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Teste di PG può riferire su contenuto delle dichiarazioni del teste? (Cass. 44219/14)

23 ottobre 2014, Cassazione penale

Il divieto di testimonianza indiretta degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria, contenuto nell'art. 195, comma quarto cod.proc.pen., non riguarda i casi in cui la deposizione del teste di polizia giudiziaria non ha valore surrogatorio di quella del teste primario, già acquisita nel processo, ma è solo illustrativa di essa, essendo limitata a provare che non vi è contrasto tra la dichiarazione resa dal teste alla polizia giudiziaria e quella fornita dal medesimo nell'esame dibattimentale.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

(data ud. 17/09/2014) 23/10/2014, n. 44219

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SIOTTO Maria Cristina - Presidente -

Dott. CAIAZZO Luigi - Consigliere -

Dott. NOVIK Adet Toni - rel. Consigliere -

Dott. LOCATELLI Giuseppe - Consigliere -

Dott. SANDRINI Enrico Giusepp - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.V. N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 18/2012 CORTE ASSISE APPELLO di BOLOGNA, del 29/01/2013;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 17/09/2014 la relazione fatta dal Consigliere Dott. ADET TONI NOVIK;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. CANEVELLI Paolo che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito, per la parte civile, l'avv. ML che si è associato;

udito il difensore avv. MM che si è riportato ai motivi.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza in data 27 gennaio 2012 la Corte di assise di Reggio Emilia dichiarava M.V., in concorso con M.M. (per il quale si era proceduto separatamente), colpevole di omicidio pluriaggravato e di occultamento di cadavere in danno di G. F. (capi A e B), dei reati connessi in materia di porto e detenzione di armi (capo C) e incendio dell'autovettura di G., commessi il (OMISSIS), e lo condannava alla pena dell'ergastolo. Seguivano le sanzioni accessorie e la condanna al risarcimento dei danni in favore delle parti civili da liquidarsi in separata sede, cui assegnava una provvisionale.

I fatti, come ricostruiti in dibattimento, sfrondati dalle, non consone alle aule di giustizia, cadenze letterarie di cui è intrisa la sentenza di primo grado, dimentica che il tema del processo è innanzitutto un episodio della vita da ricostruire (art. 546 c.p.p., lett. e)), prendevano le mosse dalla scomparsa di G.F.. La sera del (OMISSIS) la moglie e la figlia di costui contattavano M. per avere notizie del congiunto con cui aveva avuto appuntamento, ricevendo informazioni contraddittorie: alla prima questi riferiva che G., dopo il loro incontro al casolare, si era allontanato in direzione di (OMISSIS), alla seconda invece che era andato in direzione (OMISSIS). Le indagini dei carabinieri volte alla ricerca dello scomparso, estese anche al casolare di M., rimasero senza esito sino al (OMISSIS) quando, in seguito alle dichiarazioni testimoniali di V.M., amico di M., furono effettuate nuove ricerche al casolare che portarono al rinvenimento del corpo di G., occultato all'interno di un pozzo nero. Dall'esame autoptico risultava che la vittima era stata uccisa con due colpi di arma da fuoco al collo ed alla schiena, sparati da breve distanza. Il consulente tecnico medico legale collocava l'epoca della morte ad almeno tre giorni prima del rinvenimento del corpo. L'auto di G. era trovata bruciata alla periferia di (OMISSIS); l'incendio appariva di natura dolosa essendo iniziato dall'interno del veicolo.

2. A fondamento della pronuncia di colpevolezza di M., la Corte di assise valorizzava i seguenti elementi:

- M. aveva un forte movente, avendo investito in società con il G. tutti i propri denari. Le società erano fallite e G. aveva rilasciato a M. a titolo risarcitorio cambiali, poi non pagate;

- testimoni avevano confermato che più volte M. aveva profferito minacce di morte contro G.;

- il giorno della scomparsa M. e G. si erano recati insieme al casolare del primo con lo scopo di una vendita di piastrelle: qui erano state trovate piastrelle in quantità modestissime e vecchie;

- il (OMISSIS), nel tardo pomeriggio, M. si era recato nell'officina di V. e gli aveva detto "fai un buco che gli ho sparato", affermando poi di stare scherzando; gli aveva chiesto di accompagnarlo per spostare una macchina; erano andati insieme al casolare (località (OMISSIS)) con la macchina di V., e M. si era messo al volante di una Lancia Musa color oro, affermando che era della figlia di G. e che voleva nasconderla per fargli uno scherzo; gli aveva anche chiesto come si togliesse una scheda da un cellulare; l'auto era stata parcheggiata vicino casa di V., ma successivamente era stata spostata di un centinaio di metri, nel luogo in cui era stata incendiata;

- in dibattimento, M. aveva reso spontanee dichiarazioni affermando di essersi recato al casolare con G. al fine di vendergli piastrelle. Mentre stavano parlando era arrivata una macchina con all'interno due persone, da lui non conosciute, alla cui vista G. si era spaventato chiedendogli aiuto. I due avevano invitato M. ad andarsene e lo avevano minacciato di non parlare, affermando che il G. se lo sarebbero presi loro. M. si era recato da V. per chiedergli consigli sul da farsi. Gli aveva spiegato l'accaduto e insieme erano andati a prendere l'auto di G. e l'avevano posizionata vicino casa di V..

Ad avviso del primo giudice questi elementi indicavano che M. aveva maturato rancore verso G. in relazione al credito che aveva nei suoi confronti, rimasto impagato, e che con un pretesto lo aveva attirato in un luogo isolato uccidendolo. Per spiegare l'accaduto aveva detto "cose che non stanno nè in cielo nè in terra".

3. Avverso la sentenza proponeva appello il condannato che nel merito richiedeva in primo luogo l'assoluzione ed in via subordinata l'esclusione della premeditazione. La difesa proponeva appello anche contro le ordinanze dibattimentali pronunciate rispettivamente alle udienze del 9 gennaio 1012 (rigetto dell'istanza ex art. 507 cod. proc. pen. di perizia medico legale volta ad accertare l'epoca della morte di G.), del (OMISSIS) (con cui era stata disposta la audizione del maresciallo Ge. in violazione dell'art. 195 c.p.p., comma 4), del 7 novembre 2011 (rigetto della richiesta di contro esaminare il maresciallo Ge.), del 7 novembre 2011 (rigetto della richiesta di un esperimento giudiziale).

Respinte le richieste di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale formulate dalla difesa dell'imputato (supplemento di perizia medico legale per accertare l'ora del decesso di G., supplemento di perizia finalizzata ad accertare tramite la collocazione delle celle telefoniche la presenza del teste V. sui luoghi dell'omicidio, espletamento di un esperimento giudiziale) con la sentenza emessa in data 29/1/2013 la Corte di assise di appello di Bologna, esclusa l'aggravante della premeditazione, rideterminava la pena in anni 23 di reclusione, confermando nel resto le statuizioni di primo grado.

Sul punto della responsabilità, la Corte di assise di appello, respinte le eccezioni relative alla utilizzabilità e attendibilità della deposizione di V. e quelle sulla interpretazione dei tabulati telefonici, ribadiva il convincimento espresso dal giudice di primo grado ritenendo che gli indizi acquisiti al processo per la loro gravità, precisione e concordanza, portavano a concludere, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l'imputato era l'autore dell'omicidio.

Invero:

M. era stato l'ultima persona ad aver visto G.;

- M. aveva attirato G. al casolare con il pretesto delle piastrelle da vendergli lo stesso pomeriggio in cui G. era scomparso M. si era presentato al V. dicendo "fai un buco che gli ho sparato", alludendo ad un'arma da fuoco M. aveva l'auto usata da G., che poi aveva occultato in quella stessa circostanza aveva chiesto a V. come effettuare un'operazione su un cellulare ( G. aveva un telefono che non fu più ritrovato) tre giorni dopo il cadavere di G. era stato rinvenuto in un pozzetto sito nel cascinale di M..

M. aveva un forte movente: la sera del (OMISSIS) l'autovettura di G. era stata incendiata, e gli elementi acquisiti, tra cui le deposizioni di testi, indicavano in M. l'autore dell'incendio "soltanto alla fine del giudizio di primo grado, di fronte ad una mole imponente di indizi a suo carico, l'imputato rende una sua versione dei fatti, che risulta però del tutto inverosimile". La Corte non riteneva concedibili le invocate attenuanti generiche.

3. Il difensore dell'imputato ha proposto ricorso per Cassazione chiedendo l'annullamento della sentenza sulla base di nove motivi, qui sinteticamente enunciati, come richiesto dall'art. 173disp. att. c.p.p., comma 1.

Con un primo motivo, la parte denuncia violazione di legge in relazione alla violazione del diritto di difesa posto dall'art. 24 Cost. ed all'art. 187, lett. c) e artt. 179 e 180 in relazione all'art. 498cod. proc. pen.. In particolare, durante l'esame dei testi di accusa, marescialli Ge. e L. chiamati a deporre sulle indagini svolte in relazione alle imputazioni, il presidente aveva illegittimamente limitato la possibilità di controesame del teste alle circostanze introdotte dal pubblico ministero. Era stata così preclusa al difensore ogni domanda sul tema fondamentale della pistola, derivandone un grave vizio della sentenza in ordine alla acquisizione della prova.

Con un secondo motivo, il ricorrente deduce la mancata assunzione di prova decisiva e manifesta illogicità della motivazione. Ad avviso della parte, avendo il consulente di parte espresso il convincimento che la morte di G. risaliva a due giorni dopo l'incontro con M. era necessario disporre nuovi accertamenti idonei a colmare le lacune derivanti dal mancato accertamento della temperatura e composizione del liquido in cui era immerso il cadavere, e della evoluzione del processo putrefattivo. La Corte aveva respinto il motivo di gravame affermando che gli elementi a disposizione non potevano essere ulteriormente arricchiti, pur convenendo che "se così stessero le cose, l'ipotesi del pubblico ministero, andrebbe, come minimo completamente rivista". La parte si dice conscia dell'orientamento di legittimità circa la non assimilabilità della perizia alle prove cd. decisive, ma afferma che in questo caso si tratta dell'accertamento di un dato scientifico collegato direttamente con uno degli aspetti fondamentali della decisione.

Con un terzo motivo, la parte denuncia vizio di motivazione e violazione dell'art. 192, art. 125, comma 3 e art. 507, in relazione all'art. 495 c.p.p., comma 2. La Corte aveva ignorato gli elementi addotti dalla difesa che avevano smentito il teste V. che aveva affermato di essere salito al casolare con M. e di essersi fermato un attimo. Dai tabulati telefonici invece emergeva che il cellulare di V. aveva effettuato due telefonate, alle 18:03 ed alle 18:43, agganciando rispettivamente la cella di (OMISSIS), strada statale, e quella di (OMISSIS). La Corte aveva superato questo aspetto affermando che l'esame dei tabulati telefonici non smentiva quanto affermato da V., in quanto un telefono cellulare non necessariamente impegna la cella più vicina. In uguale errore era incorsa la Corte nell'esame delle telefonate di G., in quanto il suo telefono, muto dalle 17:47 del (OMISSIS), aveva continuato a ricevere telefonate che agganciavano celle diverse fino alle 18:43, rendendo incompatibile la tesi che il telefono fosse sempre rimasto al casolare. La Corte aveva suffragato la sua tesi con una mappa dei luoghi ma, ad avviso della parte, l'importanza dei dati avrebbe imposto una perizia per accertare la copertura delle celle. La difesa aveva fornito dimostrazione che i tempi erano incompatibili con i comportamenti di M., ma la Corte aveva illogicamente sovrapposto a quello della parte un proprio convincimento, sostituendosi al perito.

Con un quarto motivo, la difesa deduce violazione di legge sull'applicazione dell'art. 191 c.p.p. e art. 192 c.p.p., comma 2. Ad avviso della parte, i giudici di merito avevano ritenuto la colpevolezza dell'imputato sulla base di presunzioni e non di prove.

L'ora e il luogo della morte non erano stati accertati con indagini scientifiche. La Corte aveva giustificato il non accoglimento della richiesta di indagini ulteriori suoi luoghi in considerazione di un temporale che aveva investito la zona, non considerando che tracce di sangue ed ogive non si potevano disperdere. Un teste che abitava nella zona non aveva visto sulla strada l'auto incendiata e, anzichè sentire ulteriori testi, ci si era affidati alla deposizione di V.. Non era stata compiuta nessuna ispezione sull'auto di M. per accertare la presenza di tracce di polvere da sparo o di liquido infiammabile.

Con il quinto motivo la difesa deduce inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, in relazione all'art. 191 c.p.p., art. 192 c.p.p., comma 2 e art. 533 cod. proc. pen.. Ad avviso della parte, la colpevolezza dell'imputato non era stata accettata al di là di ogni ragionevole dubbio. Il luogo del delitto era presunto;

non era stata trovata l'arma utilizzata; non era stato dimostrato se M. avesse agito da solo o in concorso con altri, dal momento che per sollevare la lastra che copriva il pozzo erano stati impiegati tre uomini. Questo ultimo dato era rilevante perchè se M. era con altre persone, si rivelava inutile la presenza di V.. A meno di non ritenere quest'ultimo corresponsabile nell'occultamento del cadavere. Nel corso del primo sopralluogo i carabinieri non avevano individuato alcun elemento indiziante, tantomeno il corpo nel pozzo. L'episodio dell'incendio era di dubbia ricostruzione.

Con il sesto motivo, il ricorrente deduce violazione di legge in relazione all'art. 210 c.p.p., art. 63 c.p.p., commi 1 e 2 e artt. 191 e 192 cod. proc. pen.; illogicità e contraddittorietà della motivazione. I giudici di merito avevano fondato il loro convincimento sulla deposizione del teste V.. Questi però, avendo aiutato l'imputato M. nell'occultamento dell'auto di G., si era reso responsabile di favoreggiamento personale e quindi avrebbe dovuto essere sentito come imputato in reato connesso.

La posizione di V. era nota ai giudici del dibattimento, in quanto il teste F., precedentemente assunto, aveva riferito che già il (OMISSIS) V. gli aveva detto quanto era accaduto il (OMISSIS), e che egli sapeva che l'auto da occultare era di G.. In relazione alla posizione sostanziale del V., le sue dichiarazioni erano inutilizzabili. Inoltre, come imputato di reato connesso le sue dichiarazioni difettavano di attendibilità intrinseca ed estrinseca. Il timore di V. di essere coinvolto nella vicenda faceva sì che non era possibile distinguere quello che effettivamente M. gli aveva raccontato. Erroneamente la Corte di assise di appello aveva ritenuto di ritenere il teste attendibile quando aveva riferito la confessione di M., ed inattendibile quando aveva affermato di aver saputo solo successivamente che la macchina che aveva aiutato a spostare era della vittima: per i principi che regolano la valutazione frazionata della prova, la Corte avrebbe dovuto indicare le ragioni della falsità, spiegare perchè questa non minava la generale attendibilità del dichiarante e dimostrare la mancanza di interferenza tra parti false e il resto del narrato. Le dichiarazioni di V. infine difettavano di riscontri oggettivi, tali non potendosi considerare quelle del F., nè le spontanee dichiarazioni dell'imputato, nè la deposizione del maresciallo Ge., assunta in violazione dell'art. 195, comma 4, nè quella del teste Ve. sulla decisiva circostanza dell'aver il (OMISSIS) M. riferito, in presenza di V., di avere un appuntamento quel pomeriggio con G..

Con il settimo motivo la parte deduce ancora inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 191 e 192 c.p.p. e art. 500 c.p.p., comma 2;

contraddittorietà della motivazione in relazione alle dichiarazioni rese dai testi. Ad avviso della parte, la Corte di primo grado avrebbe illegittimamente utilizzato come prova le dichiarazioni rilasciate dai testi C. e P. nel corso delle indagini preliminari, le quali invece avrebbero dovuto valere solo ai fini della loro credibilità. La Corte di secondo grado inoltre non aveva adeguatamente valutato la deposizione della moglie di G., N.G., la quale solo in dibattimento aveva riferito delle minacce di M. verso il marito, taciute invece al momento della denuncia della sua scomparsa; quella di Ma.An., che aveva riferito che tra M. e G. i rapporti erano normali, senza parlare di minacce; quella del teste B.. Ad avviso della parte, l'assunzione di questi testi era avvenuta in violazione dei principi di garanzia secondo cui la prova si forma oralmente in dibattimento.

Con l'ottavo motivo è censurato il riconoscimento fotografico di M.. L'affermazione di responsabilità dell'imputato per l'incendio dell'autovettura era stato determinato dal riconoscimento di alcuni testi che la sera dell'incendio avevano visto passare un'auto bianca, Fiat Punto, guidata da una persona anziana che aveva imboccato la strada contromano. Innanzi alla polizia giudiziaria i testi avevano riconosciuto il guidatore dell'auto in M., proprietario di un'auto di quel tipo e colore, ma questo esito non era stato confermato nel dibattimento. Gli incerti riconoscimenti dei testi non costituivano indizi gravi, precisi e concordanti. Infine, gli elementi addotti per ritenere l'imputato responsabile dell'incendio non erano concludenti. Le circostanze che egli potesse avere le chiavi dell'auto ed un interesse alla sua distruzione non escludevano altre alternative possibili.

Con il nono motivo la parte lamenta la mancata concessione delle attenuanti generiche, negata in base all'irrilevanza dell'incensuratezza e per il negativo comportamento processuale. Ad avviso della difesa, la motivazione adottata era apparente, non avendo considerato che la scelta difensiva di M. non aveva comportato intralci alle indagini, nè aveva addossato responsabilità a terzi.

Anche se la versione difensiva da questi resa era stata ritenuta inverosimile, essa rientrava nell'esercizio del diritto di difendersi nel processo.
Motivi della decisione
1. I motivi sono in parte inammissibili e in parte infondati e da ciò consegue il rigetto del ricorso.

Va preliminarmente rilevato che nella verifica della fondatezza o meno dei motivi di ricorso ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) (terzo, sesto, settimo, ottavo motivo), il compito della Corte di legittimità non consiste nell'accertare la plausibilità e l'intrinseca adeguatezza dei risultati dell'interpretazione delle prove, coessenziale al giudizio di merito, ma quello ben diverso di stabilire se i giudici di merito abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano dato esauriente risposta alle deduzioni delle parti e se nell'interpretazione delle prove abbiano esattamente applicato le regole della logica, le massime di comune esperienza e i criteri legali dettati in tema di valutazione delle prove, in modo da fornire la giustificazione razionale della scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Cass., Sez. Un., 13 febbraio 1995, Clarke). Ne consegue che, ai fini della denuncia del vizio in questione, è indispensabile dimostrare che il testo del provvedimento è manifestamente carente di motivazione e/o di logica e che non è, invece, producente opporre alla valutazione dei fatti contenuta nel provvedimento impugnato una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica, dato che in quest'ultima ipotesi verrebbe inevitabilmente invasa l'area degli apprezzamenti riservati al giudice di merito (Cass., Sez. Un., 19 giugno 1996, Di Francesco).

Nella sentenza impugnata è stato analiticamente dettagliato il compendio probatorio a carico del ricorrente e sono stati attentamente confutati i motivi di gravame, nuovamente riproposti con il ricorso sotto la veste della legittimità. Il sindacato sulla logicità della motivazione, condotto alla luce dei principi dianzi indicati, pone in luce che il ragionamento seguito dai giudici di merito si è sviluppato in maniera organica e coerente, attraverso passaggi immuni da incongruenze e da fratture, secondo un filo logico di plausibile persuasività e mediante la corretta applicazione delle regole di valutazione probatoria. Assunto questo che non è stato smentito dalla produzione degli estratti dei verbali di udienza riportati nel ricorso.

2. Il primo motivo di ricorso, con cui si impugna l'ordinanza dibattimentale del 7/11/2011, pur in astratto fondato, non è tuttavia conducente all'esito prospettato dal ricorrente, in quanto nella pratica nessuna violazione al diritto di difesa dell'imputato è dato riscontrare. Risulta dalla lettura del verbale di udienza che il presidente della Corte di primo grado impedì al difensore di esaminare il teste di polizia giudiziaria maresciallo Ge.

sulla "pistola", cioè sull'arma del delitto, trattandosi di un tema non affrontato dall'accusa che aveva introdotto il teste, con la motivazione che "il controesame si fa sulle circostanze introdotte dal pubblico ministero".

La Corte di appello ha respinto il motivo di gravame ritenendo che il presidente ha il dovere di dirigere il dibattimento impedendo divagazioni ed ipotizzando una sorta di acquiescenza del difensore ricavata dall'affermazione finale "Non ho altre domande allora", e, comunque, ritenendone l'inammissibilità perchè nell'atto di appello i difensori non avevano spiegato quali fossero le domande che intendevano rivolgere al teste, e la loro rilevanza.

La prima argomentazione della Corte non è esatta. Dal verbale di udienza si ricava che il presidente nel corso del controesame del teste Ge. intervenne d'ufficio non ammettendo la domanda del difensore sulla pistola. Ne seguì un'articolata discussione in cui il presidente esplicito il suo convincimento e, alla domanda del difensore "Quindi non posso fare la domanda", rispose "Non può fare domande sulla pistola di cui non si è parlato finora". Nè fu chiesto di indicare la rilevanza di quella domanda. A fronte di questa decisione, rientrante nei poteri presidenziali posti dall'art. 499 codice di rito, non restò al difensore alternativa diversa dal concludere l'esame del teste.

Questa Corte, nella sentenza citata dal ricorrente (Cass. Sez. 2, n. 192 del 19/10/2000, dep. 2011, Cangialosi Rv 217878) ha ricordato che "Il principio generale dettato dall'art. 468 cod. proc. pen. pone alle parti istanti l'obbligo di indicare le circostanze su cui deve vertere l'esame; tale principio ha la preminente finalità di tutelare le parti processuali dall'eventualità che vengano introdotte prove a sorpresa, nonchè di consentire loro di predisporre un efficace linea di difesa, se del caso anche attraverso la tempestiva richiesta della prova contraria. Nel contempo ha la finalità di consentire al giudice di adottare i provvedimenti più opportuni per la celebrazione di un dibattimento corretto, esaustivo, ma non ridondante". Ne consegue che il thema probandum, anche riguardo alla controprova, è quello fissato con la capitolazione esplicita o implicita delle circostanze su cui dovrà vertere l'esame, non già, a posteriori, sulle domande in concreto proposte dalla parte richiedente, la quale potrebbe in tal modo artatamente cambiare la tematica probatoria in corso d'opera o limitare l'esame a circostanze marginali impedendo un dettagliato controesame. Poichè nel caso di specie, come riportato nel ricorso, il teste era stato indicato "sulle indagini svolte in relazione alle imputazioni con particolare riferimento all'esito delle perquisizioni e sequestri", se anche l'arma utilizzata per l'omicidio aveva costituito oggetto di indagini, non era precluso al difensore di introdurre questo tema, anche se non trattato dal pubblico ministero nel corso dell'esame diretto.

E invece corretta la seconda argomentazione a base dell'inammissibilità, anche se, a monte della genericità del motivo di gravame, vi è quello dell'irrilevanza del tema affrontato.

L'ordinamento processuale si va infatti sempre più orientando verso un sistema di garanzie sostanziali che hanno come riferimento la conoscenza effettiva dei dati necessari alla difesa, e non la astratta garanzia del rispetto formale delle norme. Ora, è lo stesso difensore che nel ricorso (pag. 4) riconosce che "non è stata trovata l'arma del delitto, nè si è potuto, per non ritrovamento di bossoli o proiettili identificare calibro o tipo dell'arma stessa;

non è stata trovata alcuna traccia di polvere da sparo, che collegasse il M. all'omicidio, se non alcune particelle sui pantaloni indossati il giorno dell'evento, giustificati aliunde". A fronte di questa situazione ogni domanda sull'arma utilizzata può avere un valore informativo, ma è priva di un interesse sostanziale.

3. Il secondo motivo di ricorso con cui si censura la mancata assunzione di una perizia, ritenuta decisiva, è manifestamente infondato. Questa Corte ha più volte affermato che, con riguardo al giudizio di appello, la mancata assunzione di una prova decisiva può costituire motivo di ricorso per cassazione quale error in procedendo, ai sensi dell'art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. d), solo quando si tratti di prove sopravvenute o scoperte dopo lo pronuncia di primo grado, che avrebbero dovuto essere ammesse, secondo il disposto dall'art. 603 c.p.p., comma 2, (tra le altre, Sez. 5, n. 34643 del 08/05/2008, dep. 04/09/2008, PG e De Carlo e altri, Rv. 240995; Sez. 3, n. 11530 del 29/01/2013, dep. 12/03/2013, A.E., Rv. 254991), mentre negli altri casi previsti (art. 603 c.p.p., commi 1 e 3) la decisione istruttoria del giudice di appello è censurabile in sede di legittimità ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l'ammissione a norma dell'art. 495 c.p.p., comma 2, (Sez. 1, n. 16772 del 15/04/2010, dep. 03/05/2010, Z., Rv. 246932;

Sez. 2, n. 841 del 18/12/2012, dep. 09/01/2013, Barbero, Rv. 254052;

Sez. 2, n. 9763 del 06/02/2013, dep. 01/03/2013, PG in proc. Muraca e altri, Rv. 254974), e ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), sotto il profilo della mancanza o manifesta illogicità della motivazione, come risultante dal testo della decisione impugnata, sempre che la prova negata, confrontata con le ragioni addotte a sostegno della decisione, sia di natura tale da poter determinare una diversa conclusione del processo (tra le altre, Sez. 5, n. 10858 del 21/10/1996; Sez. 6, n. 26713 del 30/04/2003; Sez. 2, n. 44313 del 11/11/2005, Rv. 232772; Sez. 4, n. 4675 del 17/05/2006; Sez. 5, n. 34643 del 08/05/2008). Si è anche rilevato che l'accertamento peritale non può ricondursi al concetto di prova decisiva, la cui mancata assunzione costituisce motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), poichè il diritto alla controprova, riconosciuto all'imputato e al pubblico ministero dall'art. 495 c.p.p., comma 2, espressamente richiamato dal predetto art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), che sancisce il diritto del primo all'ammissione delle prove dedotte a discarico sui fatti costituenti oggetto della prova a carico e il diritto del secondo all'ammissione delle prove a carico dell'imputato sui fatti costituenti oggetto delle prove a discarico, non può avere a oggetto l'espletamento di una perizia, mezzo di prova per sua natura neutro e, come tale, non classificabile nè a carico nè a discarico dell'imputato, sottratto al potere dispositivo delle parti e rimesso essenzialmente al potere discrezionale del giudice, la cui valutazione, se assistita da adeguata motivazione, è insindacabile in sede di legittimità (tra le altre, Sez. 6, n. 43526 del 03/10/2012, dep. 09/11/2012, Ritorto e altri, Rv. 253707; Sez. 4, n. 7444 del 17/01/2013, dep. 14/02/2013, Sciarra, Rv. 255152).

Nel caso in esame i giudici di merito, con motivazione del tutto adeguata e per nulla illogica, considerata l'integrazione delle due sentenze di merito che sono giunte alla stessa conclusione, hanno ritenuto che la acquisizione di dati sulla temperatura dell'acqua in cui il corpo era stato immerso, ritenuti necessari dal ricorrente per determinare con maggiore esattezza l'ora della morte di M. in base ai parametri della rigidità cadaverica (peraltro di limitata attendibilità) e del processo putrefattivo, non avrebbero consentito nessun ulteriore approfondimento. La Corte di secondo grado ha poi argomentato che le approssimative valutazioni medico legali non smentivano l'ipotesi ricostruttiva della vicenda che individuava in M. l'autore del delitto, così che la perizia appariva superflua alla luce del compendio probatorio a disposizione (pag. 60).

4. Le considerazioni svolte al punto precedente vanno integralmente richiamate perchè sorreggono l'affermazione di inammissibilità anche del terzo motivo di ricorso, con cui si censura il non accoglimento della richiesta di perizia sui tabulati telefonici, funzionale, ad avviso della difesa, sia a smentire il teste V., sia a confutare i tempi dell'omicidio sul rilievo che il telefono di G., quando secondo la tesi dell'accusa era stato già ucciso, era invece in movimento e aveva ricevuto telefonate fino alle 18:43.

La Corte di secondo grado ha dettagliato le ragioni (pagg. 48 - 51) per cui la collocazione delle celle e la natura del territorio rendevano impossibile una precisa localizzazione dei telefoni mobili.

Richiamando la deposizione del teste che aveva eseguito gli accertamenti, ha spiegato che la zona interessata è coperta da tre antenne, site in zone diverse, e che le telefonate in partenza ed in arrivo agganciano indifferentemente una delle tre celle. Così che, riallacciandosi alla sentenza di primo grado, ha concluso che il tema di indagine proposto non era risolutivo, in quanto se non confermava l'ipotesi di accusa, nemmeno la smentiva. La Corte, in riferimento specifico alle chiamate arrivate sul telefono di G., ha osservato, con argomentazione risolutiva, che non vi era nessuna prova che il telefono fosse ancora in suo possesso e non fosse stato invece spostato dal casolare da M., proprio per depistare le indagini. La motivazione è adeguata e coerente ed è stata formulata sulla base di una approfondita valutazione di dati di fatto, non censurabili nel giudizio di legittimità.

5. Il quarto e il quinto motivo di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente perchè connessi, sono manifestamente infondati per genericità, in quanto, sotto l'aspetto della violazione di legge, si censurano genericamente il percorso motivazionale e la mancanza di prove dirette per l'affermazione di responsabilità. Peraltro è orientamento noto e costante di questa Corte (confronta Cass. n. 4713 del 1996, Bruno; vedi anche Cass. n. 4867 del 2001, Maglieri) che i motivi costituiscono una parte essenziale e inscindibile della impugnazione e, pur nella riconosciuta libertà della loro formulazione, debbono essere, ai sensi dell'art. 581 cod. proc. pen., lett. c) articolati in maniera specifica: devono cioè indicare chiaramente, a pena di inammissibilità, le ragioni su cui si fonda la doglianza. Per essere specifico, il motivo del ricorso per cassazione deve concretarsi nella precisa e determinata indicazione dei punti di fatto e di diritto da sottoporre al giudice di legittimità, in una esposizione, pur concisa, ma chiara, delle censure che si muovono ai punti indicati ed i riflessi sulla esattezza della decisione impugnata, onde consentire a detto giudice di esercitare il suo sindacato con riferimento alle argomentazioni svolte nel provvedimento impugnato.

Invece le censure in esame non contengono riferimenti specifici e si sostanziano rispettivamente in una serie di considerazioni generali sulle supposte carenze nelle indagini e sulla tenuta del processo indiziario che le rendono inammissibili. Quanto particolarmente alla prova critica o indiretta, fondata sulla utilizzazione degli indizi, essa consiste essenzialmente nella deduzione di un fatto ignoto da un fatto noto attraverso un procedimento conoscitivo che poggia su regole di esperienza, ricavate dall'osservazione dei normale ordine di svolgimento delle vicende naturali e di quelle umane, alla cui stregua è possibile riconoscere che il fatto noto è legato al fatto da provare da un elevato grado di probabilità o di frequenza statistica, che rappresenta la base giustificativa della regola di inferenza su cui poggia il metodo logico-deduttivo della valutazione degli indizi.

Nella giurisprudenza della Corte di cassazione sono stati chiaramente enunciati i principi che regolano la prova indiziaria, sottolineando, innanzi tutto, che il procedimento indiziario deve muovere da premesse certe, nel senso che queste devono corrispondere a circostanze fattuali non dubbie e non possono, quindi, consistere in dati fondati su mere ipotesi o congetture ovvero su giudizi di verosimiglianza (Cass., Sez. 4A, 25 gennaio 1993, Bianchi; Cass., Sez. 1A, 9 aprile 1992, Pirisi). Gli indizi, oltre a corrispondere a dati di fatto certi, devono essere gravi, precisi e concordanti, secondo l'esplicito dettato dell'art. 192 c.p.p., comma 2, che subordina alla presenza di questi tre concorrenti requisiti l'equiparazione della prova critica o indiretta alla prova rappresentativa o storica o diretta: con la conseguenza che, in mancanza anche di uno solo di essi, gli indizi non possono considerarsi come vera e propria prova e non raggiungono il crisma della certezza razionale richiesta per la condanna dell'imputato. E' stato, poi, chiarito che il procedimento logico di valutazione degli indizi si articola in due distinti momenti: il primo è diretto ad accertare il maggiore o il minore livello di gravità e di precisione degli indizi, ciascuno considerato isolatamente, tenendo presente che tale livello è direttamente proporzionale alla forza di necessità logica con la quale gli elementi indizianti conducono al fatto da dimostrare ed è inversamente proporzionale alla molteplicità di accadimenti che se ne possono desumere secondo le regole di esperienza; il secondo momento del giudizio indiziario è costituito dall'esame globale e unitario tendente a dissolverne la relativa ambiguità ("quae singola non probant, simul unita probant"), posto che "nella valutazione complessiva ciascun indizio (notoriamente) si somma e, di più, si integra con gli altri, talchè il limite della valenza di ognuno risulta superato e l'incidenza positiva probatoria viene esaltata nella composizione unitaria, sicchè l'insieme può assumere il pregnante e univoco significato dimostrativo, per il quale può affermarsi conseguita la prova logica del fatto.... che - giova ricordare - non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto alla prova diretta (o storica) quando sia conseguita con la rigorosità metodologica che giustifica e sostanzia il principio del cd. libero convincimento del giudice" (Cass., Sez. Un., 4 febbraio 1992, Ballan). Oggetto della valutazione non deve essere quindi il metodo adottato, quanto la bontà del risultato raggiunto: ovverosia, che nella ricostruzione dei fatti operata dall'organo dell'accusa sia stata fatta corretta applicazione delle regole della prova indiziaria, attraverso la verifica dei criteri di inferenza adottati e la loro convergenza in un quadro probatorio unitario, univocamente dimostrativo che l'imputato ha realizzato il fatto contestato. In questo quadro, i fatti non possono essere scomposti in singoli elementi frammentati, avulsi dal contesto in cui si inseriscono, ma di essi deve essere operata una lettura in congiunzione. Se si passa ad esaminare la concludenza di tutti gli elementi di prova, come ha fatto correttamente la Corte felsinea, ci si accorge che la possibilità di una spiegazione alternativa è praticabile per ciascuno di essi, singolarmente considerato, ma non per il quadro indiziario complessivo che nasce dalla loro concatenazione logica.

Tutti i punti su sui si appuntano i dubbi (involgenti comunque valutazioni di fatto) del ricorrente sono stati presi in esame dal giudice di appello che li ha risolti con una spiegazione lineare e convincente: la Corte ha spiegato il motivo per cui è certo che l'omicidio è stato eseguito al casolare ed è irrilevante la circostanza che non sia stata trovata l'arma del delitto; le indagini sono ancora aperte per individuare altri complici; le prime indagini al casolare erano dirette alla ricerca di una persona scomparsa, di cui ancora non si sospettava la morte, ragione per cui non vi era motivo di cercare all'interno del pozzo (la circostanza che ad un operante la lastra di copertura "appariva non spostata da tempo" è solo un'impressione priva di oggettività); il teste C. aveva visto le fiamme provenire dall'interno della Lancia Musa di G. e questo escludeva l'ipotesi di un corto circuito sorto all'interno del vano motore.

6. Di maggiore spessore è il sesto motivo con cui si deduce che il teste V. avrebbe dovuto essere sentito nella veste di imputato in reato connesso, individuato quantomeno nel favoreggiamento personale (se non di più: vedi le suggestioni introdotte a pag. 24 del ricorso). Con le conseguenze in tema di valutazione della deposizione resa.

Il motivo è infondato. Emerge dalla sentenza di primo grado che la veste sostanziale di V. fu messa in dubbio solo nel corso della discussione finale. Correttamente il giudice di primo grado ha argomentato che il PM aveva indicato V. come testimone e che nessuna obiezione era stata formulata dalla difesa che, anzi, aveva indicato due testi a prova contraria. Va ricordato che in un processo di parti spetta alle parti stesse indirizzare i poteri del giudice del dibattimento indicando la veste in cui il soggetto deve essere sentito. Non spetta al giudice, che ha una conoscenza limitata degli atti e nulla sa di quanto i testi diranno, attribuire al teste una posizione diversa da quella che gli è stata indicata. Nè si può fare affidamento su quanto egli ha appreso o apprenderà perchè il processo è un work in progress e solo quando l'istruttoria dibattimentale è conclusa il giudice ha un quadro tendenzialmente completo dei fatti. Principio questo espresso anche dalle Sezioni Unite di questa Corte che hanno ricordato che "Il giudice, infatti, per potere applicare la norma di cui all'art. 210 cod. proc. pen., deve essere messo in condizione di conoscere la situazione di incapacità a testimoniare o di incompatibilità, le quali, quindi, se non risultano dagli atti inseriti nel fascicolo del dibattimento, devono essere dedotte dalla parte esaminata o comunque da colui che chiede l'audizione della persona imputata o indagata in un procedimento connesso o collegato vedi Cass., Sez. 3, 11 ottobre 2007, n. 40196, Torcasio". Comunque, la Corte di appello ha dato una risposta adeguata e giuridicamente corretta evidenziando che V. era stato sentito come testimone in quanto egli non aveva nessuna consapevolezza del reato commesso da M.. Va allora ricordato che la giurisprudenza di questa Corte è pressochè costante nel senso che, in tema di dichiarazioni indizianti, la valutazione relativa alla sussistenza ab initio degli indizi di reità a carico del soggetto che le ha rese costituisce accertamento in punto di fatto che, se correttamente motivato, si sottrae al controllo di legittimità (Sez. 6, 30 aprile 1999, Cianetti); che, poichè l'inutilizzabilità nei confronti dei terzi prevista dall'art. 63 cod. proc. pen. per le dichiarazioni rilasciate da persona che fin dall'inizio avrebbe dovuto essere sentita in qualità di indagato o imputato è subordinata, in ogni caso, alla condizione che il dichiarante sia colpito da indizi in ordine al medesimo reato ovvero al reato connesso o collegato attribuito al terzo, devono ritenersi utilizzabili le dichiarazioni rese contro l'estorsore dal soggetto passivo del reato di estorsione che sia indiziato di favoreggiamento nei confronti dell'estorsore medesimo, perchè rispetto al delitto da cui è offeso il dichiarante si trova in una posizione di estraneità ed assume la specifica veste di testimone (Sez. 2, 5 maggio 2000, Papa); che in tema di dichiarazioni indizianti rese da persona non imputata nè sottoposta ad indagini, la questione relativa alla sussistenza ab initio di indizi di reità a carico dell'interessato costituisce accertamento in punto di fatto che, in caso di congrua motivazione da parte del giudice di merito, è sottratto al sindacato in sede di legittimità (Sez. Un. n. 15208 del 2010; Sez. 3, 30 settembre 2003, Marciante).

La Corte di appello ha spiegato che solo quando V. seppe della scomparsa di G. rielaborò il suo incontro con M. dando una luce diversa alla frase da questi pronunciata, espressa sorridendo, di "fare un buco", immediatamente però giustificata come scherzosa, e alla richiesta di aiuto per nascondere la macchina di G. "per fargli uno scherzo". Correttamente ha concluso che mancava quindi il dolo del reato. Ha indicato anche come riscontri a questa testimonianza, quella del F., cui V. spaventato dagli sviluppi della vicenda si rivolse per chiedere consiglio e che lo sollecitò a recarsi subito dalle forze di polizia.

La Corte di secondo grado ha ritenuto irrilevante la censura mossa all'assunzione come teste ex art. 507 del maresciallo Ge., proposta dalla difesa perchè in contrasto con quanto previsto dall'art. 195 cod. proc. pen.. In dibattimento il teste V. aveva riferito che quando M. era andato a trovarlo gli aveva detto "Fai un buco che gli ho sparato". La Corte di primo grado ha risentito il maresciallo Ge. per sapere le precise parole pronunciate da V. quando, dopo il consiglio di F., si era recato dai carabinieri per riferire l'accaduto, particolarmente sull'utilizzo del verbo sparare, significativo per dedurre che in quel momento M. sapeva gà che G. era stato ucciso con un'arma da fuoco. Ad avviso della Corte, nell'ottica del divieto posto dall'art. 195 cod. proc. pen. occorreva distinguere tra dichiarazione come fatto storico e dichiarazione resa per introdurre i fatti nel processo: solo in questo secondo caso l'art. 195 vietava la testimonianza indiretta del teste di P.G..

La posizione di teste puro riconosciuto a V. rende irrilevante cercare riscontri alle sue dichiarazioni, quando se ne sia ritenuta, come nella specie, l'attendibilità. Vale solo aggiungere che il divieto di cui all'art. 195 cod. proc. pen. si realizza quando tramite la testimonianza del teste di P.G. si vogliono introdurre nel processo "fatti" in contrasto con quelli su cui il teste. L'art. 195, comma 4 nel vietare che il teste di P.G. possa deporre sul "contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni", va collegato al precedente art. 194 che, nel definire l'oggetto e i limiti della testimonianza, statuisce che "il testimone è esaminato sui fatti che costituiscono oggetto di prova". Nel caso dell'agente di P.G. l'oggetto della prova, cioè ciò che si dovrebbe essere chiamati a ricostruire oralmente, è la deposizione ricevuta dal teste. Ne consegue che il divieto si riferisce solo ai casi in cui "oggetto" specifico della testimonianza è la dichiarazione ricevuta dal testimone. Ricostruita in questi termini la ratio della disposizione, diventa agevole constatare come non vi ricadano le situazioni, come quelle che stanno alla base del discorso di partenza, in cui la deposizione del teste di P.G. non ha valore surrogatorio di quella del teste primario, già acquisita nel processo, ma è solo illustrativa di essa, e non la surroga, essendo limitata a provare che non vi è contrasto tra la dichiarazione resa dal teste alla P.G. e quella dibattimentale. In analogia con quanto previsto per la testimonianza dall'art. 500 cod. proc. pen..

7. Con il settimo motivo la parte contesta l'utilizzo come prova delle dichiarazioni predibattimentali rese dai testi sulla conflittualità esistente tra M. e G. attraverso lo strumento della conferma. A dire della parte "Si è utilizzato il metodo di portare il testimone a tutti i costi a confermare le dichiarazioni rese a SIT". Tale motivo, per quanto attiene le deposizioni rese dai testi indicati non rispetta il criterio dell'autosufficienza del ricorso.

Il giudice di primo grado (pag. 4) e quello di appello (pagg. 34 - 35) hanno riportato le testimonianze rese dai testi. Era onere della parte, a pena di inammissibilità del motivo per genericità, non solo di indicare specificamente l'atto che si riferisce affetto dal vizio denunciato, ma di curare altresì che tale atto sia comunque effettivamente acquisito al fascicolo trasmesso al giudice di legittimità, anche provvedendo a produrlo in copia nel giudizio di cassazione (Cass. pen. sez. 5, 37694/2008 Rv. 241300).

Va sul punto ribadito che il ricorso per cassazione ha come sua caratteristica naturale proprio l'autosufficienza nel senso che, esso deve: a) contenere la specifica indicazione del materiale probatorio richiamato; b) dare prova della veridicità di detto dato o della sua insussistenza; c) indicare l'elemento fattuale, il dato probatorio o l'atto processuale da cui discende l'incompatibilità con la ricostruzione adottata; d) esporre le ragioni per cui detto atto inficia o compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l'interna coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale incompatibilità (ex plurimis: cfr. Cass.. sez. 6, 8067/12, 5926/12;

48763/11; 48762/11; 27153/11; 4879/11; 2007/2010; Sez. 4, 28135/2007, Arena; Cass. sez. 6, 10951/2006). Tali progressivi adempimenti, ed in particolare quello dei punti sub b) e d) non sono stati rispettati dall'imputato ricorrente che si è limitato a riportare brani delle deposizioni che, isolate dal contesto, non sono sufficienti a dare contezza del tenore complessivo della dichiarazione. Inoltre, a quanto è dato capire, poichè a seguito delle contestazioni il teste aveva confermato la precedente dichiarazione, nessun problema può porsi in merito all'utilizzo della stessa giacchè acquisita nei contraddittorio dibattimentale.

Irrilevante, e non in grado comunque di inficiare la deposizione dibattimentale, appare il rilievo, che non è provato abbia formato oggetto di contestazione durante l'esame del teste, secondo cui nelle prime fasi della scomparsa del marito, la moglie di questi non abbia fatto accenno ai contrasti con M. e alle minacce "di ammazzarlo e di dare la sua testa da mangiare ai porci". Come già argomentato dalla Corte di secondo grado nei primi momenti le ricerche erano orientate al ritrovamento di un uomo scomparso.

8. Con l'ottavo motivo il ricorrente contesta il valore probatorio attribuito al riconoscimento di M. da parte dei testi, come colui che alla guida di una Fiat Punto transitava contro mano in prossimità del luogo in cui fu bruciata la Lancia Musa di G..

La censura è infondata. Secondo il costante orientamento ermeneutico di questa Corte, se il giudice di merito ha ottemperato all'obbligo della motivazione delle ragioni del sicuro affidamento che dia l'identificazione dell'imputato operata in sede di polizia giudiziaria mediante ricognizioni fotografiche ovvero in dibattimento, mediante riconoscimenti informali da parte dei testi, la valutazione della prova in tal modo effettuata, ed il conseguente convincimento su di essa fondato, ai fini del giudizio di colpevolezza dell'imputato, si sottraggono al sindacato di legittimità della Corte di Cassazione. Nè, si è aggiunto, possono essere censurate - sotto il profilo del diritto - le conclusioni in punto di affidabilità del riconoscimento diretto dell'imputato effettuato in dibattimento in quanto, secondo l'insegnamento di questa Corte: "i riconoscimenti fotografici - non regolati dal cod. proc. pen. - che siano stati effettuati in sede di indagini di polizia giudiziaria, come pure i riconoscimenti informali dell'imputato operati dai testi in dibattimento, hanno carattere di accertamenti di fatto e sono utilizzabili nel giudizio in base al principio della non tassatività dei mezzi di prova ed a quello del libero convincimento del giudice. In tali casi la certezza della prova dipende non dal riconoscimento in sè, ma dalla ritenuta attendibilità della deposizione di chi, avendo esaminato la fotografia dell'imputato e/o l'imputato stesso, si dica certo della sua identificazione" (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 2662 del 08/11/1995 Ud. (dep. 13/03/1996) Rv. 204515).

Nel caso di specie, la Corte di secondo grado ha adeguatamente valutato le deposizioni dei testi N. e A. ritenendole affidabili nell'identificazione dell'imputato, in coordinazione con argomenti logici dotati di una pregnante forza giustificativa. La macchina era stata spostata dal luogo ove inizialmente era stata parcheggiata e al momento dell'incendio aveva l'indicatore di direzione acceso. M. aveva le chiavi dell'auto e un movente per distruggere l'auto al fine di depistare le indagini o distruggere prove per lui sfavorevoli.

Nella valutazione del materiale probatorio i fatti non possono essere scomposti in singoli elementi frammentati, avulsi dal contesto in cui si inseriscono, ma di essi se ne deve operare una lettura in congiunzione. Se si passa ad esaminare la concludenza di tutti gli elementi di prova, come ha fatto correttamente la Corte bolognese, ci si accorge che la possibilità di una spiegazione alternativa è agevolmente praticabile per ciascuno di essi, singolarmente considerato, ma non per il quadro indiziario complessivo che nasce dalla loro concatenazione logica. Con la conseguente conclusione che, se pure ogni singolo elemento poteva non essere sufficiente ai fini dell'affermazione della responsabilità di M. anche nell'incendio dell'autovettura, il quadro complessivo che se ne ricavava era univocamente orientato in tal senso.

9. Il nono motivo con cui viene censurato il mancato riconoscimento delle richieste attenuanti generiche è manifestamente infondato.

Le attenuanti generiche, nel nostro ordinamento, hanno lo scopo di allargare le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole al reo, in considerazione di situazioni e circostanze particolari che effettivamente incidano sull'apprezzamento dell'entità del reato e della capacità di delinquere dell'imputato.

Il riconoscimento di esse richiede, dunque, la dimostrazione di elementi di segno positivo. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la concessione o il diniego delle attenuanti generiche rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio, positivo o negativo che sia, deve essere bensì motivato ma nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso giudice circa l'adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo. Nella fattispecie in esame, i giudici di merito hanno dato ampiamente conto delle ragioni che hanno portato al diniego delle attenuanti generiche con il rilievo della irrilevanza (per legge) della incensuratezza, con il comportamento processuale non corretto e con l'assenza di resipiscenza, indicando come fattori negativi il tentativo di occultamento del cadavere e l'incendio dell'auto.

Il tentativo del ricorrente di contrastare il giudizio espresso dalla Corte di secondo grado sul comportamento processuale invocando il diritto di difesa non coglie nel segno. La libertà di difesa non è stata posta in discussione, ma legittimamente è stato ritenuto che il modo del suo esercizio non esprimesse lealtà processuale.

Ne consegue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Le spese sostenute dalla parte civile costituita vanno liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalla parte civile che liquida in Euro 6.000, oltre accessori di legge.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 17 settembre 2014.

Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2014