poste in essere dall’imputato, tenendo conto della giovane età della vittima e del rapporto di parentela esistente tra l’imputato e la minore, che non hanno consentito ai giudici di merito di ritenere integralmente satisfattiva del danno cagionato la somma corrisposta dall’imputato.
Attraverso il riferimento alla gravità delle condotte la Corte d’appello ha, come si ricava dalla sottolineatura della giovane età della vittima e del rapporto di parentela esistente tra essa e l’imputato (convivente di una zia della minore), evidenziato la gravità, sia sul piano della incidenza sullo sviluppo psicofisico della minore, sia a livello emotivo, delle conseguenze pregiudizievoli subite dalla vittima in conseguenza delle condotte realizzate dall’imputato, trattandosi di condotte poste in essere ripetutamente e profittando del rapporto fiduciario esistente con i genitori della minore, che la avevano affidata all’imputato: ne consegue che la configurabilità della circostanza attenuante invocata dall’imputato non è stata esclusa in considerazione della gravità del reato, bensì, e correttamente, della entità delle conseguenze pregiudizievoli dallo stesso determinate e della dipendente insufficienza della somma corrisposta dall’imputato a risarcirle integralmente.
Tale ultima considerazione dei giudici della impugnazione attiene, poi, a una valutazione di merito, non sindacabile nel giudizio di legittimità, essendo, tra l’altro, stati indicati, sia pur sinteticamente, gli aspetti della condotta in considerazione dei quali la somma corrisposta non è stata giudicata integralmente satisfattiva, cosicché detta affermazione non può neppure essere considerata assertiva o insufficientemente motivata, anche tenendo conto del fatto che le condotte dell’imputato sono state ampiamente descritte e analizzate nella parte della motivazione (quella relativa alla affermazione della sua responsabilità in relazione al reato di cui al capo a) della rubrica), cosicché il riferimento alla gravità delle condotte può, tenendo conto della esistenza di tale analisi, essere ritenuto sufficiente a escludere la satisfattività della somma corrisposta dall’imputato a titolo risarcitorio, accettata dai genitori della minore in acconto sulla maggior somma richiesta a titolo di risarcimento del danno.
5. In conclusione la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, limitatamente al reato di cui al capo c) della rubrica, e cioè il reato di cui all’art. 615 bis c.p. commesso in danno di Cr.Ch.Fr.Ma. , perché il fatto non sussiste, e il ricorso rigettato nel resto.
Alla rideterminazione della pena conseguente a tale annullamento può provvedere questa Corte, ai sensi dell’art. 620 c.p.p., comma 1, lett. l), non occorrendo accertamenti di fatto o valutazioni di merito, previa eliminazione dell’aumento di pena di due mesi e quindici giorni di reclusione disposto per tale reato, pervenendo così alla pena di anni tre, mesi nove e giorni quindici di reclusione, ridotta per il rito alla pena finale di anni due, mesi sei e giorni dieci di reclusione.
Al rigetto del ricorso per quanto riguarda i restanti capi consegue la condanna dell’imputato alla rifusione delle spese sostenute nel giudizio di legittimità dalle parti civili, costituitesi in relazione ai reati di cui ai capi a) et b), liquidate come da dispositivo, tenendo conto della complessità della vicenda e delle questioni di diritto trattate.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo C (art. 615 bis c.p.), perché il fatto non sussiste, e ridetermina la pena in anni due, mesi sei e giorni dici di reclusione.
Rigetta nel resto il ricorso.
Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese delle parti civili, che liquida, quanto a C.T. , in Euro 2.800,00, oltre rimborso spese generali nella misura del 15% e oltre accessori di legge, quanto a P.U. e C.T. , in proprio e nella qualità, in Euro 2.412,00, oltre rimborso spese generali nella misura del 15% e oltre accessori di legge, disponendone, quanto a questi ultimi, il pagamento in favore dello Stato.