Home
Lo studio
Risorse
Contatti
Lo studio

Decisioni

Registrare una conversazione con la polizia è reato? (Cass. 18908/11)

13 maggio 2011, Cassazione penale

Non è illecito registrare una conversazione perchè chi conversa accetta il rischio che la conversazione sia documentata mediante registrazione, ma è violata la privacy se si diffonde la conversazione per scopi diversi dalla tutela di un diritto proprio o altrui.

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
SENTENZA 24 MARZO – 13 MAGGIO 2011, N. 18908

Svolgimento del processo – Motivi della decisione


Con ordinanza 13.07.2010 il Tribunale di Tempio Pausania rigettava l’istanza di riesame proposta da M.M. avverso il decreto di convalida del sequestro di una penna in cui erano incorporati un microfono e una telecamera perchè sicuramente utilizzata per registrare due conversazioni tra presenti avvenute, la prima, col maresciallo C. all’interno degli uffici della Guardia di Finanza di (OMISSIS) e, la seconda, col maggiore A. nel bar adiacente agli uffici.
Il sequestro veniva convalidato per le opportune indagini in relazione all’ipotesi criminosa di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 167.
Il Tribunale riteneva che la registrazione audiovisiva da parte del M. delle suddette conversazioni, all’insaputa degli interlocutori, integrasse la fattispecie di trattamento di dati personali senza autorizzazione poichè l’attività d’investigatore privato svolta dall’indagato portava a ritenere che i dati indebitamente acquisiti fossero destinati alla diffusione a terzi.
Sussistevano le esigenze probatorie essendo necessario accertare l’eventuale destinazione a terzi dei dati raccolti e verificare se detta diffusione fosse finalizzata a procurare profitto al M. con danno per i titolari dei dati personali acquisiti.
Avverso l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’indagato denunciando violazione di legge sulla sussistenza del fumus dovendosi considerare che la registrazione si era svolta tra presenti; che la stessa era stata effettuata per fini esclusivamente personali senza alcuna possibilità di ipotizzare l’eventuale diffusione e che non vi era alcun elemento denotante che dal fatto, potesse derivare un profitto per l’agente o un danno per il soggetto passivo.
Chiedeva l’annullamento dell’ordinanza.

Il ricorso è infondato e deve essere rigettato con le conseguenze di legge.

L’art. 167 (Trattamento illecito di dati) del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, al comma 1, dispone che “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, alfine di trame per sè o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli artt. 18, 19, 23, 123, 126 e 130, ovvero in applicazione dell’art. 129, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da sei a diciotto mesi o, se il fatto consiste nella comunicazione o diffusione, con la reclusione da sei a ventiquattro mesi”, mentre al secondo comma dispone che “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, alfine di trame per sè o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli artt. 17, 20 e 21, 22, commi 8 e 11, 25, 26, 27 e 45, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da uno a tre anni”.

Nel caso in esame, poichè non si tratta di dati sensibili o giudiziali, ovvero di dati idonei a rivelare lo stato di salute, non è prospettabile alcuna violazione al disposto dell’art. 18 (che riguarda i trattamenti effettuati da soggetti pubblici), o dell’art. 19 (che riguarda il trattamento e la comunicazione da parte di soggetti pubblici di dati diversi da quelli sensibili e giudiziali), o agli artt. 123, 126 e 130 (che riguardano i dati relativi al traffico o all’ubicazione ovvero le comunicazioni indesiderate nell’ambito delle comunicazioni elettroniche), o dell’art. 129 (che riguarda la formazione degli elenchi di abbonati), o dell’art. 17 (che riguarda il trattamento di dati che presentano rischi specifici per i diritti e le libertà fondamentali e per la dignità dell’interessato), o dell’art. 20 (che riguarda il trattamento di dati sensibili), o dell’art. 21 (che riguarda il trattamento di dati giudiziali), o dell’art. 22 (che riguarda i dati idonei a rivelare lo stato di salute), o degli artt. 26 e 27 (che riguardano rispettivamente i dati sensibili e i dati giudiziali) o dell’art. 45 (che riguarda il trasferimento di dati fuori dal territorio dello Stato) o dell’art. 25, comma 1, il quale dispone che “la comunicazione e la diffusione sono vietate, oltre che in caso di divieto disposto dal Garante o dall’autorità giudiziaria: a) in riferimento a dati personali dei quali è stata ordinata la cancellazione, ovvero quando è decorso il periodo di tempo indicato nell’art. 11, comma 1, lett. e); b) per finalità diverse da quelle indicate nella notificazione del trattamento, ove prescritta”.

Ricordato che il D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 4, comma 1, lett. a), prevede che per trattamento s’intende “qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l’ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dati”, sarebbe, quindi, in astratto ipotizzarle la sola violazione dell’art. 23, comma 1, il quale dispone che “Il trattamento di dati personali da parte di privati o di enti pubblici economici è ammesso solo con il consenso espresso dell’interessato”.

L’art. 23, pertanto, si riferisce non solo al trattamento dei dati, ma anche alla loro comunicazione e diffusione, vietando anche le stesse senza consenso dell’interessato.

La suddetta disposizione e il divieto in essa previsto vanno, però, interpretati e integrati tenendo conto anche della disposizione di cui all’art. 5, che fissa l’oggetto e l’ambito di applicazione della disciplina dettata dal testo unico.

L’art. 5, comma 3, infatti, prevede che il trattamento (e quindi la comunicazione) di dati personali effettuato da persone fisiche per fini esclusivamente personali è soggetto all’applicazione delle disposizioni di cui al TU, solo se i dati sono destinati a una comunicazione sistematica o alla diffusione.
esclusivamente personali, il soggetto è tenuto a rispettare le disposizioni del TU, ivi comprese quelle in tema di obbligo di consenso espresso dell’interessato per il trattamento, solo quando i dati raccolti e trattati sono destinati alla comunicazione sistematica e alla diffusione.

In altri termini, non è illecito registrare una conversazione perchè chi conversa accetta il rischio che la conversazione sia documentata mediante registrazione, ma è violata la privacy se si diffonde la conversazione per scopi diversi dalla tutela di un diritto proprio o altrui.

Tanto premesso, va rammentato che, “poichè il sequestro probatorio non è una misura cautelare, ma un mezzo di ricerca della prova, esso presuppone non l’accertamento dell’esistenza di un reato, ma la semplice indicazione degli estremi di un reato astrattamente configurabile. La motivazione del relativo decreto, pertanto, più che all’esistenza e alla configurabilità del reato (il cui accertamento è riservato alla fase di merito), deve avere principalmente riferimento alla natura e alla destinazione delle cose da sequestrare, le quali devono essere qualificabili come “corpo del reato” o cose pertinenti al reato” Cassazione sez. 5, n. 703, 8.02.1999, Circi, RV 212778.

Quindi, perchè il sequestro a fini probatori di cose pertinenti a fatti di reato (art. 253 c.p.p.) sia legittimo, non è necessario che il fatto sia accertato, ma è sufficiente che sia ragionevolmente presumibile o probabile attraverso elementi logici.

In tema di sequestro probatorio, al tribunale in sede di riesame compete il potere-dovere di espletare il controllo di legalità, sicchè l’accertamento del fomus commissi delicti va compiuto sotto il profilo della congruità degli elementi rappresentati, che non possono essere censurati in punto di fatto per apprezzarne la coincidenza con le reali risultanze processuali, ma che vanno valutati così come esposti, al fine di verificare se essi consentano di sussumere l’ipotesi considerata in quella tipica.

Alla luce dei sopraindicati principi, il sequestro probatorio è stato legittimamente disposto.

Nel caso in esame, in cui gli interlocutori del M. hanno appreso lo strumento di captazione nell’immediatezza del fatto e hanno avuto contezza di quanto registrato, può configurarsi la violazione del dettato del citato art. 23 sotto il profilo del tentativo di reato.

Sia il primo sia l’art. 167 cit., comma 2 dispongono – diversamente da quanto prevedeva la L. 31 dicembre 1996, n. 675, art. 35 – che i reati ivi previsti sono punibili soltanto “se dal fatto deriva nocumento” e, nella specie, tale nocumento potrebbe desumersi dallo sviluppo delle indagini donde l’astratta ipotizzabilità del tentato reato di cui al D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 167.

In conclusione, il Tribunale del riesame ha legittimamente confermato il decreto di sequestro, correttamente motivato sia nell’indicazione delle finalità probatorie sia nella dimostrazione dell’esistenza del rapporto diretto o pertinenziale tra le cose in sequestro e il reato sopraindicato sulla base di fatti specifici.
Il rigetto del ricorso comporta l’onere delle spese del procedimento.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.