Non integra il reato di resistenza a publico ufficiale la condotta consistente nel mero divincolarsi posto in essere da un soggetto fermato dalla polizia giudiziaria per sottrarsi al controllo, quando lo stesso si risolva in un atto di mera resistenza passiva, implicante un uso moderato di violenza non diretta contro il pubblico ufficiale.
Quando non sussiste prova di un comportamento volto ad operare un diretto condizionamento dell'azione degli agenti, attraverso una condotta oppositiva diretta, con violenza o minaccia, ad ostacolarne o impedirne l'attività istituzionale, deve escludersi la natura violenta dell'azione e concludersi che questa si è risolta in una mancata collaborazione, non sufficiente ad integrare il reato.
Per poter configurare il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, il requisito della pluralità di persone alla cui presenza deve svolgersi la condotta oltraggiosa è integrato unicamente da persone estranee alla pubblica amministrazione (ossia dai "civili") ovvero da persone che, pur rivestendo la qualifica di pubblico ufficiale, siano presenti in quel determinato contesto spazio-temporale non per lo stesso motivo d'ufficio in relazione al quale la condotta oltraggiosa sia posta in essere dall'agente.
È indispensabile, quindi, che la frase oltraggiosa raggiunga persone estranee non soltanto ai pubblici ufficiali direttamente investiti dalle offese, ma anche alle pubbliche funzioni in corso di svolgimento, atteso che solo in tali condizioni può crearsi il pericolo alla considerazione sociale ed all'autorevolezza della pubblica amministrazione.
Corte di Cassazione
sez. VI penale
ud. 18 gennaio 2022 - deposito 23 febbraio 2022 n. 6604
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 12 gennaio 2021 la Corte di appello di Genova, in riforma della sentenza pronunciata dal Tribunale di Genova il 3 maggio 2017 nei confronti di A.P. , appellante anche nella qualità di parte civile, ha ordinato la trasmissione degli atti al Pubblico Ministero presso il Giudice di pace di Genova con riferimento all'ipotesi di reato di cui all'art. 590 c.p. - così riqualificata, nei confronti del predetto, l'originaria contestazione del reato ex art. 582 c.p., art. 583 c.p., comma 1, 61, n. 9, di cui al capo A) - ed ha altresì revocato la provvisionale liquidata a suo carico nei confronti di P.G. quale parte civile, dichiarando costui responsabile, ai soli effetti civili, dei reati contestatigli ex art. 81 cpv., artt. 337 e 341-bis c.p..
Con la medesima pronuncia, inoltre, la Corte d'appello ha condannato il P. al risarcimento dei danni in favore della parte civile A.P., da liquidarsi in separato giudizio civile, oltre alla rifusione in suo favore delle spese processuali per entrambi i gradi di giudizio.
2. Nell'interesse di P.G. ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia, deducendo cinque motivi il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente illustrato.
2.1. Con un primo motivo si deduce l'erronea applicazione dell'art. 337 c.p., là dove la sentenza impugnata, in riforma della sentenza assolutoria di primo grado, ha affermato la responsabilità dell'imputato nonostante la condotta a lui ascritta non avesse comportato alcun atto di violenza verso l'Assistente di Polizia A.P. Nel caso in esame, infatti, l'unico atto riferibile al P. è consistito nel sollevamento del braccio destro, senza esercitare alcuna forma di violenza diretta nei confronti del pubblico ufficiale, come del resto riconosciuto dalla stessa Corte d'appello, tanto che nella prima decisione era stata già esclusa la presenza di elementi di "resistenza attiva" in tale comportamento.
2.2. Con un secondo motivo si deducono violazioni di legge ex art. 192 c.p.p., comma 3, art. 197-bis c.p.p., per avere la Corte di appello omesso di valutare la sussistenza o meno di riscontri oggettivi a sostegno di quanto dichiarato dal predetto pubblico ufficiale, nonostante la sua qualità di teste assistito. Si assume, al riguardo, il carattere meramente valutativo delle dichiarazioni rese da altro teste, l'Ispettore capo S., che nel riferirsi al comportamento del P. si è limitato ad affermare che egli "cercò di fare una resistenza, cioè sembrava obiettare dal fatto di seguirlo", senza fornire elementi oggettivi e specifici di riscontro della sua colpevolezza.
2.3. Con un terzo motivo si deduce la violazione dell'art. 603 c.p.p., comma 3-bis, per avere la Corte d'appello riformato la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento delle dichiarazioni testimoniali rese dall'Ispettore S., senza disporre la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale nonostante la loro rilevanza ai fini della decisione.
2.4. Con un quarto motivo si deducono violazioni di legge in relazione alla configurabilità del delitto di oltraggio, la cui sussistenza è stata ritenuta solo sulla base dell'asserita percepibilità, da parte di terzi, delle ingiurie che il ricorrente avrebbe proferito, senza accertare al riguardo l'effettiva presenza di una pluralità di persone.
2.5. Con un quinto motivo, infine, si lamentano vizi della motivazione là dove la Corte d'appello ha implicitamente affermato la sussistenza del dolo nel delitto di oltraggio, omettendo di valutare la necessaria consapevolezza, da parte dell'imputato, dell'effettiva presenza di una pluralità di persone.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è fondato e va accolto per le ragioni di seguito indicate.
2. In ordine al primo motivo deve rilevarsi come i fatti accertati non corrispondano alla fattispecie incriminatrice di cui all'art. 337 c.p.
La sentenza impugnata ha richiamato la dinamica dei fatti sì come ricostruita dal primo Giudice, ponendo in evidenza, sulla base di quanto riferito da un teste (ossia dall'Ispettore di Polizia R.S. ), la circostanza che al momento del fatto, ossia della identificazione del P. da parte dell'Assistente di Polizia A.P. , in conseguenza dell'avviso di contestazione di un'infrazione al codice stradale e della correlata attività di verifica dei documenti necessari alla circolazione del suo veicolo, l'odierno ricorrente, che in precedenza aveva alzato il braccio destro come per sottrarsi all'invito a seguirlo, "cercò di fare una resistenza, cioè sembrava obiettare dal fatto di seguirlo".
Al riguardo, tuttavia, la sentenza di primo grado, nell'escludere la configurabilità del delitto di resistenza, aveva altresì posto in rilievo, sulla base delle medesime emergenze probatorie, che nella richiamata circostanza di fatto il P. aveva afferrato il P. con la mano destra per attrarlo nella propria direzione e che quest'ultimo non aveva obbedito, sicché il pubblico ufficiale aveva dovuto usare la forza per portarlo in Commissariato, attraversando la strada mentre lo teneva sempre alla propria sinistra, "dopo averlo afferrato per il braccio destro e cinturato con il sinistro, perché P. si rifiutava di entrare e si svincolava".
Assente, dunque, doveva ritenersi, sì come correttamente affermato nella prima decisione di merito, qualsiasi atto di violenza nei confronti del pubblico ufficiale, tale non potendosi ritenere il mero sollevamento di un braccio.
Nè l'impressione, di tipo meramente dubitativo, su un eventuale atto di resistenza tradottosi nel rifiutarsi di seguire il pubblico ufficiale può essere equiparato ad una vera e propria condotta oppositiva.
Invero, secondo un pacifico insegnamento di questa Suprema Corte (Sez. 6, n. 10136 del 06/11/2012, dep. 2013, Roccia, Rv. 254764), non integra il delitto di cui all'art. 337 c.p., la condotta consistente nel mero divincolarsi posto in essere da un soggetto fermato dalla polizia giudiziaria per sottrarsi al controllo, quando lo stesso si risolva in un atto di mera resistenza passiva, implicante un uso moderato di violenza non diretta contro il pubblico ufficiale.
Nell'ipotesi, giustappunto verificatasi nel caso in esame, in cui non sussista prova di un comportamento volto ad operare un diretto condizionamento dell'azione degli agenti, attraverso una condotta oppositiva diretta, con violenza o minaccia, ad ostacolarne o impedirne l'attività istituzionale, deve escludersi la natura violenta dell'azione e concludersi che questa si è risolta in una mancata collaborazione, non sufficiente ad integrare il reato (cfr., in motivazione, Sez. 6, n. 6069 del 13/01/2015, Malcangi, Rv. 262342).
Logicamente assorbite, pertanto, devono ritenersi le doglianze oggetto del secondo e del terzo motivo di ricorso.
3. Analoghe considerazioni devono svolgersi in ordine alla configurabilità del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, avuto riguardo alla pacifica ricostruzione dei fatti operata dal Giudice di primo grado, là dove ha ritenuto indimostrata la necessaria sussistenza dell'elemento costitutivo della presenza di una pluralità di persone al momento del fatto, ossia quando, nelle medesime circostanze dianzi richiamate, il P. proferì frasi dal contenuto ingiurioso all'indirizzo dell'Assistente di Polizia A.P. .
A tal riguardo, invero, la prima decisione di merito, nell'escludere la configurabilità del reato de quo, ha osservato che uno dei testi (il Sovrintendente L.A. ) ha dichiarato "di non aver percepito bene le parole del dialogo", mentre un altro testimone (l'Ispettore S. ) ha a sua volta affermato di aver udito, dal corridoio dell'ufficio che stava percorrendo, due espressioni ingiuriose provenienti dal corpo di guardia.
Il primo Giudice, conclusivamente, riteneva non provata la circostanza che i passanti avessero colto l'offesa, osservando come apparisse poco verosimile il fatto che gli eventuali avventori dei limitrofi esercizi commerciali (ossia di un bar e di un supermercato ubicati ad una maggiore distanza dal punto in cui si trovava il Sovrintendente A. ) potessero percepire il tenore delle espressioni pronunziate in quella circostanza dal P. .
Nel riformare sul punto la prima decisione, la Corte distrettuale ha posto in rilievo, di contro, la circostanza che, in considerazione della limitrofa esistenza del supermercato e del bar, le espressioni ingiuriose avrebbero potuto essere udite dagli astanti.
Ciò posto, deve rilevarsi come la sentenza impugnata non abbia fatto buon governo dei principii affermati da questa Suprema Corte (Sez. 6, n. 30136 del 09/06/2021, Leocata, Rv. 281838), secondo cui, in tema di oltraggio, l'offesa all'onore ed al prestigio del pubblico ufficiale deve avvenire alla presenza di almeno due persone, tra le quali non possono computarsi quei soggetti che, pur non direttamente attinti dall'offesa, assistano alla stessa nello svolgimento delle loro funzioni.
Ai fini della integrazione del delitto in esame è dunque necessario, secondo il richiamato insegnamento di questa Corte, che l'offesa attinga l'apprezzamento di sé del pubblico ufficiale sia nella dimensione personale, sia nella dimensione funzionale e sociale, potendosi giustificare la tutela assicurata ai pubblici ufficiali dalla fattispecie di cui all'art. 341-bis c.p., rafforzata rispetto a quella dei comuni cittadini, soltanto allorché sia minata, più che la reputazione del singolo esponente, la reputazione dell'intera pubblica amministrazione.
Per tale ragione, il requisito della pluralità di persone alla cui presenza deve svolgersi la condotta oltraggiosa è integrato unicamente da persone estranee alla pubblica amministrazione (ossia dai "civili") ovvero da persone che, pur rivestendo la qualifica di pubblico ufficiale, siano presenti in quel determinato contesto spazio-temporale non per lo stesso motivo d'ufficio in relazione al quale la condotta oltraggiosa sia posta in essere dall'agente.
È indispensabile, quindi, che la frase oltraggiosa raggiunga persone estranee non soltanto ai pubblici ufficiali direttamente investiti dalle offese, ma anche alle pubbliche funzioni in corso di svolgimento, atteso che solo in tali condizioni può crearsi il pericolo alla considerazione sociale ed all'autorevolezza della pubblica amministrazione.
V'è altresì da considerare che solo ove risulti accertata, nei termini or ora precisati, la circostanza di fatto relativa alla presenza di una pluralità di persone, il reato potrà ritenersi integrato dalla mera possibilità della percezione dell'offesa da parte dei presenti (Sez. 6, n. 29406 del 06/06/2018, Ramondo, Rv. 273466).
Parimenti assorbito, pertanto, deve ritenersi l'ultimo motivo di ricorso.
4. Sulla base delle su esposte considerazioni s'impone, conclusivamente, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, secondo la correlativa formula in dispositivo meglio indicata.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il fatto non sussiste.