Quando possono essere utilizzate come prova nel dibattimento le dichiarazioni rese dal testimone durante le indagini? Qualche riflessione [1].
Principio costituzionale nella formazione della prova e (tassative) deroghe
La deroga al principio costituzionale del diritto al contraddittorio nella formazione della prova rappresentata dalle letture dibattimentali ha natura eccezionale e di applicazione restrittiva e va dunque accertata con la massima diligenza.
L’eccezione al principio del contraddittorio di cui all’art. 111/5 Cost e 512 c.p.p., secondo cui “la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio (…) per accertata impossibilità di natura oggettiva” trova inoltre deroga nell’ipotesi contemplata dall’art. 111/4 seconda parte Cost., secondo cui “la colpevolezza dell’imputato non può essere desunta sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore”.
Peraltro tale disposizione costituzionale ha avuto una letterale riedizione a livello ordinario nell’art. 526/1 bis c.p.p.
Lo spartiacque fra dichiarazione resa da persona irreperibile e quindi utilizzabile ex art. 512 c.p.p. e quella resa da persona che volontariamente si è sottratta al contraddittorio ex art. 526/1 bis c.p.p. e quindi inutilizzabile, consiste nel fatto che l’impossibilità di reperire il teste si fondi “su ogni rigoroso ed opportuno accertamento, non potendo costituire idonea prova di irreperibilità una verifica burocratica e routinaria, come il difetto di notificazione o le risultanze anagrafiche”.(Cass.pen., Sez.Un., 36747 del 2003 Torcasio; Cass.pen., Sez. VI n. 18150 del 2003; Cass.pen., Sez. II, n. 43331 del 18 ottobre 2997, Poltronieri; Cass.pen., Sez.III, n. 25979 del 2009).
Come sancito da ultimo con sentenza della Corte di Cassazione n. 9694/2019 a tal fine “le ricerche non possono essere limitate al solo territorio nazionale, vanno comunque estese nel domicilio dichiarato, ai luoghi abitualmente frequentati con consultazioni degli archivi comunali e della amministrazione carceraria centrale e si devono estendere anche oltre il territorio nazionale”.
Pertanto, per dichiarare l’irreperibilità del teste e, quindi, l’irreperibilità delle dichiarazioni dello stesso “non è sufficiente l’infruttuoso espletamento delle ricerche previste dall’art. 159 c.p.p., ma occorre che il giudice disponga rigorosamente e accuratamente tutti gli accertamenti utili ai fini della reperibilità del testimone, compiendo tutti gli accertamenti congrui alla peculiare situazione personale dello stesso, quale risultante dagli atti, dalle deduzioni specifiche eventualmente effettuate dalle parti nonché dall’esito dell’istruttoria svolta nel corso del giudizio” ( cfr Sez. III n. 9694 del 05 marzo 2019; Sez. I, n. 14243 del 26.11.2015; Sez. VI, n. 16445 del 06.02.2014; Sez. VI, n. 24039 del 24.05.2011; Sez. II, n. 43331 del 18.10.2007).
L’art. 111 Cost comma 5 evidenzia infatti la necessità che l’impossibilità oggettiva sia accertata e, quindi fa chiaro riferimento ad un attività di verifica e controllo del giudice complessa, articolata e argomentata, il che impone di verificare tutte le possibilità di cui si dispone per assicurare la presenza della fonte di prova, con la conseguenza che non possono essere ritenuti sufficienti il difetto di notificazione o le risultanze anagrafiche, ma occorrono rigorose e accurate ricerche, se necessario anche in campo internazionale, tali da consentire, nel caso concreto, di affermare con certezza l’irreperibilità del teste e, quindi, l’impossibilità del suo esame in contraddittorio (Cass.pen., Sez.II, n. 25257 del 17 giugno 2016; Cass.pen., Sez.II, sent. n. 43331 del 18 ottobre 2007; Cass., Sez. UN., n. 27918 del 25 novembre 2010).
Solo una ricerca effettiva che abbia sfruttato ogni mezzo a disposizione del giudice permette di escludere la ventilata possibilità che il teste di sia volontariamente e liberamente sottratto al confronto con l’accusato assolvendo alla prima condizione di utilizzabilità di dichiarazioni non riscontrate.
La deposizione di chi si sia volontariamente e liberamente sottratto al confronto con l’accusato non può, infatti, divenire strumento per decretarne la colpevolezza (art. 111 co. 4 seconda parte, Cost. e art. 526 co.1bis c.p.p.), saldandosi con il diritto costituzionale di interrogare o far interrogare chi rende dichiarazioni a carico dell’imputato.
Si tratta del resto di esigenza evidenziata anche dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la quale ha affermato che, ai fini dell’art. 6 CEDU comma 3 lett. d), l’autorità giudiziaria deve porre in essere procedure ragionevoli per tentare di identificare la residenza di un testimone importante che l’accusato non aveva potuto interrogare ( sent. 8 giugno 2006, Bonev c. Bulgaria; 9 gennaio 2007, Gossa c. Polonia; 24 febbraio 2009, Tarau c. Romania).
Dato che l’impossibilità a comparire oltre che oggettiva deve essere anche assoluta il giudice (come anche il pM, [2]) ha quindi obbligo di fare tutto quanto in suo potere per reperire il dichiarante e superare l’ostacolo che si frappone all’ordinaria formazione dialettica della prova.
In particolare sia il Pubblico Ministero che l’Autorità Giudiziaria prima di dichiararne l’irreperibilità, devono richiedere cooperazione nella ricerca della teste, attraverso lo strumento della rogatoria internazionale. Come noto questo strumento può essere diretto al compimento di comunicazioni, notificazioni e può essere utilizzato in genere per il compimento di attività di acquisizione probatoria.
Il tenore dell’art. 727 c.p.p. è talmente ampio da far ritenere che la rogatoria internazionale possa avere ad oggetto qualsiasi atto necessario per l’accertamento della responsabilità dell’imputato (perizie, esperimenti, sequestri, assunzioni di testimonianze o altre informazioni, trasmissioni di corpi di reato, cose pertinenti al reato e documenti. Gaito, Mandato europeo di ricerca della prova e rogatorie, in AA.VV., Procedura penale, Torino, 2010, 935; Capaldo, sub. art. 727 c.p.p., in Comm. Chiavario, VI, Torino, 1991, 794; Valentini, L’acquisizione della prova tra limiti territoriali e cooperazione con autorità straniere, Padova, 1998, 170).[3]
Ancora, pur laddove fosse ritenuta la detta irreperibilità, ciò non determina automaticamente l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 512 c.p.p.; infatti, una volta che sia correttamente ritenuta l’irreperibilità, occorre accertare se questa non sia riconducibile ad una libera scelta di sottrarsi volontariamente all’esame nel contraddittorio dibattimentale. Su tale circostanza il giudice di merito deve fornire idonea motivazione censurabile in Cassazione e laddove concluda in senso affermativo ciò determina l’inutilizzabilità delle dichiarazioni accusatorie ex art. 526/1bis c.p.p. (Cass. pen., sez. II, 18 ottobre 2007, n. 43331).
Peraltro, una volta accertato che il teste / persona offesa non è oggettivamente irreperibile, va altresì verificato che la stessa si sia voluta sottrarre volontariamente dal contraddittorio.
Sulla prevedibilità dell’irreperibilità
Ai fini della utilizzazione delle dichairaiozni rese nelle indagini da parte del teste persona offesa, va chiarito che occorre accertare se al momento dell'assunzione delle dichiarazioni predibattimentali, fosse o meno prevedibile che il testimone sarebbe successivamente divenuto irreperibile. Ove sia ritenuta tale prevedibilità, l'art. 512 c.p.p. non consente al giudice di disporre la lettura della deposizione assunta senza contraddittorio.
Al fine di compiere tale valutazione è richiesto al giudice di operare una “prognosi postuma” sia sulla prevedibilità dell’evento che sul rapporto di causalità con l’impossibile rinnovazione dell’atto stesso.
Va segnalato un orientamento giurisprudenziale che non permette di considerare prevedibile l’irreperibilità del testimone solo sulla base del fatto che lo stesso sia extracomunitario e privo di permesso di soggiorno[4].
Una lettura convenzionalmente orientata: il test Al-Khawaja
L’art. 512 c.p.p. deve essere interpretato restrittivamente per non incorrere in censure di incostituzionalità per violazione della Convenzione Europea sulla Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, come hanno recentemente ricordato alcune note sentenze della Corte Europea della Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo[5] alle quali la Corte di Cassazione si è prontamente conformata[6].
Per lungo tempo, ci si è domandati se il dictum dell’art. 512 c.p.p. sia compatibile con il principio di cui all’art. 6 Convenzione Europea Salvaguardia Diritti Umani, rubricato “diritto ad un processo equo” che prevede fra l’altro che “ogni accusato ha diritto a esaminare o far esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico”.[7]
Una volta assodata l’efficacia delle suindicate fonti internazionali del diritto, occorre ritornare all’assunto dal quale si era partiti; a tal proposito, le citate sentenza del giudice internazionale e della Cassazione hanno affermato che hanno affermato che l’art. 512 c.p.p. risulta essere contrastante con l’art. 6 C.E.D.U. e quindi con l’art. 117/1 Cost., quando la dichiarazione del teste irreperibile sia “fondamento esclusivo o determinante della condanna”.
In altri termini tale norma viene reputata “incompatibile con lo ''statuto'' dei diritti dell'inquisito configurato dall'art. 6 C.E.D.U. nei casi in cui la sentenza di condanna si fondi esclusivamente, o in misura determinante, sulle dichiarazioni di una persona che la difesa non abbia mai potuto controinterrogare, indipendentemente dal fatto che questi si sia sottratto al contraddittorio in modo consapevole e volontario” ( ex multis. Corte EDU sent. 14 dicembre 1999 A.M. c. Italia; sent. 13 ottobre 2005 Bracci c. Italia ; sent. 9 febbraio 2006 Cipriani c. Italia; sent. 8 febbraio 2007 Dashamir Kollcaku c. Italia; sent. 19 ottobre 2006 Majadallah; sent. 18 maggio 2010 Ogaristi c. Italia).
Allo scopo di fronteggiare la serie di condanne inanellate dal nostro Stato per la violazione dell’art. 6 co. 1 e 3 lett. d) Cedu, a sua volta, la giurisprudenza di legittimità ha abbandonato l’assunto secondo cui sarebbe sempre ammessa l’utilizzazione in sentenza delle dichiarazioni raccolte inaudita altera parte di cui sia impossibile la ripetizione per causa oggettiva (Cass.Sez.Unite, 28 maggio 2003, Torcasio, in Cass.pen. 2004, p. 33), giungendo ad affermare che “quando l’imputato non [ha] mai avuto possibilità di interrogare” la fonte di prova, le sue dichiarazioni devono essere esaminate “congiuntamente ad altri elementi di riscontro” sulla falsariga dell’art. 192 co. 3 c.p.p. (Cass. Sez. Un., 25 novembre 2010, D.F., in Cass.pen., 2012 p. 872); o più in generale, vi devono essere solide garanzie procedurali in grado d’assicurare l’equità della procedura nel suo insieme (Cass.pen., Sez. VI, 13 novembre 2013, n. 1196, Frangiamore, in ced, n. 257771), alla stregua degli insegnamenti europei.
Il criterio di accertamento di tale parametro potrebbe essere costituito da un ragionamento a contrario ed ipotetico “che inizia eliminando mentalmente le dichiarazioni testimoniali sfuggite al controesame dal novero del materiale probatorio richiamato a corredo della pronuncia e prosegue verificando se l’affermazione di responsabilità ivi contenuta possa dirsi ancora sostenuta da sufficienti elementi”[8].
Ora, laddove tali elementi siano di per sé insufficienti a sostenere l’imputazione, il giudice non potrà che ritenere inutilizzabile le dichiarazioni della persona offesa in applicazione dell’art. 512 c.p.p. interpretato doverosamente alla luce degli artt. 111/4 Cost. e 6 CEDU.
Ulteriore conferma del principio a più riprese affermato dalla Corte EDU, secondo il quale una pronuncia di condanna non può fondarsi esclusivamente o in misura determinante sulle dichiarazioni di un testimone che la difesa non abbia avuto occasione di contro-interrogare nel corso delle indagini preliminari o in dibattimento giunge da ultimo con sentenza 12 ottobre 2017, Cafagna c. Italia.
Con questa pronuncia, la Corte EDU riprende quanto affermato con la sentenza della Grande Camera nel caso Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito del 2011: per valutare se il diritto di difesa dell’imputato ha subito una limitazione incompatibile con il principio di equo processo garantito dall’art.6 par. 1 e 3 d) della Convenzione a causa delle letture dibattimentali occorre procedere ad un triplice scrutinio ( c.d. “Al-Khawaja test”) valutando se:
- l’impossibilità per la difesa di interrogare o far interrogare un testimone a carico fosse giustificato da un motivo serio;
- le deposizioni del testimone assente abbiano costituito prova unica o determinante della colpevolezza del ricorrente;
- se esistessero sufficienti elementi in grado di compensare gli inconvenienti legati all’ammissione di una tale prova per permettere una valutazione corretta ed equa della sua affidabilità.
Un’eventuale sentenza di condanna degli imputati fondata unicamente sulle dichiarazioni rese in sede predibattimentale dalla teste, sfuggite ad un controesame, non supererebbe, pertanto, il vaglio di legittimità sovranazionale in quanto in contrasto con l’art. 6 co. 1 e 3 lett. d CEDU.
[1] Le riflessioni sono tratte da una memoria difensiva.
[2] Si ricorda infatti che la disposizione ex art. 727 c.p.p. prevede la possibilità che la rogatoria venga emessa tanto da un giudice quanto da un magistrato del pubblico ministero – unificati, dopo le modifiche introdotte con il D.lgs. 03.10.2017 n. 149 nella nozione di Autorità giudiziaria.
[3] A tal riguardo è intervenuta la Corte Costituzionale per la quale è indiscutibile che rientrino tra quelle rogabili anche le attività di indagine e di ricerca delle fonti di prova (C.Cost., 08.10.1996, n. 336, in DPP, 1996, 1329).
[4] Cass., Sez. I, 09.10.2002, Nuredini Bujar, in Mass.Uff., 222913
[5] Cfr. Corte Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo sent. 14 dicembre 1999 A.M. c. Italia; sent. 13 ottobre 2005 Bracci c. Italia ; sent. 9 febbraio 2006 Cipriani c. Italia; sent. 8 febbraio 2007 Dashamir Kollcaku c. Italia; sent. 19 ottobre 2006 Majadallah; sent. 18 maggio 2010 Ogaristi c. Italia.
[6] Cass. pen., sez. II, 18 ottobre 2007, n. 43331 cit.
[7] Prodromica a tale questione è la risoluzione del problema dell’efficacia della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo e delle Sentenze della Corte di Strasburgo nell’ordinamento italiano, infatti l’art. 46 C.E.D.U. stabilisce l’obbligo giuridico per gli Stati contraenti di conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti. Sul punto sono state formulate varie tesi. Il punto d’approdo finale della Cassazione e della Corte Costituzionale, corroborato anche dal recente intervento legislativo in tema di modifica del titolo V Cost., è nel senso della vincolatività delle norme e sentenze C.E.D.U. Tuttavia da tale asserto non si è fatta derivare quale conseguenza la necessaria disapplicazione da parte del giudice interno della normativa con essa contrastante, ma la incostituzionalità della stessa, laddove la Costituzione deve essere letta alla luce degli obblighi internazionali assunti dallo Stato italiano ex nuovo art. 117/1 Cost. che costituzionalizza i vincoli derivanti dal diritto comunitario e internazionale.
[8] Cass. pen., sez. II, 18 ottobre 2007, n. 43331; Cass.pen., Sez. Un., 28 maggio 2003, Torcasio; Cass., Sez.Un,, 25 novembre 2010; Cass.pen., Sez. VI, 13 novembre 2013, n. 1196).