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Confessa al medico, ritratta con il giudice: condannato (Cass. 25940/20)

11 settembre 2020, Cassazione penale

La confessione stragiudiziale può essere assunta a fonte del libero convincimento del giudice quando, valutata in sè e raffrontata con gli altri elementi di giudizio, sia possibile verificarne la genuinità e la spontaneità in relazione al fatto contestato.

La confessione stragiudiziale dell'imputato assume valore probatorio secondo le regole del mezzo di prova che la immette nel processo e, ove si tratti di prova dichiarativa, con l'applicazione dei relativi criteri di valutazione.

Deve affermarsi che la valutazione frazionata delle dichiarazioni, di qualsiasi specie esse siano, e dunque anche di quelle confessorie, oltre che di quelle accusatorie provenienti da chiamante in correità e di quelle testimoniali, è ammissibile quando le parti del narrato ritenute veritiere reggano alla verifica giudiziale del riscontro, ove necessaria, e, in ogni caso, non siano tra loro in rapporto di interferenza fattuale e logica, tenuto conto del fatto che detta interferenza, peraltro, si verifica solo quando fra la prima parte e le altre esista un rapporto di causalità necessaria ovvero quando l'una sia imprescindibile antecedente logico dell'altra, minando il giudizio di credibilità complessivo e la plausibilità dell'intero racconto.

L'elemento soggettivo del delitto di omicidio preterintenzionale non è costituito da dolo e responsabilità oggettiva nè dal dolo misto a colpa (ipotesi proposta anche da una parte della giurisprudenza in passato), ma unicamente dal dolo di percosse o lesioni, in quanto la disposizione di cui all'art. 43 c.p. pone una valutazione ex lege quanto alla prevedibilità dell'evento da cui dipende l'esistenza del delitto, ritenendo l'assoluta probabilità che da una azione violenta contro una persona possa derivare la morte della stessa

Corte di Cassazione

sez. V Penale, sentenza 30 giugno – 11 settembre 2020, n. 25940
Presidente Palla – Relatore Brancaccio

Ritenuto in fatto

1. Con la decisione in epigrafe, emessa dalla Corte d'Assise d'Appello di Salerno il 10.6.2019, è stata confermata la pronuncia del 28.6.2018 della Corte d'Assise di Salerno che ha condannato M.L. alla pena di dodici anni di reclusione in relazione al reato di omicidio preterintenzionale aggravato dai motivi abietti e futili, per aver cagionato la morte della moglie D.T.A., percuotendola con violenza il 20.5.2015, reagendo ad una lite sorta per alcune contestazioni legate a motivi di gelosia della donna nei suoi confronti e provocandole un politrauma cranico, con emorragia cerebrale postraumatica complicata da idrocefalo, lesioni che obbligavano la vittima per mesi in uno stato vegetativo cui seguiva la morte il 29.12.2015 in regime di degenza ospedaliera.

2. Avverso la pronuncia propone ricorso l'imputato mediante il difensore avv. PS, deducendo tre diversi motivi.

2.1. Il primo argomento difensivo censura la motivazione del provvedimento impugnato in relazione al vizio violazione di legge ed all'art. 192 c.p.p. e art. 584 c.p., nonchè mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione quanto alle ragioni in base alle quali si è esclusa la riconducibilità della condotta alla causalità accidentale o al più colposa.
Il ricorrente sostiene sin dal primo grado la tesi che la morte della moglie sia conseguenza del trauma cerebrale dovuto alla caduta dalle scale durante il litigio, provocata da uno spintone istintivo o imprudente dell'imputato, per allontanarla da lui, e giammai volontario.
La sentenza d'appello non ha escluso del tutto tale dinamica ricostruttiva ma non ha optato con chiarezza nè per la versione accusatoria nè per quella difensiva, errando nel ritenere che ciascuna delle due prospettazioni di fatto portasse in ogni caso alla configurabilità di una responsabilità delittuosa a titolo preterintenzionale.
2.2. Il secondo motivo di ricorso deduce erronea applicazione degli artt. 40 e 41 c.p. nonchè mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione quanto al mancato approfondimento motivazionale sul tema dell'interruzione del nesso causale, di evidente rilievo dal momento che il decesso della vittima è avvenuto, a distanza di oltre sette mesi dalla condotta del ricorrente individuata come causa e per le complicanze di una polmonite, forse dovuta alla prolungata intubazione o alla lunga degenza o forse non correttamente curata, visto che la dottoressa consulente del pubblico ministero non ha saputo precisare se erano stati o meno somministrati antibiotici alla donna.
Ebbene, in proposito la Corte d'Assise d'Appello si sarebbe limitata a ribadire la sentenza di primo grado, con una motivazione tautologica ed apodittica rispetto ai motivi d'appello, che si limita a stigmatizzare come irragionevoli, là dove essi ipotizzano l'interruzione del nesso di causalità tra la condotta dell'imputato e l'evento finale della morte della vittima e ad adottare ragioni di evidenza della sussistenza di tale indispensabile nesso, non chiarendole.
2.3. Il terzo motivo censura erronea applicazione dell'art. 61 c.p., comma 1, n. 1 e art. 133 c.p. nonchè vizio di motivazione manifestamente illogica e carente quanto alla sussistenza dei futili motivi dell'agire dell'imputato.
Anzitutto non si sarebbe sciolto il nodo delle ragioni alla base del litigio tra i due coniugi, poichè se l'imputato non è credibile quanto alla ricostruzione della dinamica della vicenda delittuosa - come si è sostenuto nel corso delle due sentenze di merito - allora anche il movente della reazione alla gelosia di sua moglie, che determinerebbe quasi sempre la configurabilità dell'aggravante secondo la giurisprudenza di legittimità per la banalità del contesto, non può essere ritenuto sussistente.
Inoltre, la Corte d'Assise d'Appello di Salerno sembra, in un passaggio motivazionale, escludere del tutto l'aggravante in esame, ritenendola comunque ininfluente, ai fini della concreta individuazione del trattamento sanzionatorio poichè rimarrebbe attiva, in ogni caso, l'operatività dell'aggravante prevista dall'art. 577 c.p., comma 1, per l'omicida che abbia ucciso il coniuge, oltre che per il fatto che è stato operato un giudizio di bilanciamento in equivalenza tout court tra le attenuanti generiche e le aggravanti; tale considerazione, a giudizio della difesa, è errata in quanto, invece, la parametrazione della dosimetria della pena è sempre collegata e vincolata al disvalore complessivo del fatto commesso, su cui incide inevitabilmente la ritenuta presenza di un'aggravante relativa all'intensità del dolo quale è quella dei futili motivi.

3. Il Sostituto Procuratore Generale Ferdinando Lignola con requisitoria del 13.6.2020 ha chiesto che venga dichiarata l'inammissibilità del ricorso per genericità dei motivi.
In particolare, quanto alla doglianza riguardante il nesso di causalità, si tratta di doglianza puramente esplorativa e generica, che non mette in rilievo alcuna manifesta illogicità della motivazione; generica è anche la doglianza riguardante l'aggravante della futilità dei motivi ed il trattamento sanzionatorio: la sentenza infatti giustifica l'aggravante considerando la sproporzionata reazione del M. ad una lite coniugale ed il trattamento sanzionatorio, comunque inferiore al medio edittale e solo di poco superiore al minimo, in considerazione dell'intensità del dolo, in linea con la giurisprudenza di legittimità in materia di futili motivi e di determinazione della pena.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è inammissibile perchè manifestamente infondato e in parte ripetitivo dei motivi d'appello senza confronto reale con le ragioni del provvedimento impugnato, pertanto sotto più profili generico.

2. Il primo argomento di censura è privo di pregio e aspecifico in quanto non si confronta con le ragioni fondanti della sentenza impugnata e, soprattutto, con quella che correttamente la Corte d'Assise d'Appello ha definito la prova "centrale", principale del processo: la confessione stragiudiziale dello stesso ricorrente al medico del Servizio 118 di Pronto Soccorso, intervenuto nella mattinata del 20.5.2015 presso l'abitazione dei coniugi M.- D.T..
Alla Dott.ssa Mo.An., infatti, che, insieme al personale sanitario che era con lei, ha trovato la vittima riversa in terra in stato di semincoscienza, sporca del suo vomito e delle sue deiezioni e con una contusione in regione temporo-occipitale, l'imputato ha riferito di aver spinto la moglie nel corso di un litigio per motivi di gelosia della donna, facendola sbattere con la testa contro il muro.
Tale dinamica del fatto, confessata dall'imputato alla Dott.ssa Ma., la quale l'ha riferita con precisione e coerenza narrativa, ha trovato conferma negli accertamenti autoptici, dai quali è risultato che la vittima, giunta in ospedale subito in gravi condizioni, con un'emorragia cerebrale postraumatica complicata da idrocefalo, evidenziava, all'esame post-mortem, un imponente politraumatismo cerebrale e facciale che aveva addirittura provocato un'anomala dislocazione del cervello entro la scatola cranica.
Una simile condizione è stata, quindi, giudicata compatibile dal consulente autoptico con un'azione ripetuta e violenta esercitata contro il capo della vittima, tipica di chi sbatta ripetutamente la testa contro una superficie liscia quale può essere un muro.
Viceversa, la Corte d'Assise d'Appello - così come aveva fatto il primo giudice - ha escluso, con motivazione logica e approfondita, che simili lesioni craniche interne, in assenza di fratture o traumi consistenti sul resto del corpo, possano essere derivate da una caduta in parte accidentale lungo una scala, così come vorrebbe l'imputato nella sua prospettazione difensiva.
Si è evidenziato, in tal senso, che i sanitari del primo soccorso avevano fatto cenno genericamente a talune escoriazioni di minima importanza presenti sul corpo della donna soccorsa, ritenendole, da un lato, distoniche rispetto ad una caduta rovinosa per le scale, che ben altre conseguenze più gravi e visibili avrebbe dovuto produrre; dall'altro, compatibili con un'aggressione quale quella dell'imputato nei confronti della moglie, con una violenza esercitata per provocarle lesioni alla testa che, inevitabilmente, possono aver portato ad un contatto ulteriore, da cui sono derivate le trascurabili ferite escoriative.
Opportunamente il provvedimento impugnato ha anche esplorato il particolare medico-legale relativo al fatto che l'unica frattura presente fosse quella all'arcata zigomatica sinistra e non vi fosse, invece, frattura della teca cranica: è stato chiarito, infatti, dai giudici d'appello come il medico legale abbia sottolineato la non necessità che alle riscontrate gravissime lesioni interne al cervello si accompagnasse una frattura della teca cranica, potendo anzi tali lesioni essere la conseguenza di uno scuotimento derivato da un impatto violento e magari ripetuto contro una superficie liscia quale un muro, senza che vi sia una frattura esterna.
La versione difensiva dell'imputato (secondo cui la moglie si sarebbe gettata contro di lui costringendolo involontariamente a spingerla in avanti sul precipizio delle scale dalle quali sarebbe poi rovinata) è stata, in modo logico e plausibile, ritenuta nient'affatto credibile dai giudici di merito, sia perchè apoditticamente affermata senza alcun fondamento concreto nelle risultanze autoptiche o medico-legali, per quanto si è coerentemente spiegato nel provvedimento impugnato poco sopra riassunto, sia perchè essa - emersa soltanto dopo una prima fase in cui il ricorrente si è avvalso della facoltà di non rispondere - non coincide non soltanto con quanto confessato alla Dott.ssa Ma., ma neppure con quanto da lui riferito alla suocera (alla quale ha detto che la vittima aveva avuto un malore) ed ai figli (ai quali ha detto di aver ritrovato la loro madre riversa in terra dopo aver fatto una doccia subito dopo un litigio con lei).
E' evidente che tali elementi rafforzano il convincimento della non credibilità della ricostruzione difensiva, essendo invece compatibili con la deduzione che il ricorrente abbia tentato di discolparsi inizialmente in ogni modo con i familiari, fornendo loro versioni diverse e di comodo nel tentativo di sottrarsi alle proprie responsabilità, e, successivamente, abbia elaborato una ricostruzione non veritiera di quanto commesso, al fine di ritagliarsi uno spazio di configurabilità per una attribuzione di responsabilità solo colposa, piuttosto che preterintenzionale.

2.1. Dal punto di vista processuale, è opportuno richiamare e ribadire gli orientamenti pacifici di questa Corte di legittimità secondo i quali la confessione stragiudiziale può essere assunta a fonte del libero convincimento del giudice quando, valutata in sè e raffrontata con gli altri elementi di giudizio, sia possibile verificarne la genuinità e la spontaneità in relazione al fatto contestato (Sez. 1, n. 6467 del 11/5/2017, Secolo, Rv. 272100; Sez. 6, n. 23777 del 13/12/2011, dep. 2012, Zedda, Rv. 253002; Sez. 5, n. 38252 del 15/7/2008, Auriemma, Rv. 241572).

Nel caso di specie, l'analisi del giudice d'appello sui caratteri di genuinità e spontaneità richiesti ha condotto ad esiti positivi in maniera chiara e logica: si è evidenziata l'assenza di qualsiasi motivo plausibile per l'imputato di mentire a suo svantaggio in relazione ad una vicenda così grave, attribuendosi una responsabilità in termini superiori a quelli che aveva, e, d'altra parte, la descrizione del contesto in cui l'imputato ha reso a confessione stragiudiziale (la moglie si trovava riversa gravissima in terra ed il medico intervenuto cui l'imputato ha reso la dichiarazione cercava di raccogliere informazioni utili per il soccorso immediato) è un elemento che depone senza dubbio nel senso della genuinità e della spontaneità della confessione stessa.

Gli altri elementi di giudizio analizzati dalla Corte d'Assise d'Appello, in primo luogo quelli medico-legali ai quali già ci si è riferiti, hanno confortato la dinamica dell'accaduto confessata dall'imputato al medico del Servizio 118.

Peraltro, i giudici d'appello hanno anche esplorato il versante valutativo, egualmente necessario, dell'attendibilità delle dichiarazioni della Dott.ssa Ma., colei che ha riferito il contenuto confessorio di quanto appreso dall'imputato al momento del suo intervento di primo soccorso d'urgenza.

E difatti, la confessione stragiudiziale dell'imputato assume valore probatorio secondo le regole del mezzo di prova che la immette nel processo e, ove si tratti di prova dichiarativa, con l'applicazione dei relativi criteri di valutazione (Sez. 2, n. 38149 del 18/6/2015, Russo, Rv. 264972; Sez. 1, n. 17240 del 2/2/2011, Consolo, Rv. 249960). Anche in tal caso la verifica ha dato esiti positivi: i giudici di merito hanno correttamente messo in risalto sia la qualità professionale ed il contesto medico in cui la testimone ha riferito di aver appreso le dichiarazioni dell'imputato, sia la sua completa estraneità e terzietà rispetto alla coppia ed alle sue dinamiche di interazione.

2.2. Sul fronte della configurazione giuridica dell'omicidio come preterintenzionale piuttosto che colposo, il provvedimento impugnato ha chiarito - non senza un accenno polemico al fatto che dalle modalità della condotta sarebbe stato plausibile anche ipotizzare la contestazione di omicidio volontario con dolo eventuale - che la ricostruzione della condotta delittuosa, basata sui dati medico-legali e avvalorata dalla stessa ammissione dell'imputato di aver egli colpito la moglie sbattendole la testa contro un muro di casa, non lascia dubbi sulla qualificazione della fattispecie.

E' noto che la fattispecie di omicidio preterintenzionale configura come elementi essenziali della sua tipicità oggettiva, secondo l'espresso dettato normativo, gli "atti diretti" a percuotere e/o ferire; vale a dire, atti diretti ad esercitare una coazione fisica sulla persona, riconducibili alla previsione dell'art. 581 c.p., ovvero a quella dell'art. 582, che abbiano, come fine ultimo, l'inflizione di una sofferenza alla vittima, sia essa nelle percosse - una sensazione di dolore o di fastidio, ovvero - nelle lesioni - una menomazione, anche temporanea, dell'integrità fisica.

In ogni caso, è richiesta una violenta manomissione della fisicità del soggetto passivo, attuata contro la volontà di quest'ultimo, sicchè l'elemento psicologico del reato di percosse o lesioni è dato dalla coscienza e volontà di tenere una condotta violenta, tale da cagionare alla vittima una sensazione di dolore (nelle percosse) o una malattia (nelle lesioni).

L'elemento psicologico consiste nell'aver voluto (anche solo a livello di tentativo) l'evento minore (percosse o lesioni) e non anche l'evento più grave (morte), che costituisce solo la conseguenza diretta della condotta dell'agente.

Più precisamente, l'elemento soggettivo del delitto di omicidio preterintenzionale non è costituito da dolo e responsabilità oggettiva nè dal dolo misto a colpa (ipotesi proposta anche da una parte della giurisprudenza in passato), ma unicamente dal dolo di percosse o lesioni, in quanto la disposizione di cui all'art. 43 c.p. pone una valutazione ex lege quanto alla prevedibilità dell'evento da cui dipende l'esistenza del delitto, ritenendo l'assoluta probabilità che da una azione violenta contro una persona possa derivare la morte della stessa (Sez. 5, n. 44986 del 21/9/2016, Mulè, Rv. 268299; Sez. 5, n. 791 del 18/10/2012, dep. 2013, Palazzolo, Rv. 254386; Sez. 5, n. 40389 del 17/5/2012, Perini, Rv. 253357; Sez. 5, n. 35582 del 27/6/2012, Tarantino, Rv. 253536; Sez. 5, n. 13673 del 8/3/2006, Haile, Rv. 234552).

Ebbene, non c'è dubbio che la Corte di merito abbia evidenziato come dalla piattaforma probatoria emerga indubitabilmente che la versione dell'imputato, il quale tenta di accreditare una causalità colposa piuttosto che preterintenzionale, sia del tutto sguarnita di elementi a conforto, ma anzi smentita da evidenze medico legali e dalla sua stessa confessione stragiudiziale con cui ha ammesso di aver voluto colpire intenzionalmente la moglie, con ciò evocando chiaramente il dolo diretto del reato di lesioni.

Tanto è sufficiente alla sussistenza del fatto tipico preterintenzionale previsto dall'art. 584 c.p..

Non ha pregio, inoltre, la doglianza relativa al fatto che i giudici d'appello non avrebbero scelto tra le due opzioni in campo - la preterintenzionalità o la colpa - poichè invece essi hanno individuato con chiarezza la prima tra le due forme di attribuzione soggettiva della responsabilità dell'omicidio al ricorrente e hanno chiarito, a mò di paradosso, come anche la dinamica dei fatti da lui descritta in sua difesa non escluderebbe comunque il delitto preterintenzionale (la spinta che l'imputato sostiene di aver dato alla moglie non avrebbe potuto essere che volontaria sebbene con dolo eventuale, essendo del tutto incredibile la tesi della sua accidentalità).

Nè rileva la qualità del dolo se, come è stato condivisibilmente affermato, il delitto di omicidio preterintenzionale ricorre anche quando gli atti diretti a commettere uno dei delitti previsti dagli artt. 581 e 582 c.p., dai quali sia derivata, come conseguenza non voluta, la morte, siano stati posti in essere con dolo eventuale (Sez. 1, n. 40202 del 13/10/2010, Gesuito, Rv. 248438; Sez. 5, n. 4237 del 11/12/2008, dep. 2009, De Nunzio, Rv. 242965).

Il principio appena enunciato, del resto, è in linea con l'identificazione del dolo del delitto preterintenzionale in quello dei delitti di lesioni o percosse effettivamente al centro del fuoco del coefficiente soggettivo nel delitto di cui all'art. 584 c.p..
Nel caso di specie, tutti gli elementi di fatto analizzati e ricostruiti nella piattaforma probatoria dei giudici di merito conducono a ritenere la sussistenza del dolo diretto di percuotere e provocare lesioni, ma anche qualora si volesse ipotizzare un grado del dolo meno intenso quale è quello della sua forma eventuale - il minimo possibile per la violenza della condotta così come invece accertata - il risultato finale non cambierebbe, poichè in ogni caso sarebbe configurabile il delitto preterintenzionale.

3. Il secondo motivo di ricorso è generico.

Il ricorrente si limita a ipotizzare l'interruzione del nesso di causalità, imputandola alla polmonite conseguente alla stasi ospedaliera ovvero a non meglio precisati errori nella cura della paziente da parte del personale ospedaliero, senza aggiungere alcun elemento concreto e ripetendo, sostanzialmente, in modo pedissequo, i motivi d'appello e anche le ragioni già esposte in primo grado, ampiamente analizzate e risolte dai giudici di merito. L'argomento difensivo si rivela inammissibile anche perchè sostanzialmente ricostruito in fatto e volto a sostenere una diversa ricostruzione delle emergenze probatorie in chiave vantaggiosa per il ricorrente.

4. Il terzo motivo è inammissibile perchè generico e manifestamente infondato.
La ragione di doglianza collegata alla incertezza sulla causa del litigio, che poi si rivela la gelosia della moglie che sfocia nel movente futile e costituisce l'in se dell'aggravante contestata, non ha pregio.

Anzitutto, non vi è ragione di ritenere che le dichiarazioni del ricorrente non siano utilizzabili e credibili per la parte che riguarda la genesi e le circostanze della condotta di reato, secondo la logica della valutazione frazionata, costantemente ammessa dalla giurisprudenza di legittimità a condizione dell'autonomia delle parti di narrato in valutazione e dell'assenza di interferenza fattuale e logica tra loro (in tema di dichiarazioni di correo, ex multis, cfr. Sez. 6, n. 25266 del 3/4/2017, Polimeni, Rv. 270153; Sez. 1, n. 40000 del 10/7/2013, Pompita, Rv. 256917).

Ed infatti, deve affermarsi che la valutazione frazionata delle dichiarazioni, di qualsiasi specie esse siano, e dunque anche di quelle confessorie, oltre che di quelle accusatorie provenienti da chiamante in correità e di quelle testimoniali, è ammissibile quando le parti del narrato ritenute veritiere reggano alla verifica giudiziale del riscontro, ove necessaria, e, in ogni caso, non siano tra loro in rapporto di interferenza fattuale e logica, tenuto conto del fatto che detta interferenza, peraltro, si verifica solo quando fra la prima parte e le altre esista un rapporto di causalità necessaria ovvero quando l'una sia imprescindibile antecedente logico dell'altra, minando il giudizio di credibilità complessivo e la plausibilità dell'intero racconto (cfr., sempre in tema di dichiarazioni accusatorie, Sez. 1, n. 468 del 18/12/2000, dep. 2001, Orofino, Rv. 217820; in tema di dichiarazioni testimoniali, cfr. Sez. 6, n. 20037 del 19/3/2014, L., Rv. 260160, nonchè Sez. 4, n. 21886 del 19/4/2018, Cataldo, Rv. 272752; Sez. 5, n. 46471 del 19/10/2015, Rosano, Rv. 265874).
Nel caso del ricorrente, la banalità delle ragioni scatenanti il litigio da lui narrata nel corso del processo è confermata anche dalla confessione stragiudiziale alla dottoressa del Servizio 118, intervenuta sul luogo dei fatti in soccorso, e da costei riferita in dibattimento.

E non vi è alcuna contraddizione nel ritenere tale parte del racconto del ricorrente credibile mentre giudicare diversamente quella ritenuta falsa, priva come è la prima parte dichiarativa di interferenze logiche con la dinamica di quanto avvenuto successivamente: non una spinta accidentale ma una violenta reazione d'ira alle rivendicazioni della coniuge comprovata dalle sue gravissime lesioni accertate medicalmente e riferibili univocamente ad una serie di azioni ripetute e volontarie contro di lei.

Quanto alla denuncia circa la presunta, mancata considerazione effettiva dell'aggravante nel computo della pena, ancora una volta, infine, il ricorrente non si confronta con le reali ragioni motivazionali del provvedimento impugnato: la Corte d'Assise d'Appello ha ragionato per paradossi logici, arrivando a sostenere che finanche l'elisione dell'aggravante dei futili motivi non muterebbe la dosimetria sanzionatoria, ma non soltanto per il giudizio di bilanciamento in equivalenza, come ritiene il ricorrente, bensì anche perchè tiene in conto, specificandola ampiamente, la gravità di quello che egli ha commesso.

Sulla configurabilità dell'aggravante, poi, non può esservi dubbio, una volta ricondotto il litigio alla banale genesi di una discussione per motivi di gelosia innescata dalla moglie del ricorrente: questa Corte ha più volte affermato che la circostanza aggravante dei futili motivi sussiste ove la determinazione criminosa sia stata indotta da uno stimolo esterno di tale levità, banalità e sproporzione, rispetto alla gravità del reato, da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l'azione criminosa, tanto da potersi considerare, più che una causa determinante dell'evento, un mero pretesto per lo sfogo di un impulso violento (Sez. 5, n. 38377 del 1/2/2017, Plazio, Rv. 271115; Sez. 5, n. 41052 del 19/6/2014, Barnaba, Rv. 260360; Sez. 1, n. 59 del 1/10/2014, Femia, Rv. 258598).

Ed in tale tracciato di configurabilità rientra senza dubbio la condotta di chi reagisca ad un litigio provocato da ragioni di gelosia del proprio partner neì suoi confronti con estrema, sproporzionata violenza ed una ripetuta volontà di colpire e ledere l'altro inerme, solo per controbattere alle sue rivendicazioni sentimentali.

5. Alla declaratoria d'inammissibilità segue, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente che lo ha proposto al pagamento delle spese processuali nonchè, ravvisandosi profili di colpa relativi alla causa di inammissibilità (cfr. sul punto Corte Cost. n. 186 del 2000), al versamento, a favore della Cassa delle Ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 3.000.
5.1. In caso di diffusione del provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
In caso di diffusione del provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.