Sono legittime e dunque utilizzabili le videoregistrazioni aventi ad oggetto comportamenti comunicativi e non comunicativi disposte dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini preliminari in luoghi non riconducibili al concetto di domicilio: tali attività di captazione delle immagini - se del caso eseguite in luoghi pubblici, aperti o esposti al pubblico per esigenze lavorative e non - sono infatti qualificabili come prova atipica disciplinata dall’art. 189 c.p.p. e quindi utilizzabili senza alcuna necessità di autorizzazione preventiva del giudice.
Al fine di valutare se un luogo debba qualificarsi come luogo pubblico o aperto al pubblico va verificato se consente l’accesso ad una indistinta categoria di persone e non soltanto ai condomini: la presenza di uno studio professionale in una unità immobiliare consente l'accesso di altri soggetti che, al pari degli inquilini e dei proprietari, hanno il diritto di introdursi nell’androne delle scale comuni, sia perché a ciò titolati, sia perché autorizzati dai soggetti in possesso di tale titolo.
Corte di Cassazione
sez. VI Penale, sentenza 13 novembre 2019 – 7 febbraio 2020, n. 5253
Presidente Fidelbo – Relatore Costantini
Ritenuto in fatto
1. M.S.O. , a mezzo del difensore di fiducia avvocato BAR, ricorre avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale di Napoli in data 12 luglio 2019 che ha confermato la decisione del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Napoli di aggravare la misura cautelare degli arresti domiciliari con quella della custodia cautelare in carcere in relazione ai fatti di reato contestati ex art. 416 c.p. finalizzata alla corruzione elettorale D.P.R. n. 570 del 1960, ex art. 86. Il Tribunale, rigettando il ricorso ex art. 310 c.p.p., ha confermato l’aggravamento della misura degli arresti domiciliari con la custodia cautelare in carcere all’esito dell’accertata violazione delle prescrizioni imposte al M. che, nel dirigere le operazioni che avevano portato alla individuazione di una telecamera collocata dalla polizia giudiziaria all’interno delle scale condominiali, aveva colloquiato, al di fuori dell’appartamento, con il padre, soggetto con lui non convivente.
2. La difesa deduce i seguenti motivi di ricorso.
2.1. Violazione dell’art. 14 Cost. e art. 8 CEDU e per "contrasto della decisione con le emergenze desumibili dall’informativa redatta dai Carabinieri di Torre del Greco".
In particolare, poiché la telecamera dalla quale sono state tratte le immagini da cui è scaturito l’aggravamento della misura era stata collocata in una scala all’interno dell’immobile di proprietà del padre dell’indagato, luogo cui si accede da un portone chiuso a chiave cui è inibito l’accesso a terzi, deve ritenersi che le immagini acquisite attraverso la sola autorizzazione del P.M. senza idonea autorizzazione del G.i.p., siano inutilizzabili ex art. 14 Cost., art. 8 CEDU.
Ritraendo, infatti, le telecamere un ambiente di stretta pertinenza dell’abitazione ove risiede il ricorrente, lo stesso deve qualificarsi come luogo di privata dimora. Inconferente risulterebbe il riferimento giurisprudenziale del Tribunale che fa invece rinvio a precedente giurisprudenziale afferente alla installazione di telecamere al di fuori dell’edificio e volte a registrare le immagini di scene che erano comunque visibili dall’esterno, situazione niente affatto sovrapponibile a quella in esame in cui le telecamere sono state installate per visionare la rampa delle scale che collega lo studio del ricorrente con l’abitazione. Lo stabile, di proprietà del padre del ricorrente, che vedrebbe all’interno abitare quali inquilini un altro nucleo familiare, non potrebbe essere qualificato quale condominio in assenza dei presupposti civilistici che ne definiscono la nozione.
2.2. Vizi di motivazione e violazione di legge ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), in ordine agli artt. 121, 178 e 299 c.p.p..
Nonostante in sede di appello fosse stato rilevato che il P.M. avesse effettuato la richiesta di aggravamento ex art. 276 c.p.p., comma 1, e che invece il G.i.p. avesse applicato la custodia cautelare in carcere ex art. 299 c.p.p. così violando la domanda cautelare, il Tribunale aveva errato nel ritenere indifferente tale evenienza. Mentre l’aggravamento della misura ex art. 276 c.p.p., comma 1, in quanto meramente sanzionatoria della violazione delle prescrizioni afferenti la misura cautelare in atto potrebbe, in ipotesi, essere concessa in assenza di una richiesta del P.M., l’aggravamento di cui all’art. 299 c.p.p., comma 4, necessita della formulazione di esplicita richiesta, senza la quale è inibito al giudice di operare l’aggravamento.
L’apparato argomentativo del G.i.p., invero, era esclusivamente riconducibile allo schema dell’art. 299 c.p.p., tanto da non essere stata evidenziata nessuna circostanza pur ipotizzata dall’art. 276 c.p.p., con conseguente necessità da parte del Tribunale ex art. 310 c.p.p. di dichiarare la nullità della misura disposta.
2.3. Vizi di motivazione in ordine alla ritenuta gravità della violazione.
Il ricorrente osserva come il Tribunale, nel valorizzare la condotta ai fini dell’inasprimento della misura custodiale domiciliare, avesse apprezzato la comunicazione del M. con persone diverse da quelle conviventi (il padre) nonché la sua permanenza al di fuori dell’abitazione. Tale circostanza, invero, è dato estraneo alle risultanze istruttorie, potendosi dalle stesse desumere esclusivamente che la moglie ed il padre avessero parlato con qualcuno che era sopra le scale, evenienza che non dimostrerebbe che il ricorrente fosse evaso, ben potendo costui essere rimasto sull’uscio, tenuto altresì conto che anche le scale, per quanto sopra detto, costituirebbero parte dell’abitazione, evenienza che avrebbe dovuto escludere l’integrazione dell’ipotesi di cui all’art. 276 c.p.p., comma 1-ter.
Venendo meno l’evasione, fondata su elementi meramente ipotetici, la violazione della prescrizione connessa all’avvenuto colloquio con il padre che non coabita con il ricorrente, non poteva ritenersi di particolare gravità tale da legittimare l’aggravamento della misura. La ritenuta gravità della condotta in considerazione dell’ipotizzata conoscenza da parte della moglie, asseritamente avvisata da terzi della collocazione delle telecamere, era evenienza smentita da puntuali osservazioni dedotte in quella sede e con cui il Tribunale non si sarebbe confrontato.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è fondato nei limiti di seguito specificati.
2. Deve rilevarsi l’infondatezza del primo motivo in ordine alla dedotta illegittimità delle riprese video effettuate sulle scale dell’immobile alla luce della asserita natura di privata dimora che avrebbero le parti comuni dell’edificio in cui è posto l’appartamento del ricorrente.
2.1. Si ribadisce il principio di diritto espresso da questa Corte nel suo massimo consesso secondo cui è inibita ex art. 14 Cost. l’esecuzione di riprese video di comportamenti "non comunicativi" all’interno del "domicilio", con conseguente divieto di loro acquisizione ed utilizzazione anche in sede cautelare della prova illecita in tal modo raccolta (v. Corte Cost. n. 135 del 2001) (Sez. U, n. 26795 del 28/03/2006, Prisco, Rv. 234270). Differente risulta, invece, la disciplina relativa alle videoregistrazioni aventi ad oggetto comportamenti comunicativi e non comunicativi disposte dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini preliminari in luoghi non riconducibili al concetto di domicilio: tali attività di captazione delle immagini - se del caso eseguite in luoghi pubblici, aperti o esposti al pubblico per esigenze lavorative e non - sono qualificabili come prova atipica disciplinata dall’art. 189 c.p.p. e quindi utilizzabili senza alcuna necessità di autorizzazione preventiva del giudice (Sez. 2, n. 22972 del 16/02/2018, Barnaba, Rv. 273000; Sez. 5, n. 37698 del 17/07/2008, Stranieri, Rv. 241946).
Questa Corte Suprema ha rilevato, altresì, la legittimità delle videoriprese, eseguite dalla polizia giudiziaria, in assenza di autorizzazione del giudice, mediante telecamera esterna all’edificio ed aventi per oggetto l’inquadramento del davanzale della finestra e del cortile dell’abitazione, trattandosi di luoghi esposti al pubblico e, pertanto, oggettivamente visibili da più persone. Ne deriva che, in virtù di detta percepibilità esterna, non sussiste alcuna intrusione nella privata dimora o nel domicilio e non sussistono, pertanto, le ragioni di tutela, sub specie di diritto alla riservatezza o alla "privacy", ad essi connesse, potendosi, in tal caso, sostanzialmente equipararsi l’uso della videocamera ad una operazione di appostamento, eseguita nei limiti dell’autonomia investigativa, senza alcuna necessità di autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria (Sez. 4, n. 10697 del 24/01/2012, Aidi Parietti, Rv. 252673).
2.2. Tanto premesso il Collegio rileva la correttezza della decisione del Tribunale che ha valutato che la collocazione delle telecamere all’interno delle scale dell’edificio ed al di fuori dell’appartamento al fine di monitorare il ricorrente mentre era agli arresti domiciliari, attività autorizzata con provvedimento del P.M. resasi necessaria in considerazione del sospetto che costui ricevesse terze persone al di fuori dell’abitazione ed all’interno di uno studio posto - al di fuori della abitazione - nello stesso immobile, non richiedesse autorizzazione del Giudice, essendo le stesse eseguite al di fuori del domicilio e, comunque, della privata dimora del ricorrente.
Il Tribunale ha evidenziato che nel caso sottoposto a scrutinio non sussiste alcuna intrusione nella privata dimora o nel domicilio e non ricorrono, pertanto, le ragioni di tutela del diritto alla riservatezza, potendosi fondatamente equiparare l’uso della videocamera ad una operazione di appostamento, eseguita nei limiti dell’autonomia investigativa.
Ed invero, al fine di valutare se un luogo debba qualificarsi come luogo pubblico o aperto al pubblico può farsi riferimento alla giurisprudenza di questa Corte che, seppure in altro ambito (in materia di armi) ha affermato che il pianerottolo delle scale di un fabbricato in condominio costituisca un luogo aperto al pubblico e ciò in quanto consente l’accesso ad una indistinta categoria di persone e non soltanto ai condomini (Sez. 1, n. 934 del 28/09/1982, dep. 1983, Chiappero, Rv. 15723701); luogo frequentabile da un’intera categoria di persone o da un numero indeterminato di soggetti che hanno la possibilità giuridica e pratica di accedervi senza legittima opposizione di chi su detto luogo esercita un potere di fatto o di diritto (Sez. 1, n. 16690 del 27/03/2008, Bellachioma, Rv. 240116).
2.3. Non determinante, pertanto, risulta la circostanza che l’immobile in questione non avesse le caratteristiche di un condominio in quanto nella titolarità di un unico soggetto che ne aveva locato una sola unità, perché proprio tale evenienza, nonché la presenza di uno studio professionale appartenente allo stesso ricorrente, consente di valutare il luogo come aperto al pubblico a cagione del possibile indeterminato accesso di altri soggetti che, al pari degli inquilini e dei proprietari, hanno il diritto di introdursi nell’androne delle scale comuni, sia perché a ciò titolati, sia perché autorizzati dai soggetti in possesso di tale titolo.
Nè deve essere trascurata la circostanza che lo stato custodiale del ricorrente presso la propria abitazione e l’impossibilità per costui di frapporre ostacoli di sorta in dette parti comuni dell’immobile nei confronti di soggetti preposti ai controlli sull’osservanza della misura cautelare, mal si concilia con la pretesa di includere l’androne di accesso alle distinte unità abitative ed alle parti comuni dell’edificio in quei luoghi la cui riservatezza viene tutelata dall’art. 14 Cost. e art. 8 CEDU; norme inopinatamente chiamate in causa anche alla luce del provvedimento di autorizzazione disposto dall’autorità giudiziaria nella persona del P.M..
3. Infondato risulta il secondo motivo che vorrebbe assegnare valenza dirimente al formale riferimento giuridico (art. 299 c.p.p. o art. 276 c.p.p.) effettuato dal G.i.p. che ha disposto l’aggravamento della misura cautelare, a fronte della richiesta di aggravamento ex art. 276 c.p.p. del P.M. Distinzione meramente formale che non tiene in debita considerazione che il G.i.p., come evidenziato dal Tribunale, aveva fatto esplicito riferimento sia all’art. 276 c.p.p. che all’art. 299 c.p.p.; aggravamento della misura cautelare disposto che, alla luce della rilevata violazione delle prescrizioni del divieto di comunicare con persone non conviventi e dell’allontanamento dall’abitazione, deve essere qualificato ex art. 276 c.p.p..
4. Fondato risulta l’ultimo motivo nella parte in cui viene contestata l’evasione da parte del ricorrente in quanto sarebbe fuoriuscito dall’abitazione per fornire ausilio alla moglie ed al padre che erano alla ricerca delle telecamere sulle scale comuni dell’immobile.
Il Tribunale, onde fondare l’illazione che avrebbe visto il ricorrente al di fuori dell’abitazione, ha valorizzato la continua interlocuzione anche per mezzo di gesti (non spiegabili se non perché rivolti a soggetto in grado di vederli) intervenuti tra padre, moglie e soggetto che sarebbe stato individuato nel M. .
Ricostruzione delle fasi delle operazioni tesa alla ricerca delle telecamere che, se risulta adeguata in ordine alla individuazione del M. quale interlocutore, risulta palesemente lacunosa e contraddittoria nella parte in cui vorrebbe inferire la necessaria collocazione del ricorrente al di fuori dell’appartamento ove era ristretto in regime di arresti domiciliari.
Pur dovendosi, invero, escludere che le scale dell’edificio - come erroneamente dedotto nel ricorso - possano considerarsi parte integrante dell’abitazione (tra le tante, Sez. 2, n. 13825 del 17/02/2017, Guglielmi, Rv. 269744), deve osservarsi come non vengano esplicitati gli elementi da cui desumere che all’interlocuzione del M. con la moglie ed il padre, anche attraverso la gestualità di cui viene dato conto, corrispondesse un suo necessario allontanamento dall’abitazione; circostanza, quella evidenziata, che ha costituito un elemento determinante, seppure non unico, in ordine al disposto aggravamento.
5. L’assenza di motivazione sul punto impone l’annullamento con rinvio della decisione impugnata, con conseguente necessità da parte del Tribunale di motivare, a mente della richiesta di aggravamento ex art. 276 c.p.p. per come sopra ricostruita, sulla base di quali elementi, se del caso, risulti potersi fondare l’evasione, nonché in ordine alla ritenuta gravità della violazione accertata nella sua esatta consistenza ex art. 276 c.p.p., comma 1, ovvero, comma 1ter.
6. L’attuale stato cautelare cui è sottoposto il ricorrente impone, ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter, la trasmissione del presente provvedimento a cura della cancelleria al Direttore dell’Istituto penitenziario per gli adempimenti di cui al comma 1-bis dell’art. cit..
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia al Tribunale di Napoli per nuovo esame.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1-ter.