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"Bandito!": condannato per diffamazione (Cass. 21333/2018)

11 maggio 2018, Cassazione penale

Nel delitto di diffamazione, il dolo generico può essere anche eventuale, in quanto è sufficiente che l’agente, consapevolmente, faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere, senza un diretto riferimento alle intenzioni dell’agente.

Il comportamento provocatorio, di cui alla causa di non punibilità prevista dall’'art. 599, comma 2, cod. pen., anche quando non integra gli estremi di un illecito codificato, deve essere contrario alla civile convivenza secondo una valutazione oggettiva e non in ragione della percezione negativa che del medesimo abbia avuto l’agente, e sussiste non solo quando il fatto ingiusto altrui integra gli estremi dell’illecito civile o penale, ma anche quando esso sia lesivo di regole comunemente accettate nella civile convivenza; non costituisce 'fatto ingiusto' l’esercizio di un diritto.

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V PENALE - SENTENZA 11 maggio 2018, n.21133 - Pres. Pezzullo – est. Riccardi

Ritenuto in fatto

Con sentenza emessa il 02/12/2016 il Tribunale di Cosenza ha confermato la sentenza del Giudice di Pace di San Marco Argentano, che aveva affermato la responsabilità penale di I.F. per il reato di cui all’art. 595 cod. pen., per avere, nel corso di un’assemblea sindacale presso la residenza sanitaria '(OMISSIS) ', comunicando con il direttore sanitario e con i dipendenti, offeso la reputazione di P.C. e Po.Ma.Ma. , profferendo l’espressione 'Su Catanzaro ci sono gli imprenditori che sono dei banditi e Po. e P. fanno parte di questa categoria'.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione il difensore di I.F. , Avv. fd, deducendo i seguenti motivi.

2.1. Vizio di motivazione in relazione al dolo della diffamazione: lamenta che il dolo sia stato desunto solo dal termine 'banditi' adoperato, ma che non ricorre un intento diffamatorio, anche per la genericità dello stesso.

2.2. Vizio di motivazione in relazione all’omesso riconoscimento dell’esimente della provocazione: lamenta che la sentenza ha escluso l’esimente, ritenendo non essere emersi elementi a fondamento, senza considerare che la provocazione sarebbe individuabile nell’annuncio, da parte dei datori di lavori, del licenziamento di alcuni lavoratori; la sentenza non avrebbe considerato che il termine è stato appunto adoperato nel corso dell’assemblea sindacale indetta proprio per discutere le azioni da porre in essere, ed in un contesto territoriale e sociale afflitto da una gravissima crisi economica.

2.3. Vizio di motivazione: la sentenza avrebbe travisato le argomentazioni proposte con riferimento all’esimente della provocazione, sostenendo che riconoscerla equivarrebbe ad affermare che ogni volta che i lavoratori invocano ed esercitano i diritti sindacali ci sarebbe a monte una provocazione del datore di lavoro; la provocazione, tuttavia, non consisterebbe nella convocazione dell’assemblea sindacale, ma 'nel fatto che la posizione datoriale aveva intenzione di licenziare alcune figure di lavoratori'.

Considerato in diritto

Il ricorso è inammissibile.

1.1. Il primo motivo è manifestamente infondato.

In tema di diffamazione, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di diffamazione, non si richiede che sussista l’'animus iniurandi vel diffamandi', essendo sufficiente il dolo generico, che può anche assumere la forma del dolo eventuale, in quanto è sufficiente che l’agente, consapevolmente, faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere, senza un diretto riferimento alle intenzioni dell’agente (Sez. 5, n. 4364 del 12/12/2012, dep. 2013, Arcadi, Rv. 254390; Sez. 5, n. 8419 del 16/10/2013, dep. 2014, Verratti, Rv. 258943).

Tanto premesso, la sentenza impugnata ha correttamente applicato il principio di diritto richiamato, evidenziando la necessità della sola consapevolezza di adoperare espressioni offensive e l’irrilevanza delle intenzioni dell’agente, e, al fine di escludere qualsiasi profilo di inconsapevolezza, sottolineando il significato univocamente offensivo del termine adoperato ('banditi').

1.2. Il secondo ed il terzo motivo, concernenti il mancato riconoscimento dell’esimente della provocazione, sono manifestamente infondati.

La sentenza impugnata, infatti, ha escluso la sussistenza dell’esimente della provocazione, sostenendo che l’intento del datore di lavoro di procedere al licenziamento di alcuni dipendenti della clinica, che aveva determinato l’indizione dell’assemblea sindacale nel corso della quale l’imputato aveva adoperato le espressioni diffamatorie accertate, non potesse integrare un 'fatto ingiusto', ed aggiungendo, altresì, che non risultava neppure che gli imprenditori P. e Po. fossero i datori di lavoro destinatari delle rivendicazioni sindacali all’ordine del giorno dell’assemblea.

Al riguardo, la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente ribadito che il comportamento provocatorio, di cui alla causa di non punibilità prevista dall’'art. 599, comma 2, cod. pen., anche quando non integra gli estremi di un illecito codificato, deve essere contrario alla civile convivenza secondo una valutazione oggettiva e non in ragione della percezione negativa che del medesimo abbia avuto l’agente (Sez. 5, n. 25421 del 18/03/2014, Marrelli, Rv. 259882), e sussiste non solo quando il fatto ingiusto altrui integra gli estremi dell’illecito civile o penale, ma anche quando esso sia lesivo di regole comunemente accettate nella civile convivenza (Sez. 5, n. 9907 del 16/12/2011, dep. 2012, Conti, Rv. 252948); non costituisce 'fatto ingiusto' l’esercizio di un diritto (Sez. 5, n. 42933 del 29/09/2011, Gallina, Rv. 251535).

Tanto premesso, l’intenzione del datore di lavoro di procedere al licenziamento di uno o più lavoratori, lungi dall’integrare un illecito civile o penale, o un fatto contrario alla civile convivenza, rappresenta l’esercizio (peraltro allo stadio della mera ideazione) di un diritto, che, dunque, non può essere in alcun modo suscettibile di integrare un 'fatto ingiusto altrui' idoneo a determinare lo stato d’ira che fonda l’esimente della provocazione.

Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali e la corresponsione di una somma di denaro in favore della cassa delle ammende, somma che si ritiene equo determinare in Euro 2.000,00.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.