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Sentenza Knox: DNA, prova scientifica, omissioni e discutibili strategie investigative (Cass. 36080/15)

7 settembre 2015, Cassazione penale

In tema di indagini genetiche, l'analisi comparativa del DNA svolta in violazione delle regole procedurali prescritte dai Protocolli scientifici internazionali in materia di repertazione e conservazione dei supporti da esaminare, nonchè di ripetizione delle analisi, comporta che gli esiti di "compatibilità" del profilo genetico comparato non abbiano il carattere di certezza necessario per conferire loro una valenza indiziante, costituendo essi un mero dato processuale, privo di autonoma capacità dimostrativa e suscettibile di apprezzamento solo in chiave di eventuale conferma di altri elementi probatori.

Il processo penale è, costituzionalmente, proteso all'accertamento della verità materiale, anche attraverso una progressione cognitiva, che, emendata da possibili errores in procedendo od in iudicando, medio tempore intervenuti, pervenga al fine suo ultimo, in termini di approssimazione quanto più possibile a quell'obiettivo, rendendo alla collettività un risultato comunemente inteso "Verità processuale", ossia verità processualmente accertata (rectius, quella che è stato possibile accertare con gli ordinari strumenti gnoseologie ed inferenziali di cui dispone il giudicante). Il tutto, nell'ineludibile rispetto delle forme di rito, che rappresentano, pacificamente, massima espressione di civiltà giuridica e prestigioso distillato di un secolare processo di maturazione del sapere scientifico, tipico della cultura giuridica italiana.

L'attenzione mediatica, oltre a non giovare alla ricerca della verità, ha prodotto ulteriori riflessi pregiudizievoli, quanto meno in termini di "diseconomia processuale", ingenerando indebito "rumore" (nell'accezione informatica), non tanto sul versante della tardiva disponibilità alla testimonianza, da parte di determinate persone (considerato che in tal caso si tratta, pur sempre di verifica di attendibilità dei relativi contributi dichiarativi), quanto dell'irruzione nel processo di estemporanee propalazioni di soggetti detenuti, di collaudato spessore criminale, di certo non insensibili ad istanze di mitomania e di protagonismo giudiziario, capaci comunque di assicurare loro la ribalta anche televisiva, spezzando, almeno per un giorno, il grigiore del regime carcerario. Si è trattato, tra l'altro, di non inusuali rivendicazioni di "portatori" di verità raccolte in ambiente carcerario, in occasione di mal riposte confidenze di codetenuti, nella classica ora d'aria o della socialità.

L'indagine genetica - proprio in ragione del grado di affidabilità - ha piena valenza di prova, e non di mero elemento indiziario): nei casi in cui l'indagine genetica non dia risultati assolutamente certi, ai suoi esiti può essere attribuita valenza indiziaria.

Nell'ipotesi in cui si pongano in termini di identità, gli esiti dell'indagine genetica assumono rilievo probatorio, mentre in caso di mera compatibilità con un determinato profilo genetico, hanno rilievo meramente indiziario.

Quanto sopra a condizione però che consti che l'attività di repertazione, conservazione ed analisi del reperto siano state rispettose delle regole di esperienza consacrate dai protocolli in materia. Il che deve valere, a fortiori, anche nell'ipotesi minor, in cui le risultanze delle analisi non portino ad un esito di identità, ma di sola compatibilità.

Il principio della necessaria correttezza metodologica nelle fasi di raccolta, conservazione ed analisi dei dati esaminati, tale da preservarne integrità e genuinità, è stata affermata da questa Corte in Sez. F, n. 5 del 6.9.2012, Franchini, non massimata, sia pure in tema di prova informatica, sul rilievo che quei principi sono stati recepiti nel codice di procedura penale con la modifica dell'art. 244 cpp, comma 2 e la nuova fattispecie dell'art. 254 bis cit. codice, introdotte dalla L. 18 settembre 2008, n. 48.

 

Il dato di analisi genetica che si sia svolta in violazione delle prescrizioni dei protocolli in materia di repertazione e conservazione non può dirsi dotato dei caratteri della gravità e della precisione.

Ed infatti, cristallizzando i risultati di collaudate conoscenze, maturate in esito a ripetute sperimentazioni e significativi riscontri statistici di dati esperenziali, quelle regole compendiano gli standards di affidabilità delle risultanze dell'analisi, sia in ipotesi di identità, che di mera compatibilità con un determinato profilo genetico. Diversamente, al dato acquisito non potrebbe riconnettersi rilevanza alcuna, neppure di mero indizio (cfr. Sez. 2, n. 2476 del 27/11/2014, dep. 2015, Santangelo, Rv. 261866, sulla necessità della corretta conservazione dei supporti recanti le impronte genetiche, ai fini della "ripetibilità" degli accertamenti tecnici capaci di estrapolare il profilo genetico; ripetibilità peraltro dipendente dalla quantità della traccia e dalla qualità del dna presente sui reperti biologici in sequestro; id. n. 2476/14 cit. Rv 261867).

L'analisi del DNA su quantità esigue ("Low Copy Number") non consente di ripetere l'amplificazione, cioè  la procedura volta ad "evidenziare le tracce geniche di interesse sul campione", e dunque ad attribuire una traccia biologica ad un determinato profilo genetico.  In mancanza di verifica per ripetizione del dato di indagine, c'è da chiedersi quale possa essere la relativa valenza processuale, indipendentemente dal dibattito teorico sul rilievo più o meno scientifico delle risultanze dell'indagine compiuta su campioni tanto esigui o complessi, da non consentirne la ripetizione. E' convincimento di questa Corte che la verità scientifica, comunque elaborata, non possa essere, automaticamente, trasferita nel processo per tramutarsi, eo ipso, in verità processuale. Come si è già detto, la prova scientifica ha come ineludibile postulato la verifica affinchè le relative risultanze possano assumere rilevanza ed ambire al rango di "certezza"; giacchè, altrimenti, restano prive di affidabilità. Ma, indipendentemente dal rilievo scientifico, un dato non verificato, proprio perchè privo dei necessari connotati della precisione e gravità, non può conseguire, in ambito processuale, neppure la valenza di indizio.

Certo, in tale contesto, non è il nulla, da ritenere tamquam non esset. Ed infatti, è pur sempre un dato processuale, che, ancorchè privo di autonoma valenza dimostrativa, è comunque suscettivo di apprezzamento, quanto meno in chiave di mera conferma, in seno ad un insieme di elementi già dotati di soverchiante portata sintomatica.

Non è possibile conferire valore indiziario agli esiti dell'indagine genetica insuscettibili di amplificazione ovvero frutto di non ortodossa procedura di raccolta e repertazione.

All'impossibilità di attribuire apprezzabile rilievo dimostrativo, in chiave processuale, ad esiti di indagini genetiche non ripetute e divenute insuscettibili di ripetizione, per esiguità o complessità del campione, non è dato ovviare mediante il richiamo all'efficacia ed utilizzabilità degli accertamenti tecnici "irripetibili", ove, come nel caso di specie, siano state osservate le garanzie difensive di cui all'art. 360 cod. proc. pen. Ed infatti, le indagini tecniche cui si riferisce la menzionata norma processuale sono quelle che - per perspicua formulazione positiva - riguardano "persone, cose o luoghi il cui stato è soggetto a modificazione", insomma situazioni di qualsiasi tipo o genere che, per loro natura, sono mutevoli, sicchè si rende necessario cristallizzarne senza indugio lo stato già nella fase delle indagini preliminari, per tema di irriducibili modificazioni, con esito che, nel rispetto delle forme di rito, è destinato ad essere utilizzato anche in sede dibattimentale. Ciò è consentito in quanto l'accertamento da compiere, pure in caso di impossibilità di ripetizione per modifica della cosa da periziare, è capace di evidenziare realtà "compiute" od entità dotate di valenza dimostrativa. Nel caso di specie, nonostante l'osservanza delle forme di cui all'art. 360 codice di rito, il dato acquisito - non ripetuto o non suscettibile di ripetizione per una qualsiasi ragione - non può assumere rilievo nè probatorio nè indiziario, proprio perchè, secondo le menzionate leggi della scienza, necessitava di validazione o falsificazione. Insomma, nell'un caso il dato empirico, tempestivamente "fotografato", assume significatività dimostrativa; mentre nell'altro è privo di siffatta capacità, proprio perchè la sua valenza indicativa è indissolubilmente legata alla sua ripetizione o ripetibilità.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

(ud. 27/03/2015) 07-09-2015, n. 36080

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MARASCA Gennaro - Presidente -

Dott. BRUNO Paolo A. - rel. Consigliere -

Dott. GUARDIANO Alfredo - Consigliere -

Dott. PISTORELLI Luca - Consigliere -

Dott. POSITANO Gabriele - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.R., nato a (OMISSIS);

KNOX Amanda, nata a (OMISSIS);

avverso la sentenza della Corte d'assise d'appello di Firenze del 30 gennaio 2014;

visti gli atti, la sentenza impugnata ed i ricorsi;

udita la relazione del consigliere dr. Paolo Antonio BRUNO;

sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dr. PINELLI Stefano Maria, che ha concluso chiedendo l'annullamento senza rinvio per intervenuta prescrizione in ordine al capo B) della rubrica con rideterminazione della pena nella misura di anni ventotto e mesi sei di reclusione per Kn.Am. ed anni ventiquattro e mesi sei per S.R.;

sentiti, poi:

l'avv. PC, difensore della parte civile L.P., che ha chiesto il rigetto dei ricorsi, e la conferma della sentenza impugnata e delle statuizioni civili, come da conclusioni scritte e nota spese;

l'avv. FVC, difensore della parte civile famiglia K., che ha chiesto l'inammissibilità o, in subordine, il rigetto dei ricorsi e la conferma della sentenza impugnata come da conclusioni scritte, che ha depositato unitamente alla nota spese;

l'avv. FM, per le stesse parti civili, che ha concluso per la declaratoria di inammissibilità o, comunque, per il rigetto del ricorso, con condanna dei ricorrenti alle spese, come da conclusioni scritte e nota spese.

Sentiti, altresì:

l'avv. GL, per Knox Amanda, che si è riportato ai motivi del ricorso ed ai motivi nuovi, insistendo per l'accoglimento;

l'avv. Dalla Vedova Carlo, difensore della stessa Knox, che si è riportato al ricorso ed ai motivi aggiunti, concludendo per l'annullamento della sentenza impugnata; in via preliminare, chiedeva la sospensione del procedimento sino alla decisione sulla prospettata questione di legittimità costituzionale degli artt. 627-628 cod. proc. pen.; o, comunque in attesa della decisione della Corte Europea dei diritti dell'uomo.

Data l'ora tarda e la necessità di trattare gli altri procedimenti fissati per la stessa udienza, il Presidente rinviava all'udienza del 27 marzo 2015, per il prosieguo della discussione e per la deliberazione.

All'odierna udienza, sentiti gli avvocati BG e ML, che, nell'interesse di Sollecito Raffaele, si sono riportati ai motivi di ricorso, chiedendone l'accoglimento, la causa era trattenuta per la decisione.

Svolgimento del processo

1. S.R. e la cittadina statunitense K.A. M. erano chiamati a rispondere, innanzi alla Corte d'assise di Perugia, dei reati di seguito indicati:

A) ai sensi degli artt. 110 e 575, art. 576, comma 1, n. 5, in relazione al reato sub C) e art. 577, comma 1, n. 4, in relazione all'art. 61 c.p., nn. 1 e 5, per avere, in concorso tra loro e con G.R.H., ucciso K.M., mediante strozzamento e conseguente rottura dell'osso ioide e profonda lesione alla regione antero-laterale sinistra e laterale destra del collo, da arma da punta e da taglio di cui al capo B), e quindi choc meta emorragico con apprezzabile componente asfittica secondario al sanguinamelo (derivato dalle ferite da punta e taglio presenti nelle regioni antero-laterale sinistra e laterale destra del collo e dalla contestuale abbondante aspirazione di materiale ematico), e profittando dell'ora notturna e dell'ubicazione isolata dell'appartamento condotto in locazione dalla stessa K. e dalla stessa Kn., oltre che da due ragazze italiane ( R. F. e M.L.), appartamento sito in (OMISSIS), commettendo il fatto per motivi futili, mentre il G., con il concorso degli altri, commetteva il delitto di violenza sessuale;

B) ai sensi dell'art. 110 cod. pen. e L. n. 110 del 1975, art. 4 per avere, in concorso tra loro, portato fuori dell'abitazione del S., senza giustificato motivo, un grosso coltello da punta e taglio lungo complessivamente cm 31 (sequestrato al S. il 6 novembre 2007, rep. 36);

C) ai sensi degli artt. 110 e 609 bis c.p. e art. 609 ter c.p., n. 2 per avere, in concorso tra loro e con G.R.H. (il G. esecutore materiale, in concorso con i coimputati) costretto K.M. a subire atti sessuali, con penetrazione manuale e/o genitale, mediante violenza e minaccia, consistite in manovre di costrizione produttive di lesioni, in particolare agli arti superiori e agli arti inferiori e in zona vulvare (soffusioni ecchimotiche alla faccia anteriore della coscia sinistra, lesioni nell'area vestibolare in sede vulvare e area ecchimotica alla faccia anteriore terzo medio della gamba destra) nonchè nell'utilizzo del coltello sub B;

D) ai sensi degli artt. 110 e 624 cod. pen. perchè, in concorso tra loro, per procurarsi un ingiusto profitto, nelle circostanze di tempo e di luogo di cui ai capi A) e C), si impossessavano della somma di Euro 300,00 circa, di due carte di credito, della Abbey Bank e della Nationwide, entrambe del Regno Unito, e di due telefoni cellulari appartenenti a K.M., sottraendoli alla stessa che li deteneva; fatto da qualificare ai sensi dell'art. 624 bis cod. pen., stante il riferimento al luogo di esecuzione del reato contenuto nel capo A) qui richiamato;

E) ai sensi degli artt. 110 e 367 c.p. e art. 61 c.p., n. 2 per avere, in concorso tra loro, simulato il tentato furto con effrazione nella camera dell'appartamento di (OMISSIS), abitata da R.F., rompendo il vetro della finestra con una pietra prelevata dalle vicinanze dell'abitazione che veniva lanciata nella stanza, vicina alla finestra, il tutto per assicurarsi l'impunità dei delitti di omicidio e di violenza sessuale, tentando di attribuirne la responsabilità a sconosciuti penetrati, a tal fine, nell'appartamento;

fatti tutti avvenuti in (OMISSIS).

La sola Kn., inoltre, del reato del reato di cui al capo F), ai sensi dell'art. 81 cpv c.p., art. 368 c.p., comma 2 e art. 61 c.p., n. 2 perchè, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, sapendolo innocente, con denuncia sporta nel corso delle dichiarazioni rese alla Squadra Mobile ed alla Questura di Perugia in data 6 novembre 2007, incolpava falsamente L.D. detto " P." del delitto di omicidio in danno della giovane K. M., il tutto al fine di ottenere l'impunità per tutti ed in particolare per G.R.H., anch'egli di colore come il L.; in (OMISSIS).

Con sentenza del 4-5 dicembre 2009, la Corte d'assise dichiarava Kn.Am.Ma. e S.R. colpevoli di reati loro ascritti al capo A) - in detto reato assorbito il delitto contestato alla lettera C) - nonchè ai capi B) e D), limitatamente ai telefoni cellulari, ed E) e, per quanto riguarda la Kn., anche del reato ascrittole sub F); reati tutti unificati con il vincolo della continuazione e, escluse le aggravanti di cui all'art. 577 c.p. e art. 61 c.p., n. 5, ad entrambi concesse le attenuanti generiche equivalenti alla residua aggravante, li condannava alla pena di anni ventisei di reclusione la Kn. ed alla pena di anni venticinque di reclusione il S., oltre consequenziali statuizioni;

condannava, inoltre, gli stessi imputati, in solido tra loro, al risarcimento dei danni nei confronti delle costituite parti civili K.J.L., K.A.C.L., K.L., K.J.A. e K.S.A.L., danni da liquidarsi in separata sede, con assegnazione di provvisionale immediatamente esecutiva pari a Euro 1.000.000,00 ciascuno in favore di K.J.L. e K.A.C.L. e di Euro 800.000,00 ciascuno in favore di K.L., K.J. A. e K.S.A.L.;

condannava, altresì, Kn.Am.Ma. al risarcimento dei danni nei confronti della parte civile L.P., da liquidarsi in separata sede, con assegnazione di provvisionale immediatamente esecutiva di Euro 10.000,00, oltre consequenziali statuizioni;

condannava, infine, la stessa Kn. e S.R. al risarcimento dei danni nei confronti della parte civile T. A.d. (proprietaria dell'alloggio di (OMISSIS)), da liquidarsi in separata sede, e di K.L., K.J. A. e K.S.A.L., con assegnazione di provvisionale immediatamente esecutiva.

Pronunciando sui gravami proposti dagli imputati, la Corte di assise d'appello di Perugia, con sentenza del 3 ottobre 2011, dichiarava Kn.Am.Ma. colpevole del reato di cui al capo F), esclusa l'aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 2, e - riconosciute le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti di cui al comma secondo dell'art. 368 cod. pen. - la condannava alla pena di anni tre di reclusione; confermava limitatamente a tale capo le statuizioni civili;

assolveva gli imputati dai reati loro ascritti ai capi A) B) e D), per non aver commesso il fatto, e dal reato di cui al capo E) perchè il fatto non sussiste, respingendo la domanda proposta nei loro confronti dalla parte civile T.A.d..

Pronunciando sui ricorsi proposti dal Pg di Perugia, dall'imputata Kn.Am.Ma. e dalle parti civili, questa Corte di Cassazione, Prima Sezione Penale, con sentenza del 25 marzo 2013, annullava la sentenza impugnata limitatamente ai reati di cui ai capi A) - in esso assorbito il capo C) - B), D) ed E) ed all'aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 2 riguardo al capo F) e rinviava per nuovo esame alla Corte d'assise di appello di Firenze; rigettava il ricorso della Kn., con consequenziali statuizioni.

Pronunciando in sede di rinvio la Corte d'assise di Firenze, con la sentenza indicata in epigrafe, ritenuta la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 2, relativamente al delitto di cui all'art. 368 c.p., comma 2, sub F), rideterminava la pena inflitta ad Kn.Am.Ma. in complessivi anni ventotto e mesi sei di reclusione; confermava nel resto la sentenza di primo grado, con le consequenziali statuizioni anche in favore delle costituite parti civili.

Avverso l'anzidetta pronuncia i difensori degli imputati hanno proposto distinti ricorsi per cassazione, ciascuno affidato alle ragioni di censura di seguito indicate.

2. Il ricorso in favore di Kn.Am.Ma. faceva precedere, all'esposizione dei numerosi motivi in cui si articolava, una lunga premessa che, per un verso, anticipava le linee ispiratrici dell'intera impugnativa e, per altro verso, riproponeva problematiche già agitate in sede di gravame, come la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell'art. 627, comma 3 e art. 628, comma 2, sul riflesso della possibile "ripetitività all'infinito" del giudizio di rinvio da parte della Cassazione e pedissequa ricorribilità delle pronunce rescissorie.

Sotto il primo profilo si prospettava il tema contestativo di fondo dell'intera impugnativa, rappresentato dalla pretesa elusione del dictum della pronuncia rescindente di questa Corte di legittimità e della divergente lettura dello stesso materiale probatorio da parte di due diverse corti d'assise, di Perugia e di Firenze, quest'ultima, peraltro, sulla base di mero esame cartolare.

Si passava, poi, all'analitica indicazione di circostanze fattuali od evidenze processuali che non sarebbero state congruamente valutate ovvero, indebitamente, apprezzate in modo parcellizzato e non già in prospettiva unitaria e globale.

Tanto premesso, erano quindi dedotti diversi motivi di ricorso, che si va ad esporre sinteticamente, nei termini prescritti dall'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1, ossia nei limiti strettamente necessari per la decisione.

Con il primo si denuncia violazione od inosservanza della legge penale, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b) e c) nonchè difetto di motivazione, ai sensi dello stesso art., lett. e), sul punto decisivo dell'asserito movente della Kn. nella commissione del grave reato, in violazione dell'art. 110 cod. pen..

Si contesta, in proposito, quanto ipotizzato nelle sentenze di merito, in ordine ad asseriti dissapori esistenti tra la ricorrente e la K., nonostante l'intervenuta assoluzione, con pronuncia definitiva sul punto, in ordine alla sottrazione della somma di trecento euro e le raccolte testimonianze, tra cui quella di Z. M., in merito ai rapporti "idilliaci" tra te due ragazze. Dagli atti di causa non era emerso alcun movente, che potesse avere indotto la Kn. a consapevole concorso in azione omicidiaria e, contrariamente all'assunto del giudice a quo, l'accertamento del movente nei processi indiziari era assolutamente necessario. Nessuna indicazione al riguardo era stata offerta dal giudice del rinvio, pur a fronte della specifica indicazione della pronuncia rescindente, che aveva segnalato una triplice possibilità: 1) accordo genetico sull'opzione di morte; 2) modifica di un iniziale programma che contemplava solo il coinvolgimento della giovane inglese in un gioco sessuale non condiviso; 3) mera forzatura di un gioco erotico di gruppo.

Non solo, ma su uno scenario di assoluta incertezza i giudici del rinvio avevano elaborato un'anomala figura concorsuale, frutto di singolare commistione di impulsi e moventi diversi in capo ai partecipanti: il G., indotto da una motivazione sessuale; la Kn., da risentimento nei confronti dell'inglese; il S. da ignoto intendimento.

Il secondo motivo pone un problema di grande momento nell'economia del presente giudizio, ossia la corretta lettura degli esiti degli accertamenti scientifici, nell'ottica del rispetto dei canoni di valutazione di cui all'art. 192 cod. proc. pen. e della valenza degli esiti di perizia genetica in mancanza di "amplificazione", stante l'esigua entità del reperto e, più in generale, il coefficiente di affidabilità di indagini effettuate senza il rispetto delle prescrizioni dettate dai protocolli internazionali, sia nella fase della repertazione che dell'analisi.

In particolare, denuncia le anomalie nella reputazione del coltello (rep. 36) e del gancetto del reggiseno della vittima, tali da non poter escludere il rischio di contaminazione, così come correttamente ritenuto nella perizia C. - V. disposta dalla Corte di assise perugina, che si era anche espressa per l'inattendibilità del dato scientifico, proprio perchè non suscettivo di nuovo esame.

Si contesta, inoltre, che il coltello repertato fosse arma del delitto.

Con il terzo motivo si denuncia violazione di legge e difetto motivazionale, ai sensi dell'art. 606, lett. b) ed e), in ordine al nesso teleologico tra il reato di calunnia e l'omicidio. Si rappresentano, in proposito, le condizioni psicologiche in cui versava l'imputata al momento delle calunniose dichiarazioni del 6.11.2007, ritenute peraltro inutilizzabili da questa Corte (con sentenza n. 990/88), lamentandosi peraltro violazione dell'art. 188 cod. proc. pen., per lesione della libertà morale della dichiarante nell'assunzione della prova.

Con il quarto motivo si deduce difetto motivazionale su profili rilevanti della vicenda di fatto, con riferimento, in primo luogo, all'asserita simulazione del furto nella stanza della R., senza considerare che il G., al momento dell'arresto, presentava ferite alla mano destra compatibili con l'ipotesi della previa rottura dei vetri della finestra e della successiva arrampicata per entrarvi, con cocci di vetro disseminati sul davanzale, così come non si era tenuto conto dei precedenti dello stesso G., non nuovo ad azioni furtive in appartamenti, con identiche modalità. Non era stato, poi, considerato che nessuna impronta genetica, riferibile all'imputata, era stata rinvenuta nella stanza dell'omicidio, mentre ne erano state reperiate ben quattordici riferibili al G..

Era del tutto illogico l'argomento relativo ad una pretesa pulizia selettiva degli ambienti da parte dell'imputata, essendo pressochè impossibile la rimozione di determinate tracce genetiche, lasciandone altre.

Con il quinto motivo si denuncia difetto motivazionale con riferimento alla valutazione delle testimonianze Cu. e Q., non adeguatamente apprezzate nei loro reali contenuti.

Si deduce, poi, che era stato illogicamente attribuito rilievo allo sms ricevuto da L.P., essendovi incertezza sul luogo della ricezione, stante la nota inaffidabilità della localizzazione sulla base dell'aggancio alle celle telefoniche.

Con il sesto motivo si denuncia violazione di legge, in riferimento all'utilizzazione di atti pur ritenuti inutilizzabili da questa Corte, con particolare riferimento alle dichiarazioni dell'imputata contra se delle ore 5,45 del 6.11.2007.

Inoltre, non si era tenuto conto che il memoriale redatto dalla stessa Kn. risentiva delle precarie condizioni psicologiche in cui versava, anche per lo stress conseguente alla subita violazione dei diritti di difesa.

Con il settimo motivo si eccepisce violazione dell'art. 111 Cost., comma 2 e art. 238 cod. proc. pen., con riferimento alla valutazione della sentenza irrevocabile emessa a carico del G. ed all'inadeguato apprezzamento delle dichiarazioni da questi rese, via skype, all'amico B.G..

Con l'ottavo motivo, si denuncia mancata assunzione di prova decisiva, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. d), in relazione all'art. 111, comma 2 e art. 238 bis cod. proc. pen., per mancata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, negata con ordinanza 30.9.2013, ai fini dell'escussione del G., dopo le accuse a carico dell'imputata.

Il nono motivo segnala incongruenze o contraddittorietà motivazionali nonchè gravi inesattezze, come l'affermazione a foglio 321 in ordine alle presenze di tracce genetiche di S. e K. sul coltello repertato.

Si deduce, poi, che il luogo ove erano stati rinvenuti i cellulari sottratti alla vittima era compatibile con il tragitto del G. in direzione di casa sua, ubicata in (OMISSIS).

Inadeguata, inoltre, era la valutazione delle risultanze della perizia del prof. B.M. sul danneggiamento dei computer, da verosimile shock elettrico.

Con il decimo motivo si denuncia inosservanza od erronea applicazione degli artt. 627 e 603 cod. proc. pen., con riferimento alle ordinanze dibattimentali 30.9.13 e 17.4.14.

Si chiede, inoltre, la correzione dell'errore materiale contenuto nell'ordinanza 17.4.13, con riferimento all'erronea indicazione del luogo di nascita dell'imputata, che era nata a (OMISSIS) e non a (OMISSIS).

Con l'undicesimo motivo si deduce violazione ed inosservanza dell'art. 606, lett. b), in relazione alla quantificazione della pena in punto aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 2 del reato di calunnia contestato per assunto nesso teleologia).

Il giudice del rinvio aveva ritenuto subvalenti le generiche, prima ritenute equivalenti, nonostante il giudicato sul punto.

3. Il ricorso in favore di S.R. è affidato a ventidue motivi, che vengono pur essi esposti sinteticamente, nei termini prescritti dal menzionato art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1.

A tale pur sintetica enunciazione occorre premettere il riferimento alla parte introduttiva, contenente specifiche richieste.

La prima riguarda l'istanza di rimessione alle Sezioni Unite di questioni asseritamente di massima rilevanza e, potenzialmente, capaci di ingenerare contrasto interpretativo:

a) Valenza probatoria od indiziaria dei risultati della prova scientifica in caso di violazione dei protocolli internazionali della comunità scientifica in ordine alla repertazione e lettura dei dati;

b) Utilizzabilità dichiarazioni rese dal G. nel processo di appello. Al riguardo, sarebbe improprio il richiamo della sentenza impugnata a quanto da lui riferito in sede di interrogatorio, riportate nella sentenza acquisita ai sensi dell'art. 238 bis; se quelle dichiarazioni fossero utilizzabili, sarebbe consentito veicolare nel processo, in violazione della stessa disposizione processuale, dichiarazioni rese in assenza di contraddittorio.

c) Ambito di esplicazione del principio dell'oltre il ragionevole dubbio, che, a dire della difesa ricorrente, sarebbe violato nel caso di specie a fronte dell'erronea affermazione del giudice del rinvio secondo cui la mancanza di collaborazione processuale dell'imputato avrebbe esentato il giudice dal percorrere ed analizzare le ipotesi alternative emergenti dagli atti o dalle prospettazioni difensive.

d) Limiti di attendibilità di dichiarazioni testimoniali (quali quelle di Dr., M., Q. e Cu.), rese a distanza di tempo dai fatti, a seguito di sollecitazioni di giornalisti. Il quesito di diritto è quello della verifica dell'affidabilità di testimoni nei procedimenti a forte impatto mediatico, con particolare riferimento ai testi Gi. e Ko. ed alla deposizione del pluripregiudicato A. L., che non aveva esitato a rendere dichiarazioni calunniose nei confronti del Pm, del difensore e del padre di S. R..

L'intervento del massimo consesso giurisdizionale era necessario perchè fossero fissati i parametri valutativi delle prove orali nei processi a foltissima esposizione mediatica, al fine di preservare la credibilità del processo, ponendolo al riparo da forme di mitomania o di protagonismo giudiziario.

Nella parte introduttiva viene, poi, diffusamente esaminata anche la posizione di Kn.Am. sul riflesso che l'erronea valutazione delle prove a suo carico aveva finito per riverberare i suoi effetti negativi anche sulla posizione del S., nel distorto convincimento che le due posizioni sostanziali fossero avvinte da un vincolo indissolubile, quasi in singolare sistema di vasi comunicanti o di anomala estensione "solidaristica" di responsabilità. Tutto ciò per denunciare l'erronea impostazione metodologica consistente nella mancanza di una "individualizzante" valutazione del ruolo del ricorrente nella tragica vicenda oggetto di giudizio. E l'anzidetto rilievo dava l'abbrivio ad un'ulteriore denuncia di legittimità, consistente nell'elusione del dictum della sentenza di annullamento, che aveva demandato al giudice del rinvio il compito di "delineare la posizione soggettiva dei concorrenti del G. a fronte del ventaglio di situazioni ipotizzabili", tutte specificamente enunciate.

Si segnala, poi, che la Kn. non aveva mai collocato, neanche nel memoriale a sua firma (erroneamente ritenuto di contenuto confessorio), il S. sulla scena del delitto. Anzi dal detto memoriale era dato evincere che quest'ultimo non era presente nella casa di (OMISSIS).

D'altronde, nessuna traccia dello stesso S. era stata rinvenuta nella stanza dell'omicidio. Il solo elemento indiziario a suo carico era rappresentato dalla traccia di dna rinvenuta sul gancetto del reggiseno della vittima; traccia la cui riferibilità allo stesso imputato era stata, tuttavia, esclusa dalla perizia V. - C., che, sul punto, aveva recepito le osservazioni del consulente di parte, prof. Ta., genetista di fama mondiale.

Tanto premesso, si può ora procedere alla sommaria indicazione delle numerose ragioni di censura.

1) Con il primo, articolatissimo motivo, si denuncia violazione dell'art. 627 c.p.p., comma 3 e art. 628 cod. proc. pen., per inosservanza dei principi di diritto enunciati nella sentenza rescindente, con particolare riferimento alla necessità: a) di accertare la presenza degli imputati nel luogo del delitto; 2) di delineare la posizione soggettiva dei presunti concorrenti di G. R.; 3) di stabilire il movente delittuoso di S.R. in rapporto a quello definitivamente accertato in capo al G..

In rapporto di stretta connessione con l'anzidetta censura vengono, poi, dedotti ulteriori profili di doglianza, specificamente calibrati nella logica del difetto motivazionale, a mente dell'art. 606 c.p.p., lett. e), strettamente correlato alla denunciata elusione.

- Il primo attiene al contestato diniego della rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, espresso anche nell'ordinanza del 30 settembre 2013, pur essa impugnata. L'istanza ritualmente proposta dalla difesa (nei motivi nuovi del 29 giugno 2013 e nelle note d'udienza del 30 settembre 2013) era intesa ad accertare l'effettiva presenza degli imputati nel luogo del delitto ed il ruolo da ciascuno svolto nell'occasione.

Si deduce poi:

- omessa valutazione di elementi decisivi ai fini dell'alibi del S., con particolare riferimento al risultati dell'integrazione della c.t.p. D., dimostrativa dell'interazione dell'imputato al computer di sua proprietà;

- manifesta illogicità della motivazione in riferimento alla prescrizione dell'art. 533 cod. proc. pen.; in mancanza di un corredo motivazionale capace di superare il limite dell'oltre il ragionevole dubbio in ordine alla ritenuta partecipazione del S. all'azione omicidiaria ed al ruolo da lui svolto nella vicenda;

- difetto motivazionale, in rapporto agli artt. 192 e 238 bis, con riguardo al contenuto della sentenza irrevocabile a carico del G. in ordine all'individuazione del movente omicidiaro.

Illogicamente era stata negata la reclamata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, volta a dimostrare l'assenza dell'imputato dal luogo del delitto e l'inesistenza di un qualsiasi movente, tanto più che l'acquisita sentenza aveva già accertato un autonomo movente, a sfondo sessuale, in capo al G..

Oltretutto, il diniego della rinnovazione istruttoria integrava anche violazione di legge, ai sensi dell'art. 627, comma 2, a mente del quale "se è annullata la sentenza di appello e le parti ne fanno richiesta, il giudice dispone la rimozione dell'istruttoria dibattimentale per l'assunzione delle prove rilevanti per la decisione".

Anche a non voler seguire l'orientamento giurisprudenziale in ordine al carattere dovuto della rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello, alla stregua del diritto alla prova, il giudice del rinvio era, comunque, tenuto a motivare il diniego della richiesta di integrazione probatoria in modo razionale e coerente con il quadro istruttorio.

Era stata, tra l'altro, richiesta una perizia genetica sulla macchia (apparentemente spermatica) presente sulla federa del cuscino della vittima, al fine di verificarne natura ed attribuibilità ad eventuali terzi rimasti ignoti; una perizia diretta a stabilire l'effettiva possibilità di eseguire una pulizia mirata alla rimozione delle sole tracce riferibili agli imputati odierni ricorrenti, all'interno della stanza della vittima, senza rimuovere quelle repertate ed esattamente attribuite al G.;

l'effettuazione di accertamenti genetici sul reperto 165 B, previa acquisizione presso i laboratori della polizia scientifica, del residuo di dna estratto dal gancetto di reggiseno ed ulteriori accertamenti genetici sullo stesso reperto, disponendo all'uopo un supplemento di indagine al fine di eliminare ogni ragione di dubbio al riguardo; accertamenti sulla pietra rinvenuta nella stanza della R., al fine di individuare la presenza di dna sulla superficie del sasso; perizia audiometrica volta ad accertare la possibilità di sentire il presunto urlo straziante proveniente dalla casa di (OMISSIS) e il rumore dei passi a finestre chiuse, da parte della teste Ca.; perizia informatica sul computer del S., al fine di verificare l'esistenza di interazioni umane nella notte tra l'(OMISSIS); perizia antropometrica, avente ad oggetto l'esame della corporatura, dell'altezza, dell'andatura e dei caratteri somatici del soggetto ripreso dalle telecamere al bivio del parcheggio, per il necessario raffronto con le caratteristiche fisiche del G. e del suo abbigliamento al momento dell'arresto; esame ex art. 197 bis del G. in ordine ai fatti avvenuti la notte dell'omicidio.

Il rigetto delle anzidette richieste istruttorie era stato motivato dal giudice a quo in modo nient'affatto logico e pertinente.

2) Violazione art. 606, lett. e), con riferimento all'erronea lettura ed interpretazione del contenuto del memoriale Kn..

3) Altro vizio motivazionale viene dedotto con riferimento alla ritenuta irrilevanza dell'esatta determinazione dell'ora della morte di K.M. (che secondo la difesa avrebbe dovuto essere collocata tra le ore 21 e 22, al massimo 22,15), specie in riferimento all'esame del tabulato telefonico delle utenze della stessa K..

4) Identico vizio viene lamentato quanto alla pretesa inconciliabilità della testimonianza Cu., all'ora dell'urlo ed all'asserita irrilevanza di accertamenti sulla precisa ora della morte della giovane inglese.

5) Distorta era anche la lettura della testimonianza Ca., di cui viene allegata la relativa trascrizione.

6) Nell'ottica del difetto motivazionale, apprezzabile secondo la nuova formulazione dell'art. 606 c.p.p., lett. e), viene poi lamentata l'erronea lettura delle dichiarazioni testimoniali del Cu..

7) Lo stesso quanto alla testimonianza Q. ed all'omessa valutazione del contributo testimoniale dell'ispettore Vo., che aveva redatto la nota di servizio secondo cui lo stesso Q. aveva riferito di aver visto S. e A. sempre assieme.

8) In riferimento al combinato disposto dell'art. 606, lett. e) e art. 192 codice di rito viene, poi, lamentata erronea valutazione della prova in funzione dell'ipotizzato concorso di persone nel reato, con particolare riferimento al contestato apprezzamento delle orme del piede ed alle tracce evidenziate dal luminol.

9) Viene, quindi, denunciato travisamento della prova riguardo all'orario della chiamata al 112, sul rilievo anche di un preteso errore nel timer della telecamera collocata in prossimità del parcheggio.

10) Identica violazione viene dedotta con riferimento alla pretesa alterazione della scena del delitto da parte dei due imputati.

11) Altro profilo di deficit motivazionale, sub specie del travisamento ed anche della contraddittorietà o manifesta illogicità di motivazione, viene lamentato, in riferimento all'art. 192 cod. proc. pen., riguardo alla ritenuta falsità dell'alibi offerto ed alla relativa violazione del principio nemo tenetur se detegere.

D'altronde, si sarebbe semmai trattato di alibi "fallito", e non già "falso", come tale inidoneo a sorreggere la "deduzione indiziaria", a pena di inammissibile inversione dell'onere della prova.

12) Erronea era anche la lettura delle risultanze della prova genetica sul reperto 36) e sulla presunta compatibilità dell'arma sequestrata con la più grave lesione riscontrata al collo della vittima. Al riguardo, era evidente il travisamento nel quale era incorso il giudice a quo, dato che sulla lama del coltello non era stato rivenuto dna misto K. - S.. Sullo stesso utensile erano state trovate tracce di amido, prova che non era vero che fosse stato lavato accuratamente, per rimuovere tracce compromettenti. Inoltre l'amido, presente nei vegetali, è notoriamente dotato di capacità assorbente, quindi avrebbe dovuto assorbire sangue ove fosse stato usato per commettere l'omicidio.

Donde, la motivata richiesta di rimessione degli atti alle SU. Inoltre l'assunto che la ferita più grave alla parte sinistra del collo della vittima potesse essere stata inferta con un solo colpo era smentito da univoche emergenze probatorie, ossia dalle risultanze della perizia medico-legale Ci., oltrechè dalle conclusioni del consulente di parte I..

13) La motivazione della sentenza impugnata era criticabile anche con riferimento all'asserita disponibilità del coltello da cucina da parte di Kn.Am. al momento dell'aggressione. In proposito, era illogico argomentare che il coltello da cucina, usato per l'omicidio, non fosse stato occultato, in quanto arredi ed utensili dell'abitazione affittata dal S. erano repertati, sicchè il mancato rinvenimento del coltello avrebbe potuto ingenerare sospetti, donde la necessità della ricollocazione al suo posto, previa pulitura.

Palesemente illogica era la motivazione anche in ordine al porto del coltello da parte della Kn., con asserito utilizzo della capiente borsa in suo possesso, per ipotizzate ragioni di difesa personale, all'uopo indotta dallo stesso S. che aveva sicura dimestichezza con i coltelli. Non si era tenuto conto che, a tutto concedere, a ritenere vera una giustificazione siffatta, si escludeva al tempo stesso, l'ipotesi del concorso, in quanto si ammetteva che l'imputata era da sola e non avrebbe potuto avvalersi, in caso di aggressione di sconosciuti, della possibile difesa del fidanzato.

Nessuna prova vi era, comunque, sul preteso concorso del ricorrente nel porto ingiustificato di coltello.

14) Vistoso era, poi, il difetto motivazionale sulle risultanze delle indagini genetiche sul gancetto, in ordine alle quali era stata richiesta la rimessione degli atti alle Sezioni Unite.

Quanto alla possibile contaminazione del reperto, i giudici di appello avevano trascurato il materiale fotografico versato in atti, che dimostrava chiaramente il possibile inquinamento, per il modo con cui il gancetto era stato trattato, con il passaggio di mano in mano da persone che indossavano guanti di lattice sporchi.

Peraltro, sul gancetto non era stata fatta una seconda amplificazione nonostante fosse disponibile metà dell'estratto, rimasta però di fatto inutilizzata.

Inoltre, il gancetto, pur notato nel corso del primo sopralluogo della polizia scientifica, era stato lasciato a terra, sul pavimento, e lì era rimasto per diverso tempo. Non era vero, peraltro, che tra il primo accesso e quello nel corso del quale il gancetto era stato, alla fine, repertato, vi sarebbero stati due soli sopralluoghi degli inquirenti, che in realtà erano stati più numerosi ed in tali occasioni tutto era stato messo a soqquadro.

Al riguardo, non si era tenuto conto dei rilievi difensivi e delle contrarie conclusioni del consulente di parte prof. Ta..

15) Vi era stato travisamento della prova anche In ordine all'effettiva consegna dei s.a.l. relativi agli accertamenti compiuti dalla dottoressa St.Pa., della polizia scientifica.

16) Altro profilo di doglianza afferente al contesto motivazionale riguarda la pretesa simulazione del furto nella stanza della R. e la carenza di motivazione riguardo ai motivi nuovi di cui alla memoria del 29.7.2013.

In proposito, si deduce che era stato lo stesso S. a segnalare alla polizia postale, giunta in casa di (OMISSIS) per altra ragione (il rinvenimento dei cellulari della K., uno dei quali recanti la scheda telefonica intestata alla R.), la stranezza della situazione, per il fatto che dalla stanza della coinquilina di K. e Kn. non fossero stati sottratti computers ed oggetti di valore; che non si era tenuto conto delle testimonianze dell'avv. Br.Pa. e di P.M., indicate nei motivi nuovi, riguardanti furti commessi da G. con modalità analoghe a quelle che sarebbero state usate per l'introduzione nell'abitazione di (OMISSIS); che non erano state esaminate le memorie difensive, anche nella parte relativa alle ferite al palmo della mano che G. presentava al momento dell'arresto in (OMISSIS); che la prova era stata travisata con riferimento alla collocazione dei vetri, posto che dalle raccolte testimonianze risultava che frammenti di vetro si trovavano sia sopra che sotto le cose presenti nella camera della R.; che, oltretutto, un frammento di vetro era stato rinvenuto anche nella stanza di M., segno che chi si era furtivamente introdotto aveva portato con sè quel frammento. Era, dunque, evidente che la sentenza impugnata si fondava su mere congetture, del tutto avulse dalla realtà processuale.

17) Si lamenta, poi, violazione dell'art. 238 bis cod. proc. pen., sul riflesso che attraverso l'acquisizione delle sentenze irrevocabili emesse nei confronti del G. si era inteso rendere utilizzabili dichiarazioni rese contra alios in diverso contesto processuale, benchè quelle dichiarazioni fossero state rese nell'assenza delle persone incolpate. Al di là di tale questione, anche in ordine alla quale era stata sollecitata la rimessione alle Sezioni Unite, le dichiarazioni del G. erano state erroneamente valutate, in violazione dei parametri dettati dall'art. 192 cod. proc. pen. e delle indicazioni di questa Corte (p. 57). Era vero che quelle dichiarazioni erano state addotte come mero riscontro, ma si trattava pur sempre di dichiarazioni inutilizzabili. Del resto, le sentenze che lo riguardavano, anche di legittimità, dimostravano l'assoluta inattendibilità del G..

18) Altra violazione dell'art. 238 bis cod. proc. pen. era denunciata con riferimento alla ritenuta efficacia vincolante del giudicato esterno.

19) Sempre in ordine alle dichiarazioni del G., la relativa utilizzazione integrava violazione dell'art. 111 Cost., art. 526 c.p.p., comma 1 bis e art. 6 Convenzione Europea. Ed anche sul punto era stata sollecitata la rimessione della questione alle Sezioni Unite.

20) Ove non fosse stata condivisa tale impostazione, era prospettata questione legittimità costituzionale delle norme che consentivano di bypassare i divieti normativi, in ordine all'utilizzabilità di dichiarazioni eteroaccusatorie in mancanza delle persone incolpate, mediante la mera acquisizione di sentenze irrevocabili emesse nei confronti del dichiarante e recanti le relative propalazioni contra alios.

21) Un deficit motivazionale viene eccepito anche in ordine all'ipotizzato tentativo di inquinamento probatorio in appello, pure al di là della formulazione dubitativa espressa al riguardo.

22) Mancava la motivazione anche in ordine all'aggravante della violenza sessuale.

23) Lo stesso poteva ritenersi quanto al ritenuto furto dei cellulari appartenuti alla vittima.

24) Palese, inoltre, era la violazione del principio dell'oltre il ragionevole dubbio, anche in ragione dell'omesso esame di soluzioni alternative.

Si lamenta, infine, omessa motivazione su possibile derubricazione della fattispecie dell'omicidio in meno gravi fattispecie del favoreggiamento o dell'omicidio preterintenzionale nonchè sull'applicazione di attenuanti.

4.1 difensori di entrambi gli imputati hanno poi proposto motivi nuovi.

4.1. In favore della Kn. sono stati dedotti due ulteriori motivi.

Con il primo si eccepisce violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. a), b) ed e), criticando l'intero processo motivazionale della sentenza impugnata, che eccedeva l'ambito fissato dalla pur esorbitante pronuncia rescindente, con violazione dell'art. 627, comma 3 e art. 623, codice di rito. Si critica, in particolare, l'anomala impostazione nel merito della stessa sentenza di annullamento.

Con il secondo motivo aggiunto si denuncia contraddittorietà e manifesta illogicità motivazione in relazione, all'art. 533 cod. proc. pen..

Si propone, infine, istanza di rinvio del processo in attesa della decisione della Corte Europea dei diritti dell'uomo, a seguito della presentazione all'organo di giustizia, sopranazionale del ricorso del 22.11.2013, per pretesa violazione del diritto ad un equo processo, ai sensi dell'art. 6 par. 3 lett. a/c CEDU; per violazione del diritto di difesa, ai sensi dell'art. 48 par. 2 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea; e per violazione del divieto della tortura, di cui agli artt. 3 CEDU e 4 della Carta dei Diritti Fondamentali UE. 4.2. Anche la difesa del S. ha proposto motivi nuovi, come di seguito compendiati.

Con il primo si lamenta difetto di motivazione sull'orario della morte della K.. A dire del difensore, l'attento esame di elementi oggettivi avrebbe consentito di fissare l'orario della morte in un arco temporale compreso tra le ore 21-21,20 e le 22,13.

L'esatta determinazione dell'exitus era fondamentale ai fini dell'accertamento della reale presenza degli imputati sulla scena del delitto, al momento dell'aggressione.

In particolare, l'esame del cellulare della vittima rivelava successivi contatti tra le ore 21 e le 22.13, come dalla consulenza Pe. su sms e sull'anzidetto apparecchio telefonico. Il che avrebbe consentito di acquisire - se non la certezza dell'esistenza in vita della giovane inglese sino alle 22,13, stante la possibilità di contatti accidentali - quantomeno utili indicazioni al riguardo.

Più precisamente, risultavano i seguenti contatti nell'arco di tempo in considerazione:

1) una prima chiamata, alle 20,56, al numero di casa sua, in Inghilterra, rimasto senza risposta e, insolitamente, non seguita da nuova chiamata, date le abitudini della ragazza, solita telefonare, quotidianamente, ai suoi familiari;

2) altro contatto, forse accidentale, alle 21,50, ad una segreteria telefonica, durato pochi secondi, senza attendere risposta;

3) un contatto, alle 22, alla banca inglese Abbey, ovviamente fallito perchè non preceduto da prefisso internazionale;

4) alle 22,13, un sms viene ricevuto dal cellulare, però nel luogo ove era stato abbandonato, in (OMISSIS).

D'altro canto, l'esame del computer del S. riscontava un'interazione alle 21,20 e poi una successiva alle 21,26 scoperta non dalla polizia postale, ma dal consulente di parte D. con impiego di altro sistema applicativo, MAC), per la visione di un cartone animato ((OMISSIS)) della durata di 20 minuti, a dimostrazione che sino alle 21,46 il S. stava a casa sua.

Il che valeva a dimostrare l'estraneità dell'imputato, evidente anche alla luce del contatto skype intercorso tra il G. ed il suo amico B..

Sarebbe stata, ad ogni modo, necessaria nuova perizia informatica, inutilmente richiesta dalla difesa.

Il giudice a quo era, poi, incorso in evidente travisamento nella valutazione della testimonianza Cu., non accorgendosi che le dichiarazioni del teste erano semmai favorevoli all'imputato, specie nella parte in cui riferiva di aver visto i due fidanzati in (OMISSIS) dalle 21,30 fino a 24. Vi era, quindi, una contraddizione interna della sentenza: non era vero quanto si sosteneva a f. 50 in ordine alla ritenuta mancanza di elemento estrinseco che valesse a confermare che i due imputati dalle 21,30 fino alle 12,30 circa del giorno dopo si trovassero in luogo diverso dal teatro dell'omicidio.

Nella ricostruzione del fatto non si era, poi, tenuto conto che i testi Ca. e M. collocavano l'urlo straziante da loro percepito attorno alle 23-23,30. Sennonchè, la Ca. era smentita da altri testi, residenti nella zona, che avevano dichiarato di non avere sentito nulla.

Non era stato, inoltre, esaminato il filmato registrato dalla telecamera apposta nei pressi del parcheggio che aveva registrato il passaggio di un soggetto somigliante per caratteristiche ed abbigliamento a G.. L'ora della registrazione era 19,41, ma 19,53 effettivi, essendovi uno scarto temporale di 12 o 13 minuti.

Anche l'esame autoptico, in base alla situazione gastrica, consentiva di fissare l'orario morte tra le 21,30 e le 22. Peraltro, in sede di esame dibattimentale, il consulente, dr. La., aveva rettificato un errore contenuto nell'elaborato tecnico a sua firma, precisando che l'orario della morte avrebbe dovuto fissarsi non già "a non meno di 2/3 ore dall'ultimo pasto (avvenuto attorno alle 18, in compagnia di amiche inglesi)" ma in "non più di 2/3 ore dall'ultimo pasto".

Stante tale incerta conclusione era stata inutilmente richiesta, nei motivi nuovi in appello, in data 29.7.2013, una nuova perizia.

Insomma, alla luce dei dati processuali, a dire del difensore, l'ora della morte della giovane inglese avrebbe dovuto essere fissato tra le 21 e le 22,13 circa.

Con il secondo motivo si lamenta il mancato espletamento di perizia volta a verificare la possibilità di una pulizia selettiva della scena dell'omicidio, nel senso della rimozione delle sole tracce riferibili agli imputati, lasciando quelle del G.. Ed infatti, nella stanza della K. erano state rinvenute "numerosissime tracce del G. e nessuna del S..

Si deduce, inoltre, difetto motivazionale sulla presunta alterazione della scena del delitto da parte degli imputati. Non si era, comunque, tenuto conto che il S. non aveva alcun interesse ad inquinare.

Con il terzo motivo si denuncia difetto motivazionale in ordine alle tracce di impronte plantari riferite a orme di piede di donna (misura 37) ed in punto di dimostrazione concorso di persone nel reato.

Con riferimento alle orme, vi era in sentenza un errore evidente, presente anche nella sentenza di annullamento della Cassazione (p. 21), considerato che la sola impronta rinvenuta nella stanza della K. era del G..

Il quarto motivo ripropone il vizio di violazione di legge, con riferimento all'art. 606, lett. c) ed e) in punto di prova del concorso nel reato e di violazione dell'art. 111 Cost., artt. 238, 513 e 526 cod. proc. pen. sull'utilizzabilità degli interrogatori del G. e sull'osservanza dei criteri di valutazione della chiamata in correità.

Con il quinto motivo si deduce travisamento della prova ed illogicità manifesta, in ordine agli esiti dell'indagine genetica sul coltello (rep. 36) e sulla pretesa "non incompatibilità" dello strumento con la ferita più grande riscontrata al collo della vittima. Si deduce, altresì, violazione dei criteri di valutazione della prova di cui all'art. 192 cod. proc. pen..

Con il sesto motivo si lamenta mancanza di motivazione per omessa considerazione della violazione delle raccomandazioni internazionali su repertazione ed esame delle tracce di esigua entità ed interpretazione dei risultati. Si deduce, inoltre, travisamento della prova ed illogicità manifesta di motivazione sui risultati degli esami genetici sul coltello da cucina nonchè violazione dei criteri di valutazione della prova, di cui all'art. 192 codice di rito.

Con il settimo motivo si deduce difetto di motivazione con riferimento alla violazione delle raccomandazioni internazionali su repertazione ed analisi con riguardo agli esami genetici sul gancetto (rep. 165 B) e sull'eccepita contaminazione del reperto, a seguito delle perquisizioni e sopralluoghi effettuati dalla polizia giudiziaria.

Con l'ottavo motivo si denuncia violazione degli artt. 192 e 533 cod. proc. pen., sull'interpretazione dell'esame genetico sul reperto 165 B e mancanza di motivazione sull'eccepita violazione delle raccomandazioni internazionali in tema di interpretazione delle misture di dna.

Con il nono motivo si deduce violazione dell'art 192 cod. proc. pen. e manifesta illogicità della prova per travisamento dell'indagine scientifica, stante il fallimento della prova del dna nel presente giudizio.

Con il decimo motivo si denuncia manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla prova del luminol con riferimento alla pretesa presenza di orme insanguinate negli ambienti di casa di (OMISSIS) e sul tappetino del bagno nonchè illogicità manifesta della motivazione in riferimento alle tracce commiste Kn. - K. ed alla valutazione della prova indiziaria in tema di concorso di persone nel reato.

Con l'undicesimo motivo si deduce manifesta illogicità o contraddittorietà di motivazione in punto valutazione del movente omicidiario.

Con il dodicesimo motivo si deduce identico vizio motivazionale e travisamento della prova in ordine all'orario della chiamata al 112.

Con il tredicesimo motivo si deduce identico difetto di motivazione con riferimento all'alibi ed al preteso tentativo del S. di coprire la presunta correa Kn.Am..

Con il quattordicesimo motivo si denuncia violazione del principio di diritto enunciato dalla Cassazione e violazione del canone di giudizio dell'oltre il ragionevole dubbio, di cui all'art. 533 cod. proc. pen..

Motivi della decisione
1. Ragioni d'ordine logico-espositivo impongono l'esame in limine delle questioni preliminari sollevate dalle parti.

Si tratta, per vero, di profili problematici di rilievo pregiudiziale, siccome potenzialmente capaci di condizionare i successivi sviluppi decisori, che, ancorchè privi di sostanziale definitività, possano nondimeno assumere decisiva efficacia, quantomeno ai fini del rinvio o della sospensione del presente giudizio.

Si intende fare riferimento, in primis, alla questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell'art. 627 c.p.p., comma 3 e art. 628 c.p.p., comma 2, per pretesa violazione del principio di ragionevole durata del processo, di cui all'art. 111 Cost.; alla richiesta di rinvio in attesa della decisione della Corte Europea dei diritti dell'uomo, investita del ricorso proposto dalla difesa di Kn.Am. per lamentare il trattamento coercitivo cui la stessa sarebbe stata sottoposta dagli inquirenti in sede di indagini preliminari; alle plurime richieste della difesa di S.R. perchè siano rimesse alla cognizione delle Sezioni Unite di questa Corte Sprema questioni di particolare momento, sia in ragione della loro obiettiva importanza sia in quanto suscettive di ingenerare contrasti interpretativi nella giurisprudenza di questa Corte.

2. Tutte le richieste sono palesemente infondate.

2.1. Lo è, in primo luogo, la riproposta questione di legittimità costituzionale delle norme in tema di giudizio di rinvio. Ed invero, risulta ineccepibile la risposta motivazionale del giudice a quo, che, con ordinanza dibattimentale del 30.9.2013, l'ha ritenuta manifestamente infondata o, comunque, irrilevante nella fattispecie.

Agli argomenti addotti in relazione al primo profilo - che segnala come la dinamica dei rapporti tra giudizio di legittimità rescindente e giudizio rescissorio del giudice del rinvio sia ispirata ad un progressivo restringimento del thema decidendum, che, almeno in linea tendenziale, preclude una protrazione ad libitum del processo - può aggiungersi la considerazione che l'effetto della progressiva delimitazione della res iudicanda è perseguito dal legislatore come possibile portato non solo della sentenza rescindente, in sè considerata, ma anche delle disposizioni dell'art. 628, comma 2, codice di rito, secondo cui in ogni caso la sentenza del giudice di rinvio può essere impugnata soltanto per motivi non riguardanti i punti già decisi dalla corte di cassazione ovvero per inosservanza della disposizione dell'art. 627, comma 3; e dell'art. 627 c.p.p., comma 4, secondo cui "non possono rilevarsi nel giudizio di rinvio nullità, anche assolute, o inammissibilità, verificatesi nei precedenti giudizi o nel corso delle indagini preliminari".

Divieto, questo, che la giurisprudenza di legittimità, in larga maggioranza, estende anche all'inutilizzabilità, siccome ritenuta espressione di un principio generale dell'ordinamento, che conferisce (tendenziale) definitività alle decisioni della Corte di cassazione (Sez. 5, n. 10624 del 12/02/2009, Barbara, Rv. 242980; Sez. 5, n. 36769 del 03/10/2006, Caruso, Rv. 235015; Sez. 1, n. 22023 del 18/04/2006, Marine, Rv. 235274; e, in tema di giudizio cautelare di rinvio, Sez. 6, n. 47564 del 14/11/2013, Tuccillo, Rv. 257470;contra, Sez. 3, n. 15828 del 26/11/2014, Rv. 263343).

Può, allora, affermarsi che il legislatore ha disegnato un modulo processuale a formazione progressiva (principio del cd. "giudicato progressivo"), che potrebbe, plasticamente, assimilarsi - quantomeno in dimensione "statica" - alla figura geometrica dei "cerchi concentrici".

D'altronde, il Giudice delle leggi - nelle occasioni indicate nel ricorso a firma degli avv. G e DV - ha già avuto modo di occuparsi della questione, dichiarandola inammissibile sulla base di argomentazioni che le odierne prospettazioni difensive non sembrano in grado di scalfire, non prospettando elementi argomentativi tali da fare, ragionevolmente, presagire un possibile, diverso, epilogo decisorio.

Non può, peraltro, sottacersi che il processo penale è, costituzionalmente, proteso all'accertamento della verità materiale, anche attraverso una progressione cognitiva, che, emendata da possibili errores in procedendo od in iudicando, medio tempore intervenuti, pervenga al fine suo ultimo, in termini di approssimazione quanto più possibile a quell'obiettivo, rendendo alla collettività un risultato comunemente inteso "Verità processuale", ossia verità processualmente accertata (rectius, quella che è stato possibile accertare con gli ordinari strumenti gnoseologie ed inferenziali di cui dispone il giudicante). Il tutto, nell'ineludibile rispetto delle forme di rito, che rappresentano, pacificamente, massima espressione di civiltà giuridica e prestigioso distillato di un secolare processo di maturazione del sapere scientifico, tipico della cultura giuridica italiana.

E quando si verte, come nel caso di specie, in tema di processo squisitamente indiziario - in mancanza di prova diretta, di affidabili apporti tecno-scientifici o di pertinenti ed utilizzabili contributi dichiarativi - tanto più la verità processuale, disancorata dalla realtà effettuale e fenomenica, finisce con l'essere mera fictio iuris, stante la limitatezza ed ordinaria opinabilità degli strumenti di umana conoscenza, affidati, comunemente, ad un processo ricostruttivo e rielaborativo a posteriori. Sicchè, è proprio in simili evenienze che il rispetto delle forme è quanto più necessario, rappresentando indefettibile parametro - obiettivo e privilegiato - del collaudo di correttezza e congruità del percorso cognitivo del giudice nel problematico approccio alla verità materiale.

Ed all'anzidetta verifica è, appunto, chiamato questo Giudice di legittimità, con poteri di cognizione ab extrinseco, limitati cioè al solo controllo esterno della correttezza formale, congruità e coerenza logica dell'insieme giustificativo di quella progressione cognitiva, senza possibilità alcuna di apprezzare il reale spessore dimostrativo degli elementi probatori in esso utilizzati.

Certo, con tale precipua finalizzazione deve raccordarsi il principio costituzionale, ex art. 111 Cost., della ragionevole durata del processo, destinato a dipanarsi attraverso fasi e scansioni temporali predeterminate.

Il perseguimento di quel fine ultimo (ricerca della verità materiale) - tanto più in processi di particolare delicatezza come quello in esame, di difficoltà tale da richiedere l'espletamento di defatigante attività istruttoria e di indagini tecniche particolarmente complesse - deve, dunque, coniugarsi con l'esigenza di una risposta giustiziale di durata quanto più breve possibile, per ovvie esigenze di rispetto del valore/persona dei soggetti coinvolti e delle ineludibili rivendicazioni di giustizia delle persone offese e della collettività.

2.2. Non ha pregio, poi, la richiesta della difesa di Kn.Am.

volta al rinvio del presente giudizio in attesa della decisione dell'adita Corte di giustizia europea, investita - in esito alla conseguita definitività della statuizione di condanna per il reato di calunnia, oramai coperta da giudicato parziale - della denuncia di trattamenti arbitrari e coercitivi che gli inquirenti avrebbero posto in essere in danno dell'indagata, odierna ricorrente, al punto da coartarne la volontà e da lederne la libertà morale, in violazione dell'art. 188 cod. proc. pen..

Ed invero, un'eventuale pronuncia della Corte europea favorevole alla stessa Kn., nel senso auspicato del riconoscimento di un poco ortodosso trattamento degli investigatori nei suoi confronti, non potrebbe in alcun modo scalfire il giudicato interno, neppure in vista di possibile revisione della sentenza, considerato che le calunniose accuse che la stessa imputata rivolse al L., per effetto delle asserite coercizioni, sono state da lei confermate anche innanzi al Pm, in sede di interrogatorio, dunque in un contesto, istituzionalmente, immune da anomale pressioni psicologiche; e sono state confermate anche nel memoriale a sua firma, in un momento in cui la stessa accusatrice era sola con sè stessa e la sua coscienza, in condizioni di oggettiva tranquillità, al riparo da condizionamenti ambientali; e furono persino ribadite, dopo qualche tempo, in sede di convalida dell'arresto del L., innanzi al Gip procedente.

2.3. Va, infine, disattesa anche la richiesta della difesa di S. volta ad ottenere la rimessione alle Sezioni Unite di questa Corte di questioni relative alla valenza probatoria di risultanze scientifiche acquisite in violazione dei protocolli internazionali, recanti precise prescrizioni intese ad assicurare la genuinità della repertazione e dell'analisi; ai criteri di valutazione delle dichiarazioni testimoniali nei processi a forte esposizione mediatica; all'utilizzabilità di dichiarazioni accusatorie recepite nella sentenza acquisita ai sensi dell'art. 238- bis codice di rito.

Si tratta, in tutta evidenza, di questioni di particolare momento, di sicura rilevanza ai fini della definizione del presente giudizio, ma di dubbia capacità di ingenerare potenziali contrasti giurisprudenziali. Ad ogni modo, sono prospettati nodi interpretativi alla cui soluzione non può, certo, sottrarsi questo Collegio, con pertinenti delibazioni dotate anche di efficacia vincolante ai fini della definizione del presente giudizio.

3. Tanto premesso in linea preliminare, può ora affrontarsi il tema centrale del presente giudizio, costituente leitmotiv delle censure dei ricorrenti, attorno alla pregiudiziale censura di inosservanza, da parte del giudice del rinvio, del dictum della sentenza rescindente di questa Corte, alla stregua del principio di diritto in essa affermato.

L'indagine richiesta a questa Corte è - solo all'apparenza - agevole, posto che la ratio decidendi della sentenza di annullamento risiede nel rilievo di manifesta illogicità della motivazione della pronuncia impugnata; rilievo che, poi, si sostanzia - e si specifica - nella rilevata violazione dei principi di completezza e di non contraddittorietà.

Orbene, è pacifica acquisizione giurisprudenziale che, in presenza di siffatta ragione di annullamento, afferente al deficit motivazionale, il giudice del rinvio è investito della cognizione dell'intero compendio probatorio, che è chiamato a rivisitare in piena libertà di convincimento, senza vincoli di sorta, essendo solo tenuto a rendere, in esito, risposta motivazionale scevra dai vizi di palese illogicità o manifesta contraddittorietà che avevano determinato l'annullamento della prima pronuncia di appello. Nella giurisprudenza di questo Giudice di legittimità è, infatti, ricorrente l'affermazione secondo cui a seguito di annullamento per vizio di motivazione, il giudice di rinvio è vincolato dal divieto di fondare la nuova decisione sugli stessi argomenti ritenuti illogici o carenti dalla Corte di cassazione, ma resta libero di pervenire, sulla scorta di argomentazioni diverse da quelle censurate in sede di legittimità ovvero integrando e completando quelle già svolte, allo stesso risultato decisorio della pronuncia annullata.

Ciò in quanto spetta esclusivamente al giudice di merito il compito di ricostruire i dati di fatto risultanti dalle emergenze processuali e di apprezzare il significato e il valore delle relative fonti di prova (tra le altre, Sez. 4, n. 30422 del 21/06/2005, Poggi, Rv.232019; Sez. 4, n. 48352 del 29/04/2009, Savoretti, Rv. 245775).

Un problema - adombrato, con apprezzabile discrezione, nei motivi nuovi in favore della Kn. - si pone quando, come nel caso di specie, il giudice di legittimità abbia fatto incursione nel "merito", debordando dai limiti istituzionali ad esso assegnati, come quando, ad esempio, prospetti un ventaglio di causali alternative del fatto omicidiario ed assegni al giudice il compito di individuare, in quel numerus clausus predeterminato, quella più appropriata al caso di specie. Non v'è dubbio, a parere del Collegio, che in siffatta, singolare, ipotesi il giudice del rinvio non possa ritenersi in alcun modo vincolato nè condizionato, proprio in ragione del reciso discrimen d'ordine istituzionale che, per quanto si è detto, sussiste tra cognizione di legittimità e cognizione del fatto, quest'ultima esclusivo appannaggio del giudice del merito. In questi termini, del resto, si è già espressa la giurisprudenza di questa Corte Suprema, nello statuire che il giudice del rinvio non può essere condizionato da valutazioni in fatto eventualmente sfuggite al giudice di legittimità nelle proprie argomentazioni, essendo diversi i piani su cui operano le rispettive valutazioni e non essendo compito della Corte di cassazione di sovrapporre il proprio convincimento a quello del giudice di merito in ordine a tali aspetti. Del resto, ove la Suprema Corte soffermi eventualmente la sua attenzione su alcuni particolari aspetti da cui emerga la carenza o la contraddittorietà della motivazione, ciò non comporta che il giudice di rinvio sia investito del nuovo giudizio sui soli punti specificati, poichè egli conserva gli stessi poteri che gli competevano originariamente quale giudice di merito relativamente all'individuazione ed alla valutazione dei dati processuali, nell'ambito del capo della sentenza colpito da annullamento (Sez. 4 n. 30422/2005 cit.).

Nello stesso senso, si è affermato che eventuali elementi di fatto e valutazioni contenuti nella pronuncia di annullamento non sono vincolanti per il giudice del rinvio, ma rilevano esclusivamente come punti di riferimento al fine della individuazione del vizio o dei vizi segnalati, e non quindi come dati che si impongono per la decisione a lui demandata; inoltre non vi è dubbio che, a seguito di una pronuncia di annullamento per difetto di motivazione mediante l'indicazione dei punti specifici di carenza o di contraddittorietà, il potere del giudice di rinvio non può limitarsi all'esame dei singoli punti specificati, come se fossero isolati dal restante materiale probatorio, ma è tenuto a compiere anche eventuali altri atti istruttori sui cui risultati deve basare la decisione, fornendone la giustificazione nella sentenza (Sez. 4, n. 44644 del 18/10/2011, imputato F., Rv, 251660; Sez. 5, n. 41085 del 03/07/2009, imputato L, Rv. 245389; Sez. 1, n. 1397 del 10/12/1997 dep. 1998, Pace, Rv. 209692).

Il tutto sullo sfondo della ricorrente lezione di questo Giudice di legittimità, al punto consolidata da costituire ius receptum, secondo cui i poteri del giudice di rinvio sono diversi a seconda che l'annullamento sia stato pronunciato per violazione o erronea applicazione della legge penale, oppure per mancanza o manifesta illogicità della motivazione, giacchè, mentre, nella prima ipotesi, il giudice è vincolato al principio di diritto espresso dalla Corte, restando ferma la valutazione dei fatti come accertati nel provvedimento impugnato, nella seconda può procedersi ad un nuovo esame del compendio probatorio con il limite di non ripetere i vizi motivazionali del provvedimento annullato (tra le altre, Sez. 3, n. 7882 del 10/01/2012, Montali, Rv. 252333).

3.1. Come si vedrà, il giudice a quo è, in più punti, rimasto condizionato dalla prospettazione di profili fattuali inopinatamente emersi dalla sentenza rescindente, quasi che le stringenti ed analitiche valutazioni del Supremo Collegio fossero, ineluttabilmente, convergenti nella direzione dell'affermazione di colpevolezza dei due imputati. Fuorviato da tale equivoco di fondo, lo stesso giudice è, poi, incorso in vistose incongruenze logiche ed in palesi errores in iudicando, che vanno in questa sede denunciati.

4. Non può, intanto, sfuggire, in questa prima approssimazione d'assieme, che la storia di questo processo è caratterizzata da un percorso travagliato ed intrinsecamente contraddittorio, attorno al solo dato di irrefutabile certezza: la colpevolezza di Kn.Am.

in ordine alle calunniose accuse nei confronti di L.P..

Per quanto riguarda, invece, l'omicidio della K., alla statuizione di colpevolezza della stessa Kn. e del S., in primo grado, ha fatto seguito una pronuncia assolutoria della Corte d'assise d'appello di Perugia, in esito ad articolata integrazione probatoria; l'annullamento di questa Corte Suprema, Prima Sezione Penale; ed infine, la condanna, in sede di rinvio, della Corte d'assise d'appello di Firenze, oggi gravata di nuovo ricorso per cassazione.

Un iter obiettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante anche di clamorose defaillances o "amnesie" investigative e di colpevoli omissioni di attività d'indagine, che, ove poste in essere, avrebbero, con ogni probabilità, consentito, sin da subito, di delineare un quadro, se non di certezza, quanto meno di tranquillante affidabilità, nella prospettiva vuoi della colpevolezza vuoi dell'estraneità degli odierni ricorrenti. Un siffatto scenario, intrinsecamente contraddittorio, costituisce, già in sè, un primo, eloquente, segnale di un insieme probatorio tutt'altro che contrassegnato da evidenza oltre il ragionevole dubbio.

4.1. Certo, un inusitato clamore mediatico della vicenda, dovuto non solo alle drammatiche modalità della morte di una ventiduenne, tanto assurda ed incomprensibile nella sua genesi, ma anche alla nazionalità delle persone coinvolte (una cittadina statunitense, la Kn., accusata di concorso nell'omicidio di una coetanea, sua coinquilina nella condivisione di un'esperienza di studio all'estero; una cittadina inglese, K.M., rimasta uccisa in circostanze misteriose nel luogo in cui, verosimilmente, si sentiva più protetta, ossia a "casa sua"), e dunque ai riflessi "internazionali" della stessa vicenda, ha fatto sì che le indagini subissero un'improvvisa accelerazione, che, nella spasmodica ricerca di uno o più colpevoli da consegnare all'opinione pubblica internazionale, non ha certamente giovato alla ricerca della verità sostanziale, che, in problematiche fattispecie omicidiarie, come quella in esame, ha come ineludibile postulato non solo la tempistica, ma anche la compiutezza e correttezza dell'attività investigativa. Non solo, ma quando - come nel caso di specie - l'esito di quell'attività di ricerca è grandemente affidato alle risultanze di accertamenti scientifici, l'asettica repertazione di tutti gli elementi utili alle indagini - in ambiente di cui sia garantita la previa sterilizzazione, sì da porlo al riparo da possibili inquinamenti - costituisce, notoriamente, il primo, prudenziale, accorgimento, indefettibile preludio - a sua volta - di una corretta analisi e "lettura" dei campioni repertati. E quando, poi, il momento centrale dell'attività di ricerca tecnico- scientifica è rappresentato dalle peculiari indagini genetiche, il cui contributo nell'attività investigativa è sempre più rilevante, affidabile parametro di correttezza non può che essere il rispetto degli standards fissati dai protocolli internazionali che compendiano le regole fondamentali di approccio prescritte dalla comunità scientifica, sulla base dell'osservazione statistica ed epistemologia.

Il rigoroso rispetto di tali canoni metodologici offre un coefficiente, convenzionalmente, accettabile di affidabilità delle acquisite risultanze, primariamente legata alla ripetività delle stesse - ossia alla possibilità che quelle evidenze, e soltanto quelle, si riproducano in costanza di identica procedura di indagine e di identiche condizioni, secondo le leggi fondamentali della metodica empirica e, più in genere, della scienza sperimentale, fondata, a partire da Galileo Galilei, sull'applicazione del "metodo scientifico" (procedura tipica volta a conseguire la conoscenza della realtà "oggettiva", affidabile, verificabile e condivisibile) modalità notoriamente consistente, da una parte, nella raccolta di dati empirici in rapporto alle ipotesi ed alle teorie da vagliare;

dall'altra, nell'analisi matematica e rigorosa di questi dati, associando cioè - come per la prima volta affermato dal citato Galilei - le "sensate esperienze" alle "dimostrazioni necessarie", ossia la sperimentazione alla matematica).

4.2. Come si vedrà, tutto ciò è sostanzialmente mancato nel presente giudizio. Non solo, ma l'attenzione mediatica, oltre a non giovare alla ricerca della verità, ha prodotto ulteriori riflessi pregiudizievoli, quanto meno in termini di "diseconomia processuale", ingenerando indebito "rumore" (nell'accezione Informatica), non tanto sul versante della tardiva disponibilità alla testimonianza, da parte di determinate persone (considerato che in tal caso si tratta, pur sempre di verifica di attendibilità dei relativi contributi dichiarativi), quanto dell'irruzione nel processo di estemporanee propalazioni di soggetti detenuti, di collaudato spessore criminale, di certo non insensibili ad istanze di mitomania e di protagonismo giudiziario, capaci comunque di assicurare loro la ribalta anche televisiva, spezzando, almeno per un giorno, il grigiore del regime carcerario. Si è trattato, tra l'altro, di non inusuali rivendicazioni di "portatori" di verità raccolte in ambiente carcerario, in occasione di mal riposte confidenze di codetenuti, nella classica ora d'aria o della socialità. Situazioni di certo non commendevoli, che, nondimeno, hanno avuto il merito, di assicurare - per la prima volta in sede di rinvio - l'attiva partecipazione a questo processo di G.R. (che, citato nel corso del giudizio di primo grado, si era avvalso della facoltà di non rispondere: f.3): elemento chiave della vicenda, anche se incrollabilmente reticente (e mai confesso), portatore di mezze verità, peraltro di volta in volta diverse.

G.R. è il cittadino ivoriano pur esso coinvolto nella vicenda K.. Giudicato separatamente, quale concorrente nell'omicidio, è stato condannato, in esito a giudizio abbreviato, alla pena di anni trenta, poi ridotta in appello ad anni sedici.

Il riferimento a costui vale ad introdurre alla seconda, irrefutabile, certezza di questo processo (dopo quella relativa alla responsabilità della Kn. per il reato di calunnia), ossia la colpevolezza, accertata con pronuncia irrevocabile, dello stesso ivoriano siccome autore - in concorso con altri - dell'omicidio della giovane inglese.

All'affermazione di colpevolezza del predetto si era giunti sulla base di tracce genetiche, sicuramente a lui riconducibili, repertate nell'abitazione di (OMISSIS), sul corpo della vittima e nella stanza in cui era stato commesso l'omicidio.

4.3. Lo stesso riferimento pone, poi, due rilevanti profili di diritto, sollevati dalla difesa: uno attinente all'utilizzabilità e valenza dell'anzidetta sentenza irrevocabile nel presente giudizio;

l'altro all'utilizzabilità delle dichiarazioni rese - in termini tutt'altro che improntati a coerenza e costanza - dal G., nell'ambito del suo procedimento, che in qualche modo possono coinvolgere gli odierni ricorrenti.

4.3.1. Quanto alla prima questione, l'utilizzazione della sentenza irrevocabile nel presente giudizio, per tutti i possibili riflessi, è ineccepibile, siccome conforme al dettato dell'art. 238 bis cod. pen.. A mente di tale disposizione, ".... le sentenze divenute irrevocabili possono essere acquisite ai fini della prova del fatto in esse accertato e sono valutate a norma dell'art. 187 e art. 192, comma 3".

Orbene, il "fatto" accertato nella sentenza in questione è, incontrovertibilmente, la partecipazione del G. all'omicidio, "in concorso con altre persone, rimaste ignote". Il richiamo alle norme processuali indicate sta a significare che l'utilizzabilità di siffatto accertamento è subordinata alla duplice condizione della riconducibilità di quel fatto all'alveo dell'"oggetto della prova", rilevante nel presente giudizio, ed alla sussistenza di altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità.

Duplice verifica che, nel caso di specie, ha esito, largamente, positivo. Ed infatti, è di tutta evidenza la pertinenza di quel fatto, aliunde accertato, all'oggetto di cognizione del presente giudizio. Parimenti corretta è la sua valutazione in rapporto ad altre risultanze processuali, idonee a ribadirne l'attendibilità. Si intende fare riferimento ai plurimi elementi, legati alla complessiva ricostruzione della vicenda, che escludono che il G. possa avere agito da solo. In primo luogo, depongono in tal senso le due principali ferite (in realtà tre) riscontrate sul collo della giovane inglese, una da un lato e la seconda dall'altro, con andamento diversificato e caratteristiche riconducibili, verosimilmente (anche se il dato è contestato dalle difese) a due diverse armi da taglio. Ed ancora, la mancanza di segni di resistenza da parte della ragazza, sotto le cui unghie non essendo state rilevate tracce dell'aggressore nè risultando aliunde alcun disperato tentativo di opposizione; le tumefazioni agli arti superiori e le ecchimosi in zona mandibolare e labiale (per verosimile azione manuale di costrizione volta a tappare la bocca della vittima) rinvenute in sede di ispezione cadaverica e soprattutto le agghiaccianti modalità dell'omicidio, non adeguatamente valorizzate nella sentenza impugnata.

Ed infatti, dalla stessa pronuncia (ff. 323 e 325) risulta che copiosi schizzi di sangue sono stati rilevati sull'anta destra dell'armadio sito nella stanza della K., a circa 50 c.m. dal pavimento: circostanza che, avuto riguardo alla collocazione ed alla direzione degli stessi, avrebbero, forse, potuto indurre a ritenere che la giovane sia stata letteralmente "sgozzata", quando, verosimilmente, in ginocchio, con il capo reclinato, a viva forza, verso il pavimento, a breve distanza dall'arredo, è stata attinta da più coltellate al collo, di cui una - quella inferta nella parte sinistra - ne ha determinato la morte, per asfissia conseguente ad imponente flusso di sangue, che si riversò anche nelle vie aree "impedendo l'attività respiratoria, situazione aggravata dalla rottura dell'osso ioide - anche questa riconducibile all'azione del tagliente - con conseguente dispnea" (f. 48).

Un'azione meccanica assai difficilmente imputabile alla condotta di una sola persona.

Sennonchè, il rilievo fattuale, ove adeguatamente valorizzato, sarebbe anche potuto risultare non privo di significato in funzione della ricerca del movente, in quanto l'efferatezza dell'azione delittuosa avrebbe potuto considerarsi - per abnorme sproporzione - assai poco compatibile con alcuna delle ipotesi prospettate in sentenza, ossia con meri dissapori con la Kn. (peraltro smentiti dalle raccolte testimonianze, persino della stessa madre della vittima); con impulsi sessuali di alcuno dei partecipi e, forse, con la stessa ipotesi di un gioco erotico di gruppo finito male, di cui, peraltro, non è stato colto riscontro alcuno sul corpo della vittima, al di là della violazione della sua intimità ad opera di un gesto manuale del G., per il dna a lui riferibile rinvenuto nella vagina della K., di cui, però, non può escludersi la cosciente adesione, nel corso di un preliminare approccio fisico, inizialmente condiviso.

Quel rilievo risulta, ancor meno, compatibile con l'ipotesi dell'irruzione in casa di un ignoto ladro, non appena si consideri che, nell'ordine naturale degli ordinari accadimenti, se è ben possibile che un ladro, alla vista di una giovane donna, possa essere colto da irrefrenabili pulsioni sessuali ed aggredirla, assai difficilmente, dopo l'aggressione fisica e sessuale, si lascia andare ad un gratuito omicidio, peraltro con la brutale ferocia del caso, anzichè darsi a precipitosa fuga. Salvo, ovviamente, a non pensare alla disturbata personalità di un serial killer, di cui però in atti non v'è traccia alcuna, non risultando che a (OMISSIS), in quel periodo di tempo, siano stati commessi omicidi di altre ragazze con identiche modalità.

4.3.2. Quanto alla seconda questione, relativa alla possibilità di utilizzare - attraverso il meccanismo di acquisizione di cui all'art. 238 bis cod. proc. pen. - dichiarazioni contra alios rese dal G. nell'ambito del suo procedimento in assenza delle persone incolpate e dei suoi difensori (con riferimento alle dichiarazioni, non sempre coerenti e costanti, rese in sede di indagini preliminari e riportate in sentenza, nel corso delle quali aveva in qualche modo coinvolto la Kn. nell'omicidio, ma mai esplicitamente il S., pur continuando a professarsi innocente, nonostante la presenza nel luogo dell'omicidio e sul corpo della vittima di numerose tracce biologiche a lui riferite), la soluzione non può che essere negativa. Ed invero, una siffatta modalità di acquisizione si risolverebbe in espediente elusivo delle garanzie dettate dall'art. 526 c.p.p., comma 1-bis, a tenore del quale "la colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi per libera scelta si è sempre volontariamente sottratto all'esame da parte dell'imputato o del suo difensore". Palese sarebbe, al tempo stesso, la violazione dell'art. 111 Cost., comma 4, che detta identica prescrizione al fine di armonizzare il sistema processuale alle disposizioni dell'art. 6 lett. d) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (Sez. F. n. 35729 dell'01/08/2013, Agrama, Rv 256576).

In proposito, appare utile il richiamo al principio di "non sostituibilità", ritagliato dalle Sezioni Unite di questa Corte Suprema dalla più ampia categoria della "legalità della prova", sul riflesso che, quando il codice stabilisce un divieto probatorio oppure un'inutilizzabilità espressa, è vietato il ricorso ad altri strumenti processuali, tipici od atipici, finalizzati ad aggirare surrettiziamente un simile sbarramento (Sez. U, n. 36747 del 28/05/2003, Torcasio, Rv. 225467; cfr,, pure, Sez. U, n. 28997 del 19/04/2012, Pasqua, Rv. 252893).

Ed anche in questo processo, il G. - chiamato a deporre come teste di riferimento, a seguito delle dichiarazioni accusatorie del pregiudicato Al.Ma. (condannato per un orrendo omicidio in danno di un bambino) - dopo avere smentito il propalante, confermando il contenuto di una lettera da lui inviata ai suoi legali e, poi, inopinatamente, girata ad un notiziario televisivo, in cui accusava gli odierni ricorrenti, si è poi, sostanzialmente, sottratto all'esame dei loro difensori. Ed infatti, dopo aver riconosciuto l'autenticità della missiva, nella quale smentiva categoricamente quanto andava riferendo l' Al., in ordine ad asserite sue confidenze sul fatto che S.R. ed Kn.Am. non c'entrassero nulla con l'omicidio, non ha inteso rispondere all'esame dei difensori degli imputati, assumendo che la sua presenza nel processo (come teste di riferimento) era limitata solo al contenuto delle dichiarazioni dell' Al., che lo riguardavano. Donde, l'inutilizzabilità del dichiarato - nella parte relativa alla parte della lettera che comunque interessava gli odierni ricorrenti - che non è recuperabile in diverso contesto processuale, siccome reso al di fuori delle prescritte garanzie.

D'altro canto, a fronte di tale irremovibile atteggiamento di chiusura, correttamente il giudice a quo non ha disposto, sia pure d'ufficio, nuova escussione dell'ivoriano, dopo che, a seguito della conseguita irrevocabilità della sentenza a suo carico, era venuta meno l'incompatibilità a deporre nel presente giudizio, ai sensi dell'art. 197 cod. proc. pen..

Ed infatti, a mente del successivo art. 197 bis, comma 4, codice di rito, egli non poteva essere obbligato a deporre su fatti per i quali aveva riportato condanna, avendo sempre negato, nel procedimento a carico, la sua responsabilità e, non potendo, ad ogni modo, deporre su fatti involgenti la sua responsabilità in ordine al reato per cui si è proceduto nei suoi confronti.

4.4. Da ultimo, sempre in linea preliminare, va affrontata la questione di rito, sollevata dai difensori, in ordine al mancato accoglimento dell'istanza di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale nel giudizio di rinvio, anche ai fini dell'espletamento delle richieste indagini peritali.

L'eccezione si fonda sul rilievo della pretesa obbligatorietà della richiesta integrazione probatoria, alla stregua della particolare formulazione dell'art. 627, comma 2, seconda parte, secondo cui "..... Se è annullata una sentenza di appello e le parti ne fanno richiesta, il giudice dispone la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per l'assunzione di prove rilevanti per la decisione".

In tutta evidenza, la lettera della norma si discosta dalla generale disciplina degli ordinari poteri del giudice di appello in subiecta materia, ai sensi dell'art. 603 cod. proc. pen.: "non decidibilità allo stato degli atti, nell'ipotesi di cui al comma 1, per l'ipotesi che la richiesta si riferisca a prove già raccolte o nuove; richiamo ai criteri di cui all'art. 495, comma 1, per l'ipotesi di prove nuove scoperte dopo la sentenza di primo grado; "assoluta necessità" dell'integrazione istruttoria, in caso di rinnovazione ex officio, oltre alla speciale fattispecie (originariamente prevista ed ora abrogata, ai sensi della L. 28 aprile 2014, n. 67, art. 11) della rinnovazione richiesta in favore di imputato rimasto contumace in primo grado.

Opina il Collegio che la particolare formulazione della norma menzionata non autorizzi a ritenere che il giudice del rinvio, nell'ipotesi di annullamento della sentenza di appello, sia obbligato alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per il solo fatto che le parti ne facciano richiesta. Una diversa soluzione non avrebbe fondamento razionale e, anzi, introdurrebbe un elemento distonico nella complessiva disciplina dell'istituto.

Del resto, la prima parte dello stesso comma secondo dell'art. 627 cod. proc. pen. precisa che il giudice del rinvio decide con gli stessi poteri del giudice la cui sentenza è stata annullata, salve le limitazioni nascenti dalla legge.

Per una ricostruzione armonica dell'architettura codicistica è d'obbligo, allora, ritenere che la particolare disciplina della rinnovazione dell'istruttoria nel giudizio di rinvio non sia derogatrice di quella generale dettata dall'art. 603 cod. proc. pen..

D'altronde, a ben vedere, il richiamo, nel citato art. 627 cod. proc. pen., comma 2 all'assunzione di prove "rilevanti" per la decisione costituisce mera superfetazione linguistica, posto che il giudizio di rilevanza è, necessariamente, immanente alla valutazione del giudice di appello investito della richiesta di integrazione probatoria ed allo stesso apprezzamento di assoluta necessità cui deve ispirarsi la rinnovazione officiosa. Ed infatti, in nessun caso di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale potrebbero trovare ingresso nel processo prove che non siano "rilevanti" per la decisione; e lo stesso vale, più in generale, per l'intero comparto della prova nel processo penale, in coerente applicazione del fondamentale principio dettato dall'art. 190 codice di rito, secondo cui il giudice deve ammettere le prove richieste dalle parti, ad esclusione, oltrechè di quelle vietate dalla legge, delle prove "manifestamente superflue o irrilevanti".

In tal senso e, con tale precisazione, merita, dunque, di essere ribadito l'orientamento espresso, in materia, da questa Corte Suprema in precedenti occasioni (Sez. 5, n. 52208 del 30/09/2014, Marino, Rv.

262116, secondo cui il giudice del rinvio, investito del processo a seguito di annullamento pronunciato dalla Corte di cassazione, non è tenuto a riaprire l'istruttoria dibattimentale ogni volta che le parti ne facciano richiesta, poichè i suoi poteri sono identici a quelli che aveva il giudice la cui sentenza è stata annullata, sicchè egli deve disporre l'assunzione delle prove indicate solo se le stesse sono indispensabili ai fini della decisione, così come previsto dall'art. 603 cod. proc. pen., oltre che rilevanti, quanto statuisce l'art. 627, comma secondo, cod. proc. pen.; Sez. 1, n. 28225 del 09/05/2014, Dell'Utri, Rv. 260939; Sez. 4, n. 30422 del 21/06/2005, Poggi, Rv. 232020; Sez. 1, n. 16786 del 24/03/2004, De Falco, Rv. 227924).

E' indubbio, poi, che l'esercizio dei poteri conferiti al giudice del rinvio in materia istruttoria, come di consueto, deve essere congruamente motivato e la relativa motivazione è, di certo, sindacabile in sede di legittimità.

Ebbene, nel caso di specie, il giudice a quo ha dato compiuta ragione del diniego della reclamata integrazione probatoria, ritenendola irrilevante ai fini della decisione. Ad ogni modo, per altri versi, i motivi del diniego emergono per implicito - ma non per questo meno chiaramente - dall'insieme motivazionale, che ha ritenuto completo il compendio probatorio in atti.

D'altro canto, non v'è ragione di ritenere che, pur nella peculiarità del giudizio di rinvio, non debba valere anche, in materia, il principio generale per cui la perizia è mezzo di prova neutro, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso al potere discrezionale del giudice, di talchè non rientra nella categoria della "prova decisiva" ed il relativo provvedimento di diniego non è sanzionarle ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), in quanto costituisce il risultato di un giudizio di fatto che, se sonetto da adeguata motivazione, è insindacabile in cassazione (Sez. 6, n. 43526 del 03/10/2012, Ritorto, Rv. 253707).

5. Risolte, nei termini anzidetti, le questioni pregiudiziali e quelle preliminari in rito, può ora affrontarsi il "merito" del processo, in rapporto al contenuto delle articolate impugnative.

In primo luogo, va preso atto che, in ordine alla contravvenzione di cui al capo b), relativa al porto illegittimo del coltello indicato in rubrica, è ormai decorso il termine prescrizionale, a far tempo dalla data di commissione.

Non v'è che prenderne atto, in mancanza dell'evidenza di più favorevoli cause di proscioglimento nel merito, a mente dell'art. 129 c.p.p., comma 2, tanto più alla luce delle pronunce di condanna di primo grado e della seconda corte d'assise d'appello.

Del resto, secondo indiscusso insegnamento di questa Corte di legittimità la formula di proscioglimento nel merito prevale sulla dichiarazione di improcedibilità per intervenuta prescrizione soltanto nel caso in cui sia rilevabile, con una mera attività ricognitiva, l'assoluta assenza della prova di colpevolezza a carico dell'imputato ovvero la prova positiva della sua innocenza, e non anche nel caso di mera contraddittorietà o insufficienza della prova che richiede un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze (Sez. 6, n. 10284 del 22/01/2014, Culicchia, Rv. 259445).

6. Può, ora, procedersi all'esame della struttura motivazionale della sentenza impugnata, fatta segno di molteplici censure di parte.

Già ad una prima lettura non sfuggono discrasie, incongruenze ed errores in iudicando, che inficiano, ab imis, la tenuta complessiva della struttura argomentativa.

6.1. Erronea, in primo luogo, è l'affermazione relativa alla sostanziale irrilevanza dell'accertamento del movente del grave fatto omicidiario.

L'assunto non è condivisibile alla stregua di indiscusso insegnamento di questa Corte regolatrice (sin da Sez. 1, n. 10841 del 24/09/1992, Scupola, Rv. 192865), in ordine alla rilevanza del movente quale collante che lega i vari elementi attraverso cui la prova si è costituita, tanto più nei processi indiziari, come quello in esame.

Non solo, ma la sua valenza in chiave rafforzativa degli elementi indiziari è, ovviamente, subordinata alla previa verifica del coefficiente di affidabilità degli indizi, per chiarezza, precisione e concordanza, in esito ad apprezzamento analitico degli stessi, isolatamente considerati e poi inquadrati in una prospettiva globale ed unitaria (Sez. 1, n. 17548 del 20/04/2012, Sorrentino, Rv. 252889 sulla scia di Sez. U, n. 45276, Andreotti, Rv. 226094 secondo cui la "causale", pur potendo costituire elemento di conferma del coinvolgimento nel delitto del soggetto interessato all'eliminazione fisica della vittima allorchè converge, per la sua specificità ed esclusività, in una direzione univoca, tuttavia, poichè conserva di perse un margine di ambiguità, in tanto può fungere da fatto catalizzatore e rafforzativo della valenza probatoria degli elementi positivi di prova della responsabilità, dal quale poter inferire logicamente, sulla base di regole di esperienza consolidate e affidabili, l'esistenza dei fatto incerto (cioè la possibilità di ascrivere il crimine al mandante), in quanto, all'esito dell'apprezzamento analitico di ciascuno di essi e nel quadro di una valutazione globale di insieme, gli indizi, anche in virtù della chiave di lettura offerta dal movente, si presentino chiari, precisi e convergenti per la loro univoca significazione).

Il che, come si dirà a breve, non può ritenersi nel caso di specie, a fronte di un compendio indiziario non univoco ed intrinsecamente contraddittorio.

In particolare, nessuna delle possibili causali del ventaglio di soluzioni indicate dalla stessa sentenza rescindente si è potuta accertare nel presente giudizio. Il movente sessuale, ascritto al G. nel procedimento a suo carico, non è estensibile tout court ai presunti concorrenti; per quanto si è detto, l'ipotesi di gioco erotico di gruppo non ha trovato riscontri di sorta; non è possibile ipotizzare per ciascun presunto concorrente un movente traslato o combinato in virtù di condivisione di questa o quell'altra motivazione. D'altro canto, una siffatta estensione postulerebbe l'accertamento di sicuri rapporti interpersonali tra gli stessi compartecipi, che, pur nell'occasionalità od estemporaneità dell'accordo criminoso, rendano verosimile una simile traslazione.

Ora, se è pacifico il rapporto sentimentale tra S. e Kn. e se risulta accertato che la giovane avesse avuto modo di conoscere, in qualche occasione, il G., non v'è prova alcuna che S. conoscesse o avesse mai frequentato l'ivoriano. Sul punto è certamente contraddittorio e palesemente illogico riconoscere (a f. 91) l'irragionevolezza dell'ipotesi della partecipazione ad omicidio tanto "cruento" in correità con persona sconosciuta, per escludere ogni ipotesi di coinvolgimento delle coinquiline R.F. e M.L. (che, certamente, non conoscevano il G.), e non estendere siffatto argomento al S., che non risulta avesse mal neppure conosciuto l'ivoriano.

6.2. Altro errore di giudizio risiede nella ritenuta irrilevanza dell'accertamento dell'ora esatta della morte della K., reputando sufficiente l'approssimazione temporale offerta dagli accertamenti peritali, pur corretta in sede di esame dibattimentale.

In proposito, ha ragione di dolersi la difesa del S. che segnala la necessità del relativo accertamento, specie in procedimenti indiziari come questo, per ogni consequenziale implicazione. Non solo, ma l'esatta determinazione dell'ora della morte della K. è ineludibile presupposto fattuale per la verifica dell'alibi offerto dall'imputato, in funzione dell'indagine volta ad accertare la possibilità dell'asserita sua presenza nella casa di (OMISSIS) al momento dell'omicidio. E per questo è stato chiesto apposito accertamento peritale.

Orbene, anche sul punto è dato registrare un deprecabile pressapochismo nella fase delle indagini preliminari. Basti considerare, al riguardo, che i rilievi della polizia giudiziaria avevano proposto una banale media aritmetica tra un possibile termine iniziale ed un possibile termine finale (dalle 18,50 circa dell'1 novembre alle 4,50 del giorno successivo), giungendo a fissare, in tal guisa, l'ora della morte alle 23-23,30 circa. Gli esami sull'apparato gastrico della vittima, che, in tarda serata, aveva consumato la colazione con le amiche inglesi, ha consentito - ancora una volta con approssimazione, emendata in sede di esame dibattimentale - di circoscrivere maggiormente il range temporale.

La Corte del rinvio ha ulteriormente ristretto l'arco temporale, contenendolo nella fascia oraria tra le 21 circa dell'1 novembre (orario in cui la K. si accomiatò da un'amica inglese) e le 00.10.31 del giorno successivo, sulla base della registrazione (risultante dagli acquisiti tabulati telefonici) di un segnale su uno dei cellulari della stessa K. intercettato da una cella telefonica interessata dalla zona ove è ubicata (OMISSIS), nei cui pressi i detti cellulari erano stati abbandonati dagli autori dell'omicidio.

Ma anche tale rilievo soffre di approssimazione in quanto, nell'orario da ultimo indicato, K.M. era già morta, sia pure da poco tempo, proprio in quanto il segnale è stato registrato nella zona in cui i cellulari sono abbandonati, dopo essere stati sottratti, subito dopo l'omicidio, in casa di via (OMISSIS), distante qualche centinaia di metri dal luogo del loro ritrovamento.

La difesa del ricorrente ha offerto, al riguardo, un'analisi ben più affidabile, siccome ancorata a dati fattuali incontrovertibili.

Dall'esame del traffico telefonico è emerso, infatti, che, dopo il saluto all'amica inglese delle ore 21, la giovane aveva, inutilmente cercato di telefonare ai congiunti in Inghilterra, come era solita fare quotidianamente, mentre un ultimo contatto era stato registrato alle 22,13, di talchè l'arco temporale è stato così ulteriormente ristretto al range 21,30/22,13 circa.

7. Il secondo rilievo critico, che è dato muovere alla pronuncia impugnata, introduce al tema centrale del giudizio, ossia alla valenza processale attribuibile alle risultanze della prova scientifica, con particolare riferimento alle indagini genetiche, acquisite in violazione delle regole consacrate dai protocolli internazionali.

Il quesito, pur con la sua specificità, si inserisce nel vivace dibattito dottrinario sui rapporti tra prova scientifica e processo penale, nella ricerca di un problematico equilibrio tra l'orientamento - non insensibile a certe suggestioni di approdi interpretativi d'oltreconfine - che tende a riconoscere sempre maggior peso ai contributi della scienza, pur se non validati dalla comunità scientifica; e l'orientamento che rivendica il primato del diritto e postula che, in ossequio alle regole proprie del processo penale, possano trovare ingresso soltanto esperienze scientifiche collaudate secondo i canoni metodologici comunemente condivisi.

Il dibattito culturale, pur nel rispetto del principio del libero convincimento del giudice, si propone anche di rivisitare criticamente la nozione, oramai obsoleta e di assai dubbia credibilità, del giudice "peritus peritorum". In effetti, l'antico brocardo esprime un modello culturale non più attuale e, anzi, decisamente anacronistico, quanto meno nella misura in cui pretenda di assegnare al giudice reale capacità di governare il flusso di conoscenze scientifiche che le parti riversino nel processo, ove invece una più realistica impostazione lo vuole del tutto ignaro di quei contributi, che sono il frutto di un sapere scientifico che non gli appartiene e non può - ne deve - appartenergli. Il che è tanto più vero nei confronti della scienza genetica, le cui complesse metodiche postulano uno specifico sapere nel campo della genetica forense, della chimica e della biologia molecolare, che attengono ad un patrimonio di conoscenza distante, anni luce, dalla formazione, prettamente umanistica e giuridica, del magistrato.

La conseguenza dell'ineludibile presa d'atto di tale stato di legittima ignoranza del giudice, e dunque della sua incapacità di governare "autonomamente" la prova scientifica, non può, però, essere l'acritico affidamento, che equivarrebbe - anche per un malinteso senso del libero convincimento e di altrettanto malinteso concetto di "perito dei periti" - a sostanziale rinuncia al proprio ruolo, mediante fideistica accettazione del contributo peritale, cui delegare la soluzione del giudizio e, dunque, la responsabilità della decisione.

D'altronde, se in presenza di un apporto tecnico-scientifico ex uno latere, ossia proveniente da una sola delle parti processuali, ovvero disposto d'ufficio dallo stesso giudice, può costituire commodus discessus parafrasare, in modo più meno accorto, le argomentazioni tecniche addotte a sostegno dell'elaborato, il problema si pone, drasticamente, quando, a fronte di contrapposti contributi scientifici, quello stesso giudice sia chiamato ad operare una scelta di campo, giacchè, in tal caso, la parafrasi è assai più impegnativa, richiedendo comunque una motivazione pertinente ed idonea a spiegare le ragioni per le quali l'alternativa prospettazione scientifica non sia condivisibile (cfr. Sez. 6, n. 5749 del 09/01/2014, Homm, Rv. 258630, secondo cui il giudice che ritenga di aderire alle conclusioni del perito d'ufficio, in difformità da quelle del consulente di parte, pur non essendo gravato dell'obbligo di fornire, in motivazione, autonoma dimostrazione dell'esattezza scientifica delle prime e dell'erroneità, per converso, delle altre, "è comunque tenuto" alla dimostrazione del fatto che le conclusioni peritali siano state valutate "in termini di affidabilità e completezza", e che non siano state ignorate le argomentazioni del consulente).

Reputa la Corte che la delicata problematica, per quanto possa interessare la definizione del presente giudizio, debba trovare soluzione nelle regole generali che informano il nostro sistema processuale, e non già aliunde, nell'astratta rivendicazione di un primato della scienza sul diritto o viceversa. La prova scientifica non può, infatti, ambire ad un credito incondizionato di autoreferenziale affidabilità in sede processuale, per il fatto stesso che il processo penale ripudia ogni idea di prova legale.

D'altro canto, è a tutti noto che non esiste una sola scienza, portatrice di verità assolute ed immutabili nel tempo, ma tante scienze o pseudoscienze, tra quelle ufficiali e quelle non validate dalla comunità scientifica, in quanto espressione di metodiche di ricerca non universalmente riconosciute.

Ed allora, la soluzione del quesito non potrà che passare attraverso il richiamo a principi e regole che disciplinano l'acquisizione e la formazione della prova nel processo penale e, quindi, ai criteri che presiedono alla relativa valutazione.

Le coordinate di riferimento dovranno essere quelle afferenti al principio del contraddittorio ed al controllo del giudice sul processo di formazione della prova, che deve essere rispettoso di preordinate garanzie, alla cui osservanza deve essere, rigorosamente, parametrato il giudizio di affidabilità dei relativi esiti.

Di talchè, un risultato di prova scientifica può essere ritenuto attendibile solo ove sia controllato dal giudice, quantomeno con riferimento all'attendibilità soggettiva di chi lo sostenga, alla scientificità del metodo adoperato, al margine di errore più o meno accettabile ed all'obiettiva valenza ed attendibilità del risultato conseguito.

Insomma, secondo un metodo di approccio critico non dissimile, concettualmente, da quello richiesto per l'apprezzamento delle prove ordinarie, al fine di esaltare, quanto più possibile, il grado di affidabilità della "verità processuale" o - se si preferisce - ridurre a margini ragionevoli l'ineludibile scarto tra verità processuale e verità sostanziale.

Del resto, nella procedura della logica induttivo-inferenziale, che consente di risalire dal fatto noto a quello ignoto da provare, il giudice, nella piena libertà di convincimento, può utilizzare qualsiasi elemento che faccia da ponte o collante tra i due fatti in questione e consenta di risalire da quello noto a quello ignoto, secondo parametri di ragionevolezza e buon senso.

Il trait d'union può, dunque, essere il più vario; la cd. "regola di esperienza", legittimata dal patrimonio di comune conoscenza o dalla diretta osservazione della realtà fenomenica, che registri la ripetitività di determinati eventi in costanza di identiche, determinate, condizioni; una legge scientifica, di valenza universale o semplicemente statistica; una legge appartenente alla logica, che presiede ed orienta i percorsi mentali della razionalità umana e quant'altro utile alla bisogna.

Il ragionamento probatorio che consente di passare dall'elemento di prova al risultato di prova rientra nell'esclusiva competenza del giudice di merito, che deve, ovviamente, fornirne congrua motivazione e che, in tema di prova indiziaria, è chiamato ad un duplice vaglio giustificativo: un primo controllo attinente alla cd.

"giustificazione esterna", attraverso la quale lo stesso giudice deve saggiare la validità della regola d'esperienza ovvero della legge scientifica o logica ovvero di ogni altra regola utilizzata; ed un secondo controllo attinente alla cd. "giustificazione interna", mediante la quale occorre dimostrare, in concreto, la validità del risultato conseguito mediante l'applicazione della "regola-ponte" (Sez. 1, n. 31456 del 21/05/2008. Franzoni, Rv. 240764).

7.1. Tanto ritenuto in linea generale ed astratta, viene ora in considerazione, nello specifico, un profilo del tutto particolare di tale più ampia problematica.

Nel caso di specie, infatti, non si tratta di accertare natura ed ammissibilità di una metodica scientifica affatto nuova (seppur da tempo praticata altrove), come nella fattispecie esaminata dalla citata sentenza Franzoni, sull'ammissibilità della "Blood Pattern Analysis" o B.P.A. (pratica, già nota negli Stati Uniti ed in Germania, frutto della combinazione di leggi scientifiche di discipline diverse, universalmente riconosciute), in quanto oggetto di esame sono le risultanze della scienza genetica, di conclamata affidabilità e di sempre maggior impiego ed utilità nelle indagini giudiziarie.

D'altronde, questa Corte, in più occasioni, ha già riconosciuto la valenza processuale dell'indagine genetica condotta sul dna, atteso l'elevatissimo numero di ricorrenze statistiche confermative, tale da rendere infinitesimale la possibilità di un errore (Sez. 2, n. 8434 del 05/02/2013, Mariller, Rv. 255257; Sez. 1, n. 48349 del 30/06/2004, Rv. 231182).

Si tratta, piuttosto, di accertare quale valenza processuale possano assumere gli esiti dell'indagine genetica svolta in un contesto di accertamenti e rilievi assai poco rispettosi delle regole consacrate dai protocolli internazionali e da quelle cui, ordinariamente, deve ispirarsi l'attività di ricerca scientifica.

Nel fare implicito richiamo ad interpretazione giurisprudenziale di legittimità, il giudice a quo non ha esitato ad attribuire agli esiti anzidetti rilievo indiziario (f. 217).

L'assunto non può essere condiviso.

Ed invero, la giurisprudenza di questa Corte Suprema, sopra richiamata, ha riconosciuto all'indagine genetica - proprio in ragione del grado di affidabilità - piena valenza di prova, e non di mero elemento indiziario ai sensi dell'art. 192 c.p.p., comma 2) soggiungendo che, nei casi in cui l'indagine genetica non dia risultati assolutamente certi, ai suoi esiti può essere attribuita valenza indiziaria (Sez. 2, n. 8434 del 05/02/2013, Mariller, Rv.

255257; Sez. 1, n. 48349 del 30/06/2004, Rv. 231182). Il che significa che, nell'ipotesi in cui si pongano in termini di identità, gli esiti dell'indagine genetica assumono rilievo probatorio, mentre in caso di mera compatibilità con un determinato profilo genetico, hanno rilievo meramente indiziario.

Siffatta enunciazione di principio necessita, tuttavia, di una precisazione. In linea tendenziale, alle relative conclusioni è possibile aderire, a condizione però che consti che l'attività di repertazione, conservazione ed analisi del reperto siano state rispettose delle regole di esperienza consacrate dai protocolli in materia. Il che deve valere, a fortiori, anche nell'ipotesi minor, in cui le risultanze delle analisi non portino ad un esito di identità, ma di sola compatibilità.

Il principio della necessaria correttezza metodologica nelle fasi di raccolta, conservazione ed analisi dei dati esaminati, tale da preservarne integrità e genuinità, è stata affermata da questa Corte in Sez. F, n. 44851 del 6.9.2012, Franchini, non massimata, sia pure in tema di prova informatica, sul rilievo che quei principi sono stati recepiti nel codice di procedura penale con la modifica dell'art. 244 cod. proc. pen., comma 2 e la nuova fattispecie dell'art. 254 bis cit. codice, introdotte dalla L. 18 settembre 2008, n. 48.

La ragione giustificativa risiede, ad avviso di questa Corte, nella stessa nozione di indizio offerta dal codice di rito, che, all'art. 192, comma 2, dispone che "L'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi non siano gravi, precisi e concordanti", di guisa che un elemento processuale, per assurgere a dignità di indizio, deve avere i connotati della gravità, precisione e concordanza, secondo una configurazione mutuata dalla disciplina civilistica (art. 2729 c.c., comma 1). Tali connotati si compendiano nella cd. "certezza" dell'indizio, pur se tale requisito non è espressamente enunciato dall'art. 192 cod. proc. pen., comma 2. Si tratta, per vero, di ulteriore connotazione ritenuta indefettibile dalla consolidata giurisprudenza ed intrinsecamente legata alla stessa sistematica della prova indiziaria, attraverso cui, con procedimento di logica formale, si perviene alla dimostrazione del tema di prova - fatto ignoto - partendo da un fatto noto e, dunque, accertato come vero. Ben s'intende, infatti, che una simile procedura sarebbe, in nuce, fallace ed inaffidabile, ove muovesse da premesse fattuali non precise e gravi e dunque certe.

Restando, ovviamente, inteso che la certezza, di cui si discute, non deve essere assunta in termini di assolutezza o di verità in senso ontologico; la certezza del dato indiziante è, infatti, pur sempre una categoria di natura processuale, partecipando di quella species di certezza che si forma nel processo attraverso il procedimento probatorio (cfr., anche sul punto, la citata sentenza Franzoni).

Alla stregua di tali considerazioni non si vede, proprio, come il dato di analisi genetica - che si sia svolta in violazione delle prescrizioni dei protocolli in materia di repertazione e conservazione - possa dirsi dotato dei caratteri della gravità e della precisione.

Ed infatti, cristallizzando i risultati di collaudate conoscenze, maturate in esito a ripetute sperimentazioni e significativi riscontri statistici di dati esperenziali, quelle regole compendiano gli standards di affidabilità delle risultanze dell'analisi, sia in ipotesi di identità, che di mera compatibilità con un determinato profilo genetico. Diversamente, al dato acquisito non potrebbe riconnettersi rilevanza alcuna, neppure di mero indizio (cfr. Sez. 2, n. 2476 del 27/11/2014, dep. 2015, Santangelo, Rv. 261866, sulla necessità della corretta conservazione dei supporti recanti le impronte genetiche, ai fini della "ripetibilità" degli accertamenti tecnici capaci di estrapolare il profilo genetico; ripetibilità peraltro dipendente dalla quantità della traccia e dalla qualità del dna presente sui reperti biologici in sequestro; id. n. 2476/14 cit. Rv 261867).

Nel caso di specie, è certo che quelle regole metodologiche non sono state assolutamente osservate (cfr., tra gli altri, ff. 206-207 e le richiamate risultanze della perizia C. - V., disposta dalla Corte d'appello perugina).

Basti considerare, al riguardo, le modalità di reperimento, repertazione e conservazione dei due oggetti di maggiore interesse investigativo nel presente giudizio: il coltello da cucina (rep. n. 36) ed il gancetto di chiusura del reggiseno della vittima (rep. n. 165/B), in ordine ai quali non si è esitato, in sentenza, a qualificare l'operato degli inquirenti in termini di caduta di professionalità (f. 207).

Il coltellaccio o coltello da cucina, rinvenuto in casa del S. e ritenuto arma del delitto, è stato repertato e, poi, custodito in una comune scatola di cartone, del tipo di quelle che confezionano i gadgets natalizi, ossia le agende di cui gli istituti di credito, per consuetudine, fanno omaggio alle autorità locali.

Più singolare - ed inquietante - è la sorte del gancetto di reggiseno.

Notato nel corso del primo sopralluogo dalla polizia scientifica, l'oggetto è stato trascurato e lasciato lì, sul pavimento, per diverso tempo (ben 46 giorni), sino a quando, nel corso di nuovo accesso, è stato finalmente raccolto e repertato. E' certo che, nell'arco di tempo intercorrente tra il sopralluogo in cui venne notato e quello in cui fu repertato, vi furono altri accessi degli inquirenti, che rovistarono ovunque, spostando mobili ed arredi, alla ricerca di elementi probatori utili alle indagini. Il gancetto fu forse calpestato o, comunque, spostato (tanto da essere rinvenuto sul pavimento in posto diverso da quello in cui era stato inizialmente notato). Non solo, ma la documentazione fotografica prodotta dalla difesa di S. dimostra che, all'atto della repertazione, il gancetto veniva passato di mano in mano degli operanti, che, peraltro, indossavano guanti di lattice sporchi.

Interrogata sulle ragioni della mancata, tempestiva, repertazione, la funzionaria di polizia scientifica, dr.ssa St.Pa., dirà in dibattimento che, inizialmente, non si era ritenuto opportuno repertare il gancetto in quanto ..... era stato già repertato l'intero indumento intimo della vittima. Non era stata, insomma, attribuita alcuna importanza a quel piccolo particolare, nonostante che, nella comune percezione, proprio il detto sistema di chiusura è la parte di maggiore interesse investigativo, essendo manualmente azionabile e, quindi, potenziale portatore di tracce biologiche utili alle indagini.

Inoltre, le tracce rivenute sui due reperti, la cui analisi ha portato agli esiti di cui si dirà in prosieguo, erano di esigua entità (Law Copy Number; con riferimento al gancetto cfr. ff. 222 e 248), tale da non consentire di ripetere l'amplificazione, ossia la procedura volta ad "evidenziare le tracce geniche di interesse" sul campione" (f. 238), e dunque ad attribuire una traccia biologica ad un determinato profilo genetico. Sulla base dei protocolli in materia, la ripetizione dell'analisi ("almeno due volte"; esame dibattimentale Maggiore CC dr. Be.An., perito nominato dalla Corte del rinvio, f. 228; "tre volte" secondo il prof. Ta.

A., consulente tecnico per la difesa di S., f. 216) è assolutamente necessaria perchè il risultato dell'analisi possa ritenersi affidabile, sì da emarginare il rischio di "falsi positivi" entro margini statistici di insignificante rilievo.

In buona sostanza, si tratta null'altro che della procedura di validazione o falsificazione propria del metodo scientifico, di cui si è detto in precedenza. Ed è significativo, al riguardo, che i periti Be. - b., ufficiali dei R.I.S. di Roma, effettuarono due amplificazioni della traccia I rivenuta sulla lama del coltello (f. 229).

In mancanza di verifica per ripetizione del dato di indagine, c'è da chiedersi quale possa essere la relativa valenza processuale, indipendentemente dal dibattito teorico sul rilievo più o meno scientifico delle risultanze dell'indagine compiuta su campioni tanto esigui o complessi, da non consentirne la ripetizione.

E' convincimento di questa Corte che la verità scientifica, comunque elaborata, non possa essere, automaticamente, trasferita nel processo per tramutarsi, eo ipso, in verità processuale. Come si è già detto, la prova scientifica ha come ineludibile postulato la verifica affinchè le relative risultanze possano assumere rilevanza ed ambire al rango di "certezza"; giacchè, altrimenti, restano prive di affidabilità. Ma, indipendentemente dal rilievo scientifico, un dato non verificato, proprio perchè privo dei necessari connotati della precisione e gravità, non può conseguire, in ambito processuale, neppure la valenza di indizio.

Certo, in tale contesto, non è il nulla, da ritenere tamquam non esset. Ed infatti, è pur sempre un dato processuale, che, ancorchè privo di autonoma valenza dimostrativa, è comunque suscettivo di apprezzamento, quanto meno in chiave di mera conferma, in seno ad un insieme di elementi già dotati di soverchiante portata sintomatica.

In questo si annida, dunque, l'errore di giudizio in cui è incorso il giudice a quo nell'assegnare, invece, valore indiziario agli esiti dell'indagine genetica insuscettivi di amplificazione ovvero frutto di non ortodossa procedura di raccolta e repertazione.

7.2. Al fine di fugare ogni possibile equivoco in proposito, varrà, poi, considerare che all'impossibilità di attribuire apprezzabile rilievo dimostrativo, in chiave processuale, ad esiti di indagini genetiche non ripetute e divenute insuscettibili di ripetizione, per esiguità o complessità del campione, non è dato ovviare mediante il richiamo all'efficacia ed utilizzabilità degli accertamenti tecnici "irripetibili", ove, come nel caso di specie, siano state osservate le garanzie difensive di cui all'art. 360 cod. proc. pen. Ed infatti, le indagini tecniche cui si riferisce la menzionata norma processuale sono quelle che - per perspicua formulazione positiva - riguardano "persone, cose o luoghi il cui stato è soggetto a modificazione", insomma situazioni di qualsiasi tipo o genere che, per loro natura, sono mutevoli, sicchè si rende necessario cristallizzarne senza indugio lo stato già nella fase delle indagini preliminari, per tema di irriducibili modificazioni, con esito che, nel rispetto delle forme di rito, è destinato ad essere utilizzato anche in sede dibattimentale. Ciò è consentito in quanto l'accertamento da compiere, pure in caso di impossibilità di ripetizione per modifica della cosa da periziare, è capace di evidenziare realtà "compiute" od entità dotate di valenza dimostrativa. Nel caso di specie, nonostante l'osservanza delle forme di cui all'art. 360 codice di rito, il dato acquisito - non ripetuto o non suscettibile di ripetizione per una qualsiasi ragione - non può assumere rilievo nè probatorio nè indiziario, proprio perchè, secondo le menzionate leggi della scienza, necessitava di validazione o falsificazione. Insomma, nell'un caso il dato empirico, tempestivamente "fotografato", assume significatività dimostrativa;

mentre nell'altro è privo di siffatta capacità, proprio perchè la sua valenza indicativa è indissolubilmente legata alla sua ripetizione o ripetibilità.

8. Vanno, poi, in rapida successione, individuati i profili di palese incongruenza logica nel tessuto motivazionale della sentenza impugnata.

8.1. Un dato processuale di incontrovertibile valenza - per quanto si dirà in prosieguo - è rappresentato dall'assolta mancanza, nella stanza dell'omicidio o sul corpo della vittima, di tracce biologiche con certezza riferibili ai due imputati, laddove, invece, sono state rinvenute copiose tracce sicuramente imputabili al G..

Si trattava di un monolite invalicabile sulla strada intrapresa dal giudice a quo per pervenire all'affermazione di colpevolezza degli odierni ricorrenti, già assolti dall'omicidio dalla Corte d'appello perugina.

Per superare la valenza di tale elemento negativo - inconfutabilmente favorevole agli odierni ricorrenti - inutilmente si è sostenuto che, dopo la simulazione del furto, gli autori del delitto avrebbero proceduto ad una pulizia "selettiva" dell'ambiente, al fine di rimuovere le sole tracce compromettenti, ad essi riferibili, lasciando invece quelle ad altri ascrivibili.

L'assunto è manifestamente illogico. Per coglierne, appieno, il coefficiente di incongruenza non è certo necessario che se ne affidi il rilievo ad apposita indagine peritale, pur sollecitata dai difensori. E', di sicuro, impossibile, alla stregua di elementari regole di ordinaria esperienza, un'attività di pulizia mirata, capace, oltretutto, di sfuggire ai rilievi del luminol, la cui applicazione da parte degli inquirenti (utile ad evidenziare anche tracce diverse da quelle ematiche), rientra ormai nel patrimonio delle comuni conoscenze.

D'altronde, lo stesso assunto relativo ad un'asserita oculatezza nella pulizia è smentito in punto di fatto, considerato che "nel bagno piccolo" sono state rinvenute tracce ematiche sul tappetino, sul bidet, sul rubinetto, sul contenitore di cotton fiock, e sull'interruttore. Eppure, in caso di colpevolezza degli odierni ricorrenti, certamente non sarebbe mancato loro il tempo per un'accurata pulizia, nel senso che non vi sarebbero state quelle ragioni di urgenza che avrebbero dovuto animare gli autori del delitto, verosimilmente preoccupati del possibile arrivo in casa di altre persone. Infatti, la Kn. ben sapeva che R. e M. si trovavano fuori (OMISSIS) e non avrebbero fatto rientro a casa quella sera, dunque vi sarebbe stato tutto il tempo necessario per un'accurata pulizia della casa.

Con riferimento alle asserite tracce ematiche negli altri ambienti, segnatamente nel corridoio, vi è poi un evidente travisamento di prova. Ed invero, i s.a.l. della polizia scientifica (acronimo di "stati avanzamento lavori", attestanti lo stato delle successive fasi delle indagini scientifiche ed i risultati via via conseguiti) avevano escluso, in base all'utilizzo di un particolare reagente chimico, che, negli ambienti considerati, le tracce evidenziate dal luminol avessero natura ematica. Di tali certificati, ancorchè regolarmente acquisiti e presenti in atti, non si è tenuto alcun conto.

Non solo, ma è manifestamente illogico, al riguardo, l'argomentare del giudice a quo che (a f. 186) reputa di poter superare l'obiezione difensiva in ordine alla circostanza che la reazione luminiscente bluastra provocata dal luminol si produce anche in presenza di sostanze diverse dal sangue (ad esempio, residui di detersivi da lavaggio, succhi di frutta od altro ancora), sul rilievo che l'assunto, pur teoricamente esatto, andava però "contestualizzato", nel senso che, se la fluorescenza si manifesta in ambiente interessato da fatto omicidiario, la reazione non può che essere riferita a tracce ematiche.

La fragilità dell'argomento è tale, già ictu oculi, da non richiedere notazione alcuna, dovendosi, peraltro, ritenere - così opinando - che la casa di (OMISSIS) non fosse stata mai oggetto di pulizia o non fosse ambiente "vissuto".

Il rilievo consente, dunque, di escludere, categoricamente, che si trattasse di tracce di sangue scientemente rimosse nell'occasione.

Altra vistosa incongruenza logica riguarda le spiegazioni rese dal giudice a quo in ordine alla sottrazione dei cellulari della K., di cui l'ignoto o gli ignoti autori, nell'allontanarsi da (OMISSIS), si erano disfatti, dopo l'omicidio, lanciandoli in un terreno sottostante la strada, in quello, che al buio, poteva sembrare aperta campagna (ove si trattava, invece, di giardino privato).

Tutt'altro che plausibile, infatti, è la giustificazione secondo cui i cellulari sarebbero stati prelevati per evitare che un eventuale squillo della suoneria potesse far scoprire il cadavere della giovane inglese in anticipo sui tempi ipotizzati, senza considerare che tale finalità avrebbe potuto, più agevolmente, essere conseguita spegnendo i detti cellulari o rimuovendo la batteria.

E', poi, palesemente illogico - oltrechè poco rispettoso della realtà processuale - ricostruire il movente dell'omicidio sulla base di pretesi dissapori tra la K. e la Kn., acuiti anche dall'addebito che la ragazza inglese muoveva alla coinquilina per avere fatto entrare in casa il G., che aveva fatto un uso poco urbano del bagno (f. 312). La "verità" offerta dall'ivoriano in una delle dichiarazioni rese nel processo a suo carico (ed utilizzabili, per quanto si è detto, solo nella parte in cui non coinvolgano responsabilità di terzi) è, invece, un'altra. Il giovane si trovava, infatti, in bagno quando, a suo dire, aveva sentito la K. litigare con altra persona, di cui aveva percepito la voce femminile, di talchè il motivo dell'alterco non poteva certo essere costituito dall'uso che egli aveva fatto del servizio.

E' pure illogico e contraddittorio il rilievo argomentativo che, nel tentativo di dar corpo a quei dissapori (peraltro smentiti da altre testimonianze), non esita a recuperare l'ipotesi del furto di danaro e di carte di credito che la K. avrebbe addebitato alla Kn., nonostante che, con statuizione definitiva, la stessa Kn., come il S., fosse stata assolta per "insussistenza del fatto" dal reato di furto limitatamente ai beni anzidetti (f.

316).

E', poi, arbitrario, in mancanza di qualsivoglia riscontro processuale, traslare in casa di (OMISSIS) la situazione che la Kn., in una delle sue dichiarazioni, aveva descritto e contestualizzato in diverso ambito temporale e logistico, ossia in via (OMISSIS), in casa del S.: visione di un film, consumo di stupefacente di tipo leggero, rapporto sessuale e riposo notturno protratto sino alla tarda mattinata del 2 novembre, dunque in orario precedente, contestuale e successivo alla commissione dell'omicidio. Tanto per introdurre, sul versante della dinamica dell'azione omicidiaria, il possibile effetto destabilizzante ed obnubilante della droga. Ciò, ripetesi, in mancanza di qualsiasi riscontro, anche perchè - tra le tante omissioni o discutibili strategie investigative - gli organi di polizia, pur repertando un mozzicone di sigaretta, rinvenuto nel posacenere del soggiorno e recante tracce biologiche riferite ad un profilo genetico misto ( Kn. e S.), non effettuarono analisi di sorta sulla natura del preparato, per il fatto che una tale indagine avrebbe comportato l'impossibilità di accertare il profilo genetico, rendendo "inservibile" il campione. E tutto ciò con il brillante risultato di consegnare al processo un dato assolutamente irrilevante, posto che, pacificamente, S. frequentava la casa di (OMISSIS), in quanto sentimentalmente legato alla ragazza americana; laddove, invece, l'accertamento della natura del reperto avrebbe, forse, potuto offrire spunti investigativi di particolare interesse.

Il rilievo che precede è emblematico della complessiva impostazione della parte dell'impugnata sentenza relativa alla ricostruzione della vicenda sostanziale, compendiata a par. 10, con il titolo:

valutazioni conclusive.

E', certo, innegabile lo sforzo interpretativo profuso dal giudice a quo al fine di ovviare ad incolmabili vuoti investigativi e vistosi deficit probatori con acuta attività speculativa e suggestivi argomenti logici, pur meramente assertivi ed apodittici.

Ora, se è indubbio che la ricostruzione fattuale è esclusivo compito del giudice del merito e non compete alla Corte di legittimità stabilire se la relativa decisione proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, nè condividerne la giustificazione, dovendo questo Giudice limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile - secondo una ricorrente formula giurisprudenziale - "con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabitità di apprezzamento" (tra le tante, Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999, dep. 2000, Moro G, Rv.

215745), oltrechè conforme alle emergenze probatorie, alla luce del testo novellato dell'art. 606 c.p.p., lett. e) è pur vero che la versione ricostruttiva prescelta, anche se conforme ai canoni della logica ordinaria, deve, pur sempre, essere aderente alla realtà processuale e porsi come precipua risultante di un processo di valutazione critica dei dati probatori ritualmente acquisiti.

Insomma, il ricorso alla logica ed all'intuizione non può in alcun modo supplire a carenze probatorie o ad inefficienze investigative, A fronte di una prova mancante, insufficiente o contraddittoria il giudice deve limitarsi a prenderne atto ed emettere sentenza di proscioglimento, ai sensi dell'art. 530 c.p.p., comma 2, pur se animato da autentico convincimento morale della colpevolezza dell'imputato.

Non mancano, poi, vistosi errori nel tessuto motivazionale della sentenza in esame. Così, risulta del tutto erroneo l'assunto di f.

321, secondo cui nelle impercettibili striature del coltello ritenuto arma del delitto (rep. 36) era stato rinvenuto dna riferibile al S., oltrechè alla K.. Il rilievo, infatti, è in contrasto con la diffusa esposizione della parte relativa al detto reperto (ff. 208 ss.), nella quale si riportano le risultanze delle indagini genetiche che avevano attribuito la traccia A alla Kn., la traccia B alla K. e, infine, quella I - il cui esame era stato ingiustificatamente pretermesso nella perizia C. - V. - è stata attribuita, in esito a nuova perizia, alla stessa Kn.. Come si dirà in prosieguo, pacifica l'attribuzione delle tracce A e I all'odierna ricorrente, il riferimento della traccia B alla K. non può avere - per le già dette ragioni - carattere di certezza, trattandosi di low copy number, dunque di campione di esigua entità, tale da consentire una sola amplificazione (f. 214). Ma da nessuna parte risulta che il coltello recasse tracce biologiche riferibili al profilo genetico del S..

9. I rilevati errores in iudicando e le denunciate incongruenze logiche inficiano, funditus, la sentenza impugnata che, merita, pertanto, di essere cassata.

Le dette ragioni invalidanti si compendiano nella mancata prospettazione di un quadro probatorio che possa reputarsi, realmente, idoneo a supportare una statuizione di colpevolezza oltre il limite del ragionevole dubbio, a mente dell'art. 533 cod. proc. pen., nel testo novellato dalla L. n. 46 del 2006, art. 5.

In ordine alla discussa portata precettiva, o meno, della norma ed ai possibili riflessi sul versante della valutazione delle prove, questa Corte di legittimità ha avuto più volte occasione di ribadire che la previsione normativa della regola di giudizio dell'"al di là di ogni ragionevole dubbio", che trova fondamento nel principio costituzionale della presunzione di innocenza, non ha introdotto un diverso e più restrittivo criterio di valutazione della prova, ma ha codificato il principio giurisprudenziale secondo cui la pronuncia di condanna deve fondarsi sulla certezza processuale della responsabilità dell'imputato (Sez. 2, n. 7035 del 09/11/2012, dep. 2013, De Bartolomei, Rv. 254025; Sez. 2, n. 16357 del 02/04/2008, Crisiglione, Rv. 239795).

Non si tratta, in buona sostanza, di un principio innovativo o "rivoluzionario", ma della mera formalizzazione, con carattere ricognitivo, di una regola di giudizio già presente nell'esperienza giudiziaria del nostro Paese e, peraltro, già positivizzata, siccome formalmente acquisita in tema di condizioni per la condanna, stante la preesistente regola, di cui all'art. 530 c.p.p., comma 2, per la quale, in caso di insufficienza o contraddittorietà della prova, l'imputato deve essere assolto (Sez. 1, n. 30402 del 28/06/2006, Volpon, Rv. 234374).

Sulla base di tali premesse si è, poi, consolidato il principio secondo cui la regola di giudizio compendiata nella formula "al di là di ogni ragionevole dubbio", impone di pronunciare condanna a condizione che il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulagli e prospettabili come possibili "in rerum natura", ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benchè minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell'ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (Sez. 2, n. 2548 del 19/12/2014, dep. 2015, Segura, Rv. 262280); con le correlate enunciazioni che alternative ricostruzioni della vicenda devono poggiare su affidabili elementi probatori, in quanto il dubbio che le ispiri non può fondarsi su ipotesi meramente congetturali, ancorchè plausibili, ma deve essere caratterizzato da razionalità (cfr. Sez. 4, n. 22257 del 25/03/2014, Guernelli, Rv. 259204; Sez. 1, n. 17921 del 03/03/2010, Giampà, Rv. 247449; Sez. 1, n. 23813 del 08/05/2009, Manikam, Rv. 243801).

9.1. L'insieme intrinsecamente contraddittorio del compendio probatorio, la cui oggettiva perplessità è enfatizzata dal già evidenziato andamento ondivago della vicenda processuale, non consente allora di ritenere superato lo standard della ragionevolezza del dubbio, la cui consacrazione è conquista di civiltà giuridica, che va sempre e comunque tutelata in quanto espressione di fondamentali valori costituzionali, coagulati attorno al ruolo centrale della persona nell'ordinamento giuridico, alla cui tutela è anche funzionale, in ambito processuale, il principio della presunzione di innocenza sino ad accertamento definitivo, di cui all'art. 27, comma 2, Carta Costituzionale.

9.2. I termini del l'oggetti va contraddittorietà possono, come di seguito, puntualizzarsi per ciascun ricorrente, in una sinottica prospettazione di elementi favorevoli all'ipotesi della colpevolezza e di elementi di segno contrario, così come, ovviamente, risultano dal testo della sentenza impugnata e delle precedenti pronunce.

9.3. All'esame degli anzidetti profili giova, di certo, tener conto che, pacifica la commissione dell'omicidio in (OMISSIS), l'ipotizzata presenza nell'abitazione degli odierni ricorrenti, non può, di per sè, essere ritenuta elemento dimostrativo di colpevolezza. Nell'approccio valutativo al problematico compendio probatorio, come offerto dal giudice del rinvio, non può non tenersi conto delle categorie giuridiche della mera connivenza non punibile e del concorso di persone nel reato commesso da altri e del discrimen tra le stesse, come scolpito da indiscusso insegnamento giurisprudenziale di legittimità.

In proposito, è ius receptum che la distinzione risiede nel fatto che la prima postula che l'agente mantenga un comportamento meramente passivo, inidoneo ad apportare alcun contributo alla realizzazione del reato, mentre il secondo richiede un contributo partecipativo positivo - morale o materiale - all'altrui condotta criminosa, anche in forme che agevolino o rafforzino il proposito criminoso del concorrente (Sez. 4, n. 4055 del 12/12/2013, dep. 2014, Benocci, Rv.

258186; Sez. 6, n. 44633 del 31/10/2013, Dioum, Rv. 257810; Sez. 5, n. 2805 del 22/03/2013, dep. 2014, Grosu, Rv. 258953). Parimenti pacifico è il riflesso di siffatta distinzione sulla dimensione soggettiva, posto che nel concorso di persone nel reato l'elemento soggettivo si risolve nella consapevole rappresentazione e nella volontà del partecipe di cooperare con altri soggetti alla comune realizzazione della condotta delittuosa (Sez. 1, n. 40248 del 26/09/2012, Mazzotta, Rv. 254735).

9.4. Orbene, un dato di indubbia pregnanza a favore degli odierni ricorrenti, nel senso di escludere la loro partecipazione materiale all'omicidio, pur nell'ipotesi della loro presenza in casa di (OMISSIS), consiste proprio nell'assoluta mancanza di tracce biologiche a loro riferibili (all'infuori del gancetto di cui si dirà più oltre) nella stanza dell'omicidio o sul corpo della vittima, ove invece sono state rivenute numerose tracce riferibili al G..

Incontrovertibile è l'impossibilità che sulla scena dell'omicidio (peraltro costituita da una stanza di piccole dimensioni: mi 2,91x3,36, come da planimetria riprodotta a f. 76) non fossero residuate tracce riferibili agli odierni ricorrenti, in caso di loro partecipazione all'uccisione della K..

Nessuna traccia ad essi imputabile è stata, in particolare, rinvenuta sulla felpa indossata dalla vittima al momento dell'aggressione nè sulla sottostante maglietta, come avrebbe dovuto essere in caso di partecipazione all'azione omicidiaria (invece, su una manica della detta felpa furono rinvenute tracce del G.: ff.

179-180).

L'anzidetta circostanza negativa fa da pendant al dato, già evidenziato, dell'assoluta impraticabilità dell'ipotesi di una postuma pulizia selettiva, capace di rimuovere determinate tracce biologiche lasciandone altre.

9.4.1. Tanto premesso, si osserva ora, quanto alla posizione di Kn.Am., che la sua presenza nell'abitazione, teatro dell'omicidio, è dato conclamato nel processo, alla stregua delle sue stesse ammissioni, contenute anche nel memoriale a sua firma, nella parte in cui riferisce che, trovandosi in cucina, dopo che la giovane inglese ed altra persona si erano appartati nella stanza della stessa K. per un rapporto sessuale, aveva sentito un urlo straziante dell'amica, al punto lacerante ed insostenibile da lasciarsi scivolare, accovacciata a terra, tenendo ben strette le mani alle orecchie per non sentire altro. In proposito, è certamente condivisibile il giudizio di attendibilità espresso dal giudice a quo con riferimento a questa parte della narrazione dell'imputata, sul plausibile riflesso che fu proprio lei ad accennare, per la prima volta, ad un possibile movente sessuale dell'omicidio ed a parlare dell'urlo straziante della vittima, quando ancora gli inquirenti non disponevano degli esiti dell'ispezione cadaverica e degli esami autoptici nè delle informazioni testimoniali successivamente raccolte sull'urlo della vittima e sull'ora in cui fu percepito (testi Ca.Na., M.A. ed altri). Si fa riferimento, in particolare, alle dichiarazioni rese dall'odierna ricorrente il 6.11.2007 (f. 96), nei locali della Polizia di Stato.

D'altro canto, le stesse dichiarazioni calunniose nei confronti del L., che le sono valse la condanna, con statuizione ormai coperta da giudicato, avevano come presupposto del narrato proprio la presenza della giovane statunitense nella casa di (OMISSIS), circostanza questa di cui nessuno, in quel momento - all'infuori, come è ovvio, delle altre persone presenti in casa - poteva essere a conoscenza (cit. f. 96).

Secondo il dire calunnioso della Kn., in compagnia del L., incontrato per caso in (OMISSIS), ella aveva fatto rientro a casa in (OMISSIS) e lì, sopraggiunta la K., il suo accompagnatore aveva rivolto attenzioni sessuali alla giovane inglese, con la quale si era quindi appartato nella camera della stessa, da cui era poi venuto l'urlo straziante. Insomma, era stato L. ad uccidere M. e ciò poteva affermarlo in quanto lei stessa si trovava sul luogo del delitto, sia pure in stanza diversa.

Altro elemento a suo carico è rappresentato dalle tracce di dna misto, suo e della vittima, nel "bagno piccolo", ad eloquente riprova che era, comunque, venuta a contatto con il sangue di quest'ultima, che cercò di lavare (si trattava, a quanto pare, di sangue dilavato, mentre le tacce biologiche a lei riferite sarebbero conseguenti a sfregamento epiteliale).

Il dato è di forte sospetto, ma non decisivo, a parte le ben note considerazioni sulla sicura natura e riferibilità delle tracce in questione.

Nondimeno, anche a ritenere certa l'attribuzione, l'elemento processuale sarebbe non univoco, siccome dimostrativo anche di un contatto postumo con quel sangue, nel probabile tentativo di rimuovere le più vistose tracce di quanto accaduto, forse per aiutare qualcuno o per allontanare da sè i sospetti, senza che ciò possa contribuire a dare certezza del suo diretto coinvolgimento nell'azione omicidiaria. Ogni ulteriore e più pregnante valenza sarebbe, infatti, comunque resistita dalla circostanza - questa sì decisiva - che nessuna traccia a lei riferibile è stata rinvenuta nel luogo del delitto o sul corpo della vittima, di talchè - a tutto concedere - il contatto con il sangue della stessa sarebbe avvenuto in un momento successivo ed in altro locale della casa.

Ulteriore elemento a suo carico è, di certo, rappresentato dalle stesse calunnie nei confronti del L., di cui si è detto.

Non è dato comprendere, infatti, quale ragione abbia potuto spingere la giovane statunitense a quelle gravi accuse. L'ipotesi che l'abbia fatto per sottrarsi alla pressione psicologica degli inquirenti appare assai fragile, tenuto conto che la donna non poteva non rendersi conto che, quanto prima, quelle accuse, rivolte al suo datore di lavoro, sarebbero state smentite, considerato che, come ben sapeva, nessun rapporto il L. aveva con la K. nè con la casa di (OMISSIS). Peraltro, la possibilità di esibire un alibi "di ferro" avrebbe, poi, consentito al L. la scarcerazione ed il successivo proscioglimento dalla grave accusa.

Nondimeno, anche la calunnia in questione si risolve in elemento indiziante a carico dell'odierna ricorrente nella misura in cui possa ritenersi iniziativa volta a coprire il G., che lei avrebbe avuto tutto l'interesse a proteggere per tema di ritorsive accuse nei suoi confronti. Il tutto avvalorato dal fatto che il L., come il G., è uomo di colore, donde l'affidabile riferimento al primo, per l'ipotesi che l'altro potesse essere stato visto da qualcuno entrare od uscire dall'appartamento.

Ed ancora, viene in rilievo - in chiave accusatoria - la contestata simulazione del furto nella stanza della R., alla stregua di elementi di forte sospetto (collocazione dei frammenti di vetro - provenienti, all'apparenza, dalla rottura del vetro di un'anta della finestra provocata dal lancio di un sasso dall'esterno - sopra, ma anche sotto vestiti ed arredi), la cui messinscena sarebbe riferibile a chi - autore dell'omicidio e titolare di un rapporto "qualificato" con l'abitazione - aveva interesse ad allontanare da sè i sospetti, ove invece un terzo assassino sarebbe stato animato da ben altra sollecitazione, dopo l'omicidio, ossia quella di lasciare precipitosamente l'appartamento. Ma anche tale elemento è sostanzialmente equivoco, specie alla luce del fatto che, all'arrivo della polizia postale, giunta in casa di (OMISSIS) per altra ragione (ricerca della R., intestatala di scheda telefonica apposta ad uno dei cellulari rinvenuti in (OMISSIS)), furono proprio gli odierni ricorrenti, segnatamente il S. - la cui posizione processuale è, indissolubilmente, avvinta a quella della Kn. - a far notare agli agenti l'anomalia della situazione, non risultando asportato alcunchè dalla stanza della R..

Elementi di forte sospetto si riconnettono anche alle incongruenze ed al mendacio in cui l'imputata è incorsa nelle diverse dichiarazioni rese, specie nella parte in cui il suo racconto risultava contraddetto dai tabulati telefonici attestanti una diversa provenienza di sms; dalle dichiarazioni testimoniali di Cu.

A., in ordine alla presenza della stessa Kn. in piazza (OMISSIS), in compagnia del S., e di Q.M., relative alla sua presenza nel supermercato la mattina del giorno successivo all'omicidio, forse per l'acquisto di detersivi.

Nondimeno, i profili di intrinseca contraddittorietà e scarsa attendibilità dei testimoni, più volte eccepiti nel corso del processo di merito, non consentono di attribuire incondizionato credito alle relative versioni, sì da dimostrare, con tranquillante certezza, il fallimento, e dunque la falsità, dell'alibi offerto dall'imputata, che sosteneva di essere rimasta in casa del fidanzato dal tardo pomeriggio dell'1 novembre sino al mattino del giorno dopo.

Il Cu. (personaggio enigmatico: clochard, tossicodipendente e spacciatore di droga) - a parte la tardività delle sue dichiarazioni ed il fatto che non fosse alieno da protagonismo giudiziario in vicende processuali di forte impatto mediatico - era stato, peraltro, smentito nel riferimento alle comitive di ragazzi in partenza, quella sera, su corriere di linea in direzione di discoteche della zona, essendo stato accertato che, la sera dell'omicidio, il servizio autobus non era attivo; ed ancora il riferimento a maschere e scherzi, cui dice di avere assistito quella stessa sera, lascerebbe ritenere che si fosse trattato della festa di Halloween, del 31 ottobre, e non già dell'1 novembre, data dell'omicidio. Rilievo, quest'ultimo, all'apparenza bilanciato - ma pur sempre in un contesto di incertezza ed equivocità - dal riferimento del teste (quanto al contesto in cui avrebbe notato i due imputati assieme) al giorno precedente quello in cui vide (in orario pomeridiano) un inusuale movimento di Polizia e Carabinieri e, in particolare, uomini che indossavano tute e copricapo bianchi (quasi fossero extraterresti) entrare nella casa di (OMISSIS) (evidentemente il 2 novembre, dopo la scoperta del cadavere).

Il Q. - a parte la tardività anche delle sue dichiarazioni, inizialmente reticenti e generiche - non aveva offerto alcun contributo di certezza, neppure sui generi acquistati dalla giovane notata la mattina successiva all'omicidio, all'apertura del suo locale, a nulla rilevando il riconoscimento in aula della Kn., la cui immagine era apparsa su tutti i quotidiani e notiziari televisivi.

Quanto alle tracce biologiche, contrassegnate con la lettera A ed I (quest'ultima esaminata dai RIS), reperiate sul coltello sequestrato in casa S. e recanti il profilo genetico della Kn., si tratta di elemento neutro, posto che la stessa imputata conviveva con il S. proprio in casa di (OMISSIS), pur alternandosi nella residenza di (OMISSIS), e - per quanto si è detto - lo stesso utensile non recava tracce ematiche della K., circostanza negativa che contrastava l'ipotesi accusatoria che si trattasse proprio dell'arma del delitto.

In proposito, va ribadito che - ancora una volta per discutibile scelta strategica dei genetisti della Polizia scientifica - si ritenne di privilegiare l'indagine volta all'individuazione del profilo genetico nelle tracce repertate sul coltello, piuttosto che accertarne la natura biologica, posto che l'esigua quantità dei campioni non consentiva un doppio accertamento: l'esame qualitativo avrebbe, infatti, "consumato" il campione o reso inutilizzabile per ulteriori indagini. Opzione assai discutibile, in quanto l'individuazione di tracce ematiche, riferibili alla K., avrebbe consegnato al processo un dato di formidabile rilievo probatorio, certificando incontrovertibilmente l'utilizzo dell'arma per la consumazione dell'omicidio. L'accertata presenza della stessa in casa del S., con il quale conviveva la Kn., avrebbe consentito, poi, ogni possibile deduzione in merito. Invece, la riscontrata imputabilità delle tracce a profili genetici della Kn. si risolve in un dato non univoco ed anzi indifferente, posto che la giovane statunitense conviveva con il S., dividendosi tra la sua abitazione e quella di (OMISSIS). Non solo, ma anche ove fosse stato possibile attribuire con certezza la traccia B al profilo genetico della K., il dato processuale sarebbe stato non decisivo (non trattandosi di taccia ematica), tenuto conto della promiscuità o comunanza di relazioni interpersonali, tipica tra studenti fuori sede, che rendono plausibile che un coltello da cucina od altro utensile possa essere trasportato da una casa all'altra e che, dunque, il coltello in sequestro possa essere stato portato dalla Kn. in (OMISSIS) per uso domestico, in occasione di riunioni conviviali od altre evenienze, ed essere quindi usato anche dalla K..

Quel che è certo è che sul coltello non sono state rinvenute tracce di sangue, mancanza che non può essere riferita ad azione di accurata pulizia. Come esattamente notato dai difensori, il coltello recava tracce di amido, segno di ordinario uso domestico e di lavaggio tutt'altro che accurato. Non solo, ma l'amido è, notoriamente, sostanza dotata di notevole capacità assorbente, quindi, è assai verosimile che, in caso di accoltellamento, elementi ematici sarebbero stati da essa trattenuti.

E' del tutto implausibile, in proposito, l'assunto inquisitorio che la giovane fosse solita portare con sè l'ingombrante utensile a scopo di difesa personale, all'uopo utilizzando - si dice - la capace borsa in suo possesso. Non si riuscirebbe, per vero, ad intendere perchè mai la donna, allertata dal fidanzato alla dovuta attenzione nei suoi spostamenti serali, non fosse dotata alla bisogna di uno dei coltellini a serramanico certamente in possesso dello stesso S., a quanto pare appassionato di tal genere di arma e collezionista di un certo numero di esemplari.

Infine, è risultata tutt'altro che certa la riferibilità all'odierna ricorrente delle orme rinvenute nel luogo teatro dell'omicidio.

9.4.2. Anche per il S. il quadro probatorio, emergente dalla sentenza impugnata, risulta contrassegnato da intrinseca ed irriducibile contraddittorietà.

La sua presenza sul luogo dell'omicidio, e segnatamente nella stanza in cui fu commesso il delitto, è legato alla sola traccia biologica rinvenuta sul gancetto di chiusura del reggiseno (reperto 165/b), in ordine alla cui riferibilità non può, però, esservi certezza alcuna, giacchè quella traccia è insuscettibile di seconda amplificazione, stante la sua esiguità, di talchè si tratta - per quanto si è detto - di elemento privo di valore indiziario.

Resta, nondimeno, forte il sospetto che egli fosse, realmente, presente nella casa di (OMISSIS), la notte dell'omicidio, in un momento, però, che non è stato possibile determinare.

D'altro canto, certa la presenza della Kn. in quella casa, appare scarsamente credibile che egli non si trovasse con lei.

Ed anche a seguire una delle versioni rese dalla donna, ossia quella secondo cui, al rientro nell'abitazione, la mattina del 2 novembre, dopo la notte trascorsa in casa del fidanzato, si sarebbe subito resa conto che era accaduto qualcosa di strano (porta aperta, tracce ematiche dappertutto); od anche l'altra, riprodotta nel memoriale, secondo cui, presente in casa al momento dell'omicidio, ma in stanza diversa da quella in cui si stava consumando la feroce aggressione alla K., è assai strano che non abbia chiamato subito il fidanzato, non risultando che vi sia stata alcuna telefonata tra i due, in base agli acquisiti tabulati telefonici. Tanto più che, da poco tempo in Italia, era presumibilmente ignara sul da farsi in simili emergenze, sicchè la prima e forse sola persona alla quale chiedere aiuto avrebbe dovuto essere proprio il fidanzato, che abitava a poche centinaia di metri da casa sua. Non averlo fatto sta a significare che il S. era con lei, impregiudicata, ovviamente, la rilevanza giuridica della mera presenza in quella casa, in mancanza di prova certa di un suo contributo causale all'azione omicidiaria.

A fugare tali, forti, sospetti non è certamente sufficiente l'argomento difensivo, che allega l'interazione al computer per la visione di un cartone animato, scaricato da internet, in orario asseritamente incompatibile con l'ora della morte della K.. Ed infatti, anche a seguire l'impegnata ricostruzione difensiva ed a ritenere per certo che l'interazione appartenga proprio al S. e che egli abbia assistito all'intera proiezione, l'orario del fine-collegamento non sarebbe incompatibile con la successiva presenza in casa della K., tenuto conto della breve distanza intercorrente tra le due case, percorribile in una decina di minuti.

Elemento di forte sospetto discende, poi, dalla conferma, in sede di spontanee dichiarazioni, dell'alibi offerto dalla Kn., sulla presenza di entrambi in casa dell'odierno ricorrente, la sera dell'omicidio, tesi che sarebbe stata smentita dalle dichiarazioni del Cu., che aveva dichiarato dr aver visto i due fidanzati assieme, dalle 21,30 a 24 in (OMISSIS); e dal Q. sulla presenza di una giovane, poi identificata nella Kn., all'apertura del suo esercizio commerciale, la mattina del 2 novembre. Ma, come si è osservato in precedenza, le dette dichiarazioni testimoniali presentavano forti margini di equivocità ed approssimazione, sì da non poter, ragionevolmente, costituire fondamento di alcuna certezza, al di là del problematico giudizio di attendibilità soggettiva espresso dal giudice a quo.

Ennesimo elemento di sospetto risiede nel sostanziale fallimento dell'alibi legato ad altre, asserite, interazioni umane nel computer di appartenenza, pur se non è dato parlare di alibi falso, essendo più appropriato parlare di alibi non riuscito.

Nessuna certezza, infine, si è potuta acquisire sulla riferibilità al S. delle orme rinvenute in casa di (OMISSIS), rispetto alle quali gli accertamenti tecnici compiuti non sono andati oltre un giudizio di "probabile identità" e non già di certezza (ff. 260/1).

9.4.3. E' appena il caso di osservare, da ultimo che il giudizio di mancanza di un quadro probatorio coerente e sufficiente a sostenere l'ipotesi accusatoria riguardante la più grave fattispecie dell'omicidio non può che riverberarsi sulle residue, accessorie, imputazioni di cui ai capi d) (furto limitato ai cellulari) ed e) (simulazione di reato).

10. L'intrinseca contraddittorietà degli elementi probatori, emergente dal testo della sentenza impugnata, inficia in nuce il tessuto connettivo della stessa pronuncia comportandone l'annullamento.

Ed infatti, in presenza di uno scenario contrassegnato da tanta contraddittorietà il giudice del rinvio non avrebbe potuto pronunciare sentenza di condanna, ma - come, in precedenza, osservato - era tenuto ad emettere statuizione assolutoria, a mente dell'art. 530 c.p.p., comma 2.

Resta, a questo punto, da risolvere l'ultimo interrogativo, in ordine alla formula dell'annullamento - cioè, se debba essere disposto con o senza rinvio - la cui soluzione è, ovviamente, correlata alla possibilità oggettiva di ulteriori accertamenti, che possano dipanare i profili di perplessità, offrendo risposte di certezza, magari attraverso nuove indagini tecniche.

La risposta è certamente negativa. Ed infatti, le tracce biologiche sui reperti di interesse investigativo sono di esigua entità, come tali insuscettive di amplificazione e, dunque, destinate a non rendere risposte di sicura affidabilità, nè in termini di identità nè in termini di compatibilità.

I computer di Kn.Am. e della K., che, forse, avrebbero potuto dare notizie utili alle indagini, sono stati, incredibilmente, bruciati da improvvide manovre degli inquirenti, che hanno causato shock elettrico per verosimile errore di alimentazione; e non possono più dare alcuna informazione, trattandosi di danno irreversibile.

Il panorama delle prove dichiarative è esaustivo, stante l'accuratezza e completezza dell'istruttoria dibattimentale, rinnovata in entrambi i giudizi di rinvio.

Il G., accertato compartecipe dell'omicidio, si è sempre rifiutato di collaborare e, per le già dette ragioni, non può essere obbligato a deporre.

Gli accertamenti tecnici richiesti dalla difesa non possono garantire alcun contributo di chiarezza, non solo per il tempo trascorso, ma in quanto attinenti a profili di problematico accertamento (quale la possibilità di pulizia selettiva) o di palese irrilevanza (perizia informatica sul computer del S.), stante la riferita possibilità per lo stesso, quale che sia la durata dell'interazione (anche ammesso che gli appartenga davvero), di recarsi in casa della K. o di palese superfluità, stante la completezza di ineccepibili indagini tecniche espletate (quali, ad esempio, l'ispezione cadaverica ed i successivi accertamenti medico-legali).

Alla stregua delle superiori considerazioni, è evidente che il rinvio sarebbe inutile, donde la declaratoria di annullamento senza rinvio, ai sensi dell'art. 620, lett. l), codice di rito, applicando, dunque, una formula di proscioglimento alla quale sarebbe comunque tenuto un nuovo giudice di rinvio, in ossequio ai principi di diritto enunciati nella presente sentenza.

L'annullamento della sentenza di condanna della Kn. in ordine al reato ascritto al capo A), comporta l'esclusione dell'aggravante del nesso teleologico di cui all'art. 61 c.p., n. 2. L'esclusione della detta circostanza rende necessaria la rideterminazione della pena, che va quantificata nella stessa misura fissata dalla Corte d'appello di Perugia, della cui adeguatezza è stata resa ampia e compiuta giustificazione, sulla base di parametri di determinazione che vanno interamente condivisi.

E' appena il caso di soggiungere che l'esito del giudizio consente di ritenere assorbita o, implicitamente, disattesa ogni altra eccezione, deduzione o richiesta difensiva, mentre ogni altro profilo argomentativo, tra quelli non esaminati, va ritenuto inammissibile siccome, palesemente, afferente al merito.

11. Per quanto precede, non resta che provvedere come da dispositivo.

P.Q.M.
Visto l'art. 620 c.p.p., lett. a), annulla senza rinvio la sentenza impugnata in ordine al reato di cui al capo b) della rubrica per essere il reato estinto per prescrizione;

visti l'art. 620 c.p.p., lett. l) e art. 530 c.p.p., comma 2; esclusa l'aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 2, in relazione al delitto di calunnia, annulla senza rinvio la sentenza impugnata in ordine ai reati di cui ai capi a), d) ed e) della rubrica per non avere i ricorrenti commesso il fatto.

Ridetermina la pena inflitta alla ricorrente Kn.Am.Ma. per il delitto di calunnia in anni tre di reclusione.

Così deciso in Roma, il 27 marzo 2015.

Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2015