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Criticare condotta professionale non è diffamazione (Cass. 52578/17)

22 novembre 2017, Cassazione penale e Nicola Canestrini

Contestazione disciplinare o diffamazione? Se si critica la condotta professionale non c'è reato, che invece c'è se si critica la persona.

 

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 13 ottobre – 17 novembre 2017, n. 52578
Presidente Bruno – Relatore Fidanzia

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza emessa in data 24 febbraio 2016 il Tribunale di Bari, quale giudice d’appello, in riforma della sentenza di primo grado, ha assolto P.M. dal delitto di diffamazione ai danni di C.L. , perché il fatto non costituisce reato.
All’imputata era stato contestato di aver offeso la reputazione del C. scrivendo, nella lettera del 29.11.2010, prot. 5314, inviata al Ministero per i Beni Culturali ed alla Biblioteca Nazionale di Bari, che la parte civile aveva ritardato, eluso, omesso e ostacolato ogni sua direttiva intesa al rilancio dell’Istituto affidatole ed al benessere organizzativo dei lavoratori che vi prestano servizio, che con una vera e propria campagna denigratoria nei suoi confronti, aveva arrecato grave nocumento alla sua dignità personale e professionale, all’immagine dell’Istituto e agli interessi dei lavoratori, non potendo, infine, transigere sulla lentezza ed inescusabile negligenza nell’adempiere ai doveri inerenti agli Uffici Tutela, Restauro e Catalogazione da parte della persona offesa, che veniva per questi motivi, giudicata inadeguata a ricoprire incarichi di responsabilità.
2. Con atto sottoscritto dal suo difensore la parte civile C.L. ha proposto ricorso per cassazione affidandolo ai seguenti motivi.
2.1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione di legge in relazione ad un’erronea applicazione dell’art. 574 comma 4 c.p.p..
Il ricorrente ha reiterato l’eccezione di inammissibilità dell’appello ai sensi dell’art. 37 dlgs n. 274/2000. Sul rilievo che tale norma è speciale rispetto al codice di rito nonché giustificata dalla ratio della legge istitutiva del Giudice di Pace, il ricorrente censura l’avvenuta applicazione da parte della sentenza impugnata dell’art. 574 c.p., avendo l’imputata appellante impugnato soltanto la parte della sentenza riguardante la penale responsabilità, senza impugnare anche in modo generico il capo relativo alla condanna al risarcimento del danno.
2.2. Con il secondo motivo è stata dedotta violazione di legge per l’erroneo riconoscimento della scriminante del diritto di critica.
Lamenta il ricorrente che il giudice d’appello, nel ritenere sussistente tale scriminante, non ha contestualizzato i fatti ed non ha tenuto conto della specificità del rapporto di lavoro di Pubblico Impiego regolato da una legge della Stato.
In particolare, la conflittualità tra la Dirigente di un ufficio e i dipendenti è regolata e contenuta nei limiti consentiti dal dlgs n. 150/2009, mentre la lettera oggetto del capo d’imputazione non è prevista da tale normativa. Il dirigente può inviare lette di encomio o avviare un procedimento disciplinare nei confronti di un dipendente, dando modo a costui di potersi difendere nei modi e nei termini previsti dalla legge.
Nel caso in esame, la missiva contestata era fine a se stessa, non essendo tesa a promuovere un’azione disciplinare ma solo a lasciare una macchia nel curriculum personale della persona offesa, oltre ad essere stata scritta solo per spirito di vendetta.
Il giudice d’appello aveva, inoltre, sottovalutato la valenza della lettera del 26 aprile 201 inviata dal Direttore Generale, con cui era stato espresso rammarico e ferma disapprovazione per la lettera scritta dall’imputata il cui contenuto veniva annullato in autotutela.
Il ricorrente censura la valutazione della sentenza impugnata secondo cui la lettera è stata contenuta nei limiti della continenza, essendo risultata invece gravemente offensiva del sig. C. .
Il ricorrente critica, infine, la valenza attribuita dal Tribunale di Bari alla relazione ispettiva del dott. L. .

Considerato in diritto

1. Il primo motivo non è fondato e va pertanto rigettato.
Per giurisprudenza costante di questa Corte, l’impugnazione proposta dall’imputato contro la sentenza del giudice di pace, che lo abbia condannato ad una pena pecuniaria ed al risarcimento del danno in favore della parte civile, qualora con essa non venga contestato esclusivamente la specie o l’entità della pena, deve essere qualificata come appello sebbene non risulti espressamente impugnato il capo relativo alla condanna al risarcimento del danno. Ciò in quanto nel procedimento davanti al giudice di pace trova applicazione l’art. 574, comma quarto, cod. proc. pen., nella parte in cui prevede che l’impugnazione dell’imputato contro la pronuncia di condanna penale estende i suoi effetti alle statuizioni civili dipendenti dalla condanna. (Sez. 2, n. 23555 del 12/05/2009, Rv. 244235; Sez. 5, n. 7455 del 16/10/2013, Rv. 259625; Sez. 5, n. 31678 del 22/05/2015, Rv. 264561).
2. Il secondo motivo è parimenti infondato.
Va osservato che questa Corte ha avuto già modo di affermare che il potere gerarchico o, comunque, di sovraordinazione, non consente di esorbitare dai limiti della correttezza e del rispetto della dignità umana con espressioni che contengano un’intrinseca valenza mortificatrice della persona e si dirigano, più che all’azione censurata, alla figura morale del dipendente, traducendosi in un attacco personale sul piano individuale, che travalichi ogni ammissibile facoltà di critica (Sez. 5, n. 6758 del 21/01/2009 - dep. 17/02/2009, Bertocchi, Rv. 243335).
Essenziale è quindi accertare se l’espressione pronunciata dal titolare di una posizione sovraordinata si sia limitata alla censura di una determinata condotta lavorativa o professionale del sottoposto, ovvero, pur prendendo spunto da essa, sia trasmodata in un attacco personale all’individuo, atteso che non esorbitano dall’area della liceità penale le contestazioni che non censurino la persona in sé e per sé considerata ma la condotta professionale del dipendente (Sez. 5, n. 31624 del 24/06/2008 - dep. 29/07/2008, Bregoli, Rv. 241179).
La sentenza impugnata ha fatto buon governo di tali principi, avendo coerentemente evidenziato che nella lettera "incriminata", oltre a non essere stato oltrepassato il limite della continenza, non compaiono valutazioni gratuite sulla persona o sulla condotta in generale della parte civile. È stata, infatti, valutata in maniera pesantemente negativa, con toni aspri, solo la sua condotta lavorativa, essendole stato rimproverato, oltre che uno scarso rendimento in uno specifico settore lavorativo, un atteggiamento improntato a marcata ostilità nei confronti della stessa dirigente.
Peraltro, su questo specifico ultimo punto, la sentenza impugnata ha messo in luce come tale rilievo trovi un riscontro oggettivo nella relazione ispettiva del dott. L. , da cui emerge che il C. aveva firmato un esposto contro l’imputata, integrandolo nell’agosto 2010, all’esito del quale, dopo nota di risposta della P. del 21.9.2010, la relazione ispettiva non aveva formulato contestazioni formali all’operato della prevenuta, avendo concluso che "..molta dell’ostilità verso la d.ssa P. era stata artatamente promossa da un gruppo di dipendenti per motivi.. probabilmente legati a posizioni di "potere" detenute all’interno dell’istituto e venute meno con la presa di servizio" dell’imputata (pag. 6 sentenza impugnata). All’imputata, era stato quindi mosso l’unico appunto di aver stentato ad assumere un rapporto con i dipendenti all’inizio del suo servizio.
Né è persuasivo l’assunto del ricorrente secondo cui la Dirigente non avrebbe potuto inviare una nota negativa sul dipendente ai superiori, non essendo questa formalità prevista dalla legge che regola il rapporto di pubblico impiego. A prescindere dal rilievo che in questa sede si deve valutare non la correttezza amministrativa dell’operato della prevenuta (se dovesse o meno esercitare il potere disciplinare), ma la rilevanza penale delle espressioni contenute nella missiva "incriminata", va osservato che, a seguito dell’entrata in vigore del dlgs n. 165/2001, il rapporto di pubblico impiego è stato attratto nell’orbita civilistica - l’art. 2 comma 2 della legge citata prevede al comma 2 che i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinate dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle legge sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, e l’art. 63 che le eventuali controversie sono devolute alla cognizione del giudice ordinario - con la conseguenza anche il potere disciplinare del datore di lavoro pubblico ha assunto una connotazione più marcatamente di natura privatistica.
Il rigetto del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrente al pagamento delle spese processuali.