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Poliziotti "fascisti, figli di puttana e pezzi di merda": oltraggio scriminato (Tr Parma, 1212/20)

14 dicembre 2020, Tribunale di Parma

Sussiste un diritto soggettivo del privato costituzionalmente tutelato alla resistenza individuale al sopruso subito, che rende pertanto ad ogni effetto il fatto penalmente lecito: una sorta quindi di diritto alla resistenza o alla reazione riconosciuta dall’ordinamento, originato dalla necessità di ricostruire, a seguito dell’atto arbitrario del pubblico agente, il corretto rapporto Stato-individuo, al quale devono essere riconosciuti tutti i requisiti e gli effetti propri delle scriminanti.

L’avere un interesse attuale e concreto spinge il soggetto che riferisce (talvolta in modo inconsapevole) a far sì che taluni elementi risaltino più di altri; non mente, nel senso che non ha la coscienza e la volontà di alterare il racconto, ma segue (quasi inconsapevolmente, si ripete) la sua tesi (essere stato vittima di una condotta lesiva) e ricostruisce e riferisce i ricordi di conseguenza (i c.d. bias cognitivi).


Il fatto che il testimone abbia già altre volte agito per il risarcimento diviene rilevante ai fini dell’attendibilità del teste stesso e ancor di più il fatto che egli abbia agito in giudizio in sede civile contro gli imputati per ottenere il ristoro dei suoi (presunti lesi) onore e prestigio.

 

Tribunale di Parma

sentenza 14 dicembre 2020, n. 1212
Giudice Giustechi Conti

Motivazione

GR. Gi. e ZA. Gi., come in atti generalizzati, furono raggiunti dal decreto penale n. 1293/14 del 15 dicembre 2014 che ritualmente opposero a ministero dell’avvocato An. Ma. Mo. e furono quindi tratti a giudizio immediato con decreto di citazione diretta del 6 luglio 2017 per l’udienza del 27 novembre 2017, quando i difensori eccepirono la nullità del decreto penale di condanna per la mancanza in esso dell’avviso all’imputato della facoltà di adire alla messa alla prova e altresì per la mancanza dell’avviso della possibilità di estinguere il reato ai sensi dell’articolo 341 bis III comma, eccezioni all’accoglimento delle quali il pubblico ministero si oppose.
Entrambe le eccezioni furono rigettate, come da ordinanza pronunciata in udienza, dacché per la prima, ben avrebbe potuto l’imputato chiedere la messa alla prova in via preliminare all’udienza dibattimentale e quindi nessuno dei suoi diritti sarebbe stato compresso o limitato da tale mancanza e la seconda per il fatto che l’articolo 460 c.p.p. non pone tra i requisiti necessari a pena di nullità l’avviso della facoltà di estinguere il reato ai sensi dell’articolo 341 bis III comma e quindi il tribunale dispose procedersi oltre.
Il processo fu quindi rinviato all’udienza del 28 maggio 2018, quando, aperto il dibattimento, le parti chiesero l’ammissione delle prove; il pubblico ministero si oppose alle produzioni documentali delle difese e il tribunale, non potendo allo stato valutare la loro rilevanza e pertinenza, ammise solo quelle del pubblico ministero, riservandosi di decidere al loro esito, ma acquisendo soltanto il loro indice e quindi rinviò all’udienza del 14 gennaio 2019 per ascoltare i testi del pubblico ministero.
A detta udienza fu sentito però il solo mette Gi., per l’assenza giustificata del teste Sc..
Per la prosecuzione dell’istruttoria si rinviò quindi all’udienza del 7 ottobre 2019, quando furono ascoltati il teste Pr. e il teste della difesa Pi.; all’esito le difese dichiarano la loro intenzione di rinunciare ai testi richiesti, a condizione dell’ammissione delle produzioni documentali già elencate.
Sulla scorta delle modifiche alle istanze istruttorie, modificata l’ordinanza ammissiva delle prove, il processo fu rinviato all’udienza del 6 aprile 2020 per ascoltare i testi Za., In. e un altro tra gli agenti intervenuti a discrezione delle difese.
A causa della pandemia da SARS-COVID19, tuttavia quell’udienza non si potè celebrare, ma fu rinviata a quella del 14 dicembre 2020.
A detta udienza fu sentita la teste In. e all’esito le difese rinunciarono agli altri testi e produssero i documenti elencati in precedenza.
Conclusa così l’istruttoria, fu chiuso il dibattimento e dichiarati utilizzabili gli atti; le parti discussero il processo e questo fu deciso.
L’ECCESSO DI ZELO.
Il reato previsto e punito dall’articolo 73 del D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 (comma 5) prevede l’arresto obbligatorio? No. Il reato previsto e punito dall’articolo 341 bis c.p. lo prevede? Nemmeno.
La scelta degli agenti di procedere quindi prima al fermo dei ragazzi trovati in possesso di piccole quantità di stupefacente e poi degli odierni imputati può essere ascritto tra le condotte segnate dall’eccesso di zelo.
Ma anche quello di zelo, come tutti gli eccessi, è foriero di problemi, quasi mai è un bene e la vicenda oggetto di questo processo non fa eccezione.

I FATTI.

Il giorno 1 febbraio 2013 la pattuglia composta dagli agenti Lo. Pr. e Al. Co. si recò in vicolo Grossardi a Parma per rispondere alla richiesta di assistenza da parte di un’altra pattuglia a sua volta intervenuta per la denuncia di furto di un portafoglio e che aveva poi anche rinvenuto alcuni dei ragazzi, tra i quali quello che aveva sporto denuncia, in possesso di piccole quantità di sostanza stupefacente (hashish).
Giunti dunque sul posto, dopo aver ammanettato i sei fermati, si stavano apprestando a tradurli in questura, quando sopraggiunsero gli imputati, i quali chiesero cosa stesse accadendo e perché dei ragazzi fossero tratti in arresto e soprattutto perché fossero tutti ammanettati.
Per motivi rimasti ignoti la situazione si è fatta immediatamente tesa e la reazione degli agenti alle domande del GR. (descritte come insistenti e aggressive 1) è stata subito molto energica e decisa.
Fino a quel momento infatti, se si eccettua l’episodio riferito dal teste Pi.2 nel quale egli ricevette due schiaffi da uno degli agenti, che evidentemente non aveva gradito (in via presuntiva) l’atteggiamento ritenuto (sempre in via presuntiva) strafottente dello stesso Pi., tutto si era svolto senza particolare tensione e l’intervento infatti era stato chiesto solo a fini logistici, ovvero per poter trasportare i fermati in questura che, essendo 6 (e non 7 come riferito dal Pr.), non avrebbero potuto prendere (comunque) posto in una sola volante.
Riferisce però sempre il teste Pi.3 - nel rispondere alle domande dirette di questo giudice - che quando gli imputati non obbedirono all’intimazione di allontanarsi loro rivolta dagli agenti operanti (in quel momento già 4, essendo appena arrivati Pr. e Co., uno degli agenti spintonò il GR. e, quando questi cercò di divincolarsi, lo colpì al volto, prima di sospingerlo nel cortile dal quale era appena uscito.
Nei pochi istanti seguiti a questo episodio (il teste riferisce che tutto si è consumato in 3-4 minuti) quindi gli imputati, nel frattempo come detto respinti dagli agenti nel cortile dello stabile ove la ZA. risiedeva, vengono bloccati ed ammanettati e in questo frangente, solo in questo frangente (come confermato dal teste Pi., ma anche dal teste Gi. 4), mentre quindi gli agenti stavano di fatto arrestando gli imputati, costoro hanno loro rivolto gli insulti riferiti identici da tutti coloro che li hanno sentiti e sul tenore dei quali dunque non vi sono dubbi.
La sequenza dunque è stata: gli imputati chiedono conto agli agenti del loro operato, questi dianzi alla loro insistenza e al loro rifiuto di allontanarsi spontaneamente, ritengono opportuno allontanarli dal luogo dell’arresto, allontanamento al quale gli imputati tentano in qualche modo di resistere e ne nasce dunque una piccola colluttazione e a quel punto gli agenti ritengono di doverli portare con sé, di (nei fatti) arrestarli e condurli in questura per identificarli.
Mentre gli agenti dunque tentano di ricondurre alla ragione gli imputati, mentre nei fatti li stanno arrestando, questi li offendono, dando loro dei fascisti, dei figli di puttana e dei pezzi di merda5.
Questi i fatti.

DIRITTO.

L’articolo 393 bis del codice penale esclude l’applicazione di una serie di disposizioni, tese ad incriminare condotte commesse dal privato nei confronti di qualificati soggetti pubblici (articoli 336, 337, 338, 339, 339-bis, 341-bis, 342 e 343 c.p.) allorquando “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto (....) eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni”.
Questa fattispecie è stata reintrodotta con la L. n. 94 del 2009 e riproduce integralmente quella già disciplinata dall’articolo 4 del D.Lgs. 14 settembre 1944, n. 288, ed espunta per effetto del Decreto Legge n. 200 del 2008, convertito con modifiche dalla L. n. 9 del 2009, in materia di semplificazione normativa.
La giurisprudenza di legittimità, pur utilizzando definizioni non sempre coerenti, ha qualificato tale fattispecie come esimente e l’ha pacificamente collocata tra le “cause di giustificazione”6 che escludono il carattere antigiuridico della condotta, applicando, ove vi si pervenisse, la formula assolutoria “perché il fatto non costituisce reato”, formula prevista dal codice di rito in caso di accertamento dell’esistenza di una causa di giustificazione7.

Anche la dottrina maggioritaria ha da tempo qualificato la “reazione legittima” come una scriminante in senso tecnico, inquadrandola come un vero e proprio diritto soggettivo del privato costituzionalmente tutelato alla resistenza individuale al sopruso subito, che rende pertanto ad ogni effetto il fatto penalmente lecito: una sorta quindi di diritto alla resistenza o alla reazione riconosciuta dall’ordinamento, originato dalla necessità di ricostruire, a seguito dell’atto arbitrario del pubblico agente, il corretto rapporto Stato-individuo, al quale devono essere riconosciuti tutti i requisiti e gli effetti propri delle scriminanti.
Quanto alla natura della fattispecie, la Corte costituzionale, nella sua sentenza n. 140 del 1998, nel qualificarla come causa di giustificazione o esimente, ebbe ad osservare che essa ricalcava in definitiva la struttura delle altre cause di giustificazione previste dal codice, come ad esempio - nella specifica ipotesi della reazione oltraggiosa del privato - di quella della provocazione, differenziandosene solo per gli elementi specializzanti della qualità di pubblico ufficiale della persona offesa e della conseguente specificità del fatto ingiusto su cui si innesta la reazione, individuato in relazione alle funzioni del soggetto passivo e ai doveri di correttezza, di convenienza e di urbanità che debbono connotare i rapporti tra i pubblici ufficiali ed i privati.
Rapporti che devono rendere pertanto lecita e quindi priva di antigiuridicità la reazione del privato di fronte ad atti arbitrari della pubblica autorità, principalmente perché in una concezione dello Stato di tipo democratico deve essere garantito al cittadino la facoltà di “resistere” a tutela del diritto o dell’interesse privato arbitrariamente leso o posto in pericolo (come nei reati di cui agli articoli 336, 337, 338 e 339 c.p.) o quantomeno di essere giustificato quando abbia reagito verbalmente quale sfogo del turbamento psichico causato dall’atto arbitrario (come nei reati di oltraggio di cui agli gli articoli 341, 342 e 343 c.p.). e comunque (anche) perché il soggetto passivo non è meritevole di tutela.
Alla nozione poi di “atto arbitrario” ha contribuito sempre la Corte costituzionale con la citata sentenza n. 140 del 1998, secondo la quale essa doveva essere adeguata per ricomprendervi anche l’atto del pubblico ufficiale che, pur essendo sostanzialmente legittimo, risultava connotato da difetto di congruenza tra le modalità impiegate e le finalità per le quali è attribuita la funzione stessa, a causa della violazione degli elementari doveri di correttezza e civiltà che debbono caratterizzare l’agire dei pubblici ufficiali.
Alla vicenda oggetto di questo processo si attaglia perfettamente la descrizione della Corte.
Questo giudice infatti ritiene che la reazione degli agenti alle insistenti e forse un po’ scomposte richieste avanzate dagli imputati abbia completamente e in misura non scusabile travalicato e trasceso quei doveri di correttezza, urbanità, convenienza e civiltà che devono, come detto, improntare tutte le azioni dei pubblici ufficiali.
Dalla ricostruzione ottenuta dall’istruttoria non è emerso alcun motivo per giustificare, ovvero per rendere motivata, la reazione degli agenti alle richieste, anche se insistenti ed ostinate, degli imputati: la situazione fino a quel momento era (stata) del tutto tranquilla, gli altri arrestati non avevano opposto nessuna resistenza ed erano peraltro già ammanettati e per cui inoffensivi e i (petulanti) questionanti non erano soggetti che potessero incutere timore, o anche semplicemente apprensione, quindi la reazione degli agenti, che hanno dapprima spintonato, poi percosso il GR. ed infine nei fatti arrestato lui e la sua compagna ZA. è stata talmente spropositata e senza alcuna motivazione apparente e soprattutto, come detto, oltre i citati doveri di correttezza, convenienza e civiltà, da rendersi arbitraria e tale quindi da giustificare la reazione verbale (per i quali sono imputati) e di resistenza passiva opposta dagli imputati.
Non ci sono dubbi che gli imputati abbiano tenuto una condotta integrante quella prevista e punita dall’articolo 341 bis c.p., tale condotta tuttavia è scriminata dall’arbitrarietà delle condotte degli agenti e pertanto trova piena applicazione l’articolo 393 bis del c.p. e quindi essi devono essere mandati assolti perché il fatto non costituisce reato, secondo gli insegnamenti della Suprema Corte.
La loro condotta sarebbe comunque coperta dall’articolo 393 bis c.p. anche in forma putativa, ovvero se erroneamente avessero supposto l’esistenza della scriminante ex articolo 59 c.p., comma 4, dacché, quand’anche quella (volerli portare in questura per identificarli) degli agenti fosse (stata) legittima, per il modo in cui essa si esplicò, gli imputati si trovarono in una situazione nella quale incolpevolmente e ragionevolmente si rappresentarono di essere vittime di soprusi, prevaricazioni e prepotenze da parte degli agenti.
Da questo il riconoscimento della scusabilità in forma putativa della loro reazione anche in ordine a quello che loro appariva come un ulteriore sopruso (l’accompagnamento coattivo in funzione dell’esigenza dell’identificazione dopo essere stati percossi e spintonati) con la privazione della loro libertà personale.
Come detto, l’istruttoria ha permesso di ricostruire accuratamente la concatenazione degli eventi e ha permesso altresì di inquadrare l’intera vicenda, che è andata ben oltre il singolo episodio oggetto dell’odierno processo.
Questo giudice quindi non ha dubbi su come si siano svolti e di chi siano (state) le responsabilità degli eventi.
Di particolare importanza ai fini del convincimento è stata la testimonianza del teste Pi.; questi infatti è apparso tra tutti quello più attendibile e quindi alle sue parole si è potuto e dovuto dare particolare rilievo nella ricostruzione della vicenda.
E’ stato l’unico (tra gli ascoltati) ad aver assistito all’intera vicenda oggetto del processo e molti degli elementi da lui riferiti sono stati confermati (nella sostanza) anche dalle altre testimonianze; il suo atteggiamento, il suo tono sono apparsi del tutto spontanei e non artefatti e la coerenza del suo racconto lo hanno reso particolarmente degno di fede, oltreché illuminante sull’accaduto.
Questi infatti ha senza reticenze, quasi senza pudore, si potrebbe dire, riferito tutti gli eventi che gli occorsero e ai quali assistette l’1 febbraio 2013 in un quadro perfettamente coerente e perciò di grande affidabilità.
Le altre testimonianze hanno solo fornito elementi di contorno (ma di conferma) e in un modo o in altro non sono state altrettanto attendibili.
Il teste Pr. ha reso una testimonianza formalmente corretta, quasi ineccepibile, ma, forse anche a causa della sua grande esperienza nelle vesti di testimone, non altrettanto spontanea ed anzi talvolta è apparsa resa allo scopo (anche ingenuo, non necessariamente malizioso) di far coincidere il racconto con l’ipotesi accusatoria, della quale, peraltro egli era la parte offesa.
E’ caduto in alcune contraddizioni che, seppure non del tutto rilevanti ai fini della ricostruzione ne hanno (parzialmente) minato l’attendibilità: non si è compreso ad esempio, perché negare di conoscere, di aver confidenza con il teste Gi. 8, che ha invece più volte e inequivocabilmente detto di conoscere bene Pr. (ha raccontato proprio l’occasione, ovvero le occasioni nelle quali ha avuto modo di conoscerlo), tanto da chiamarlo per nome di battesimo, Lo., e quasi non ricordandone il cognome9.
Ma non solo, è di tutta evidenza che, anche senza giungere a mentire, ovvero consapevolmente alterare i fatti nel riferirli, l’avere un interesse attuale e concreto spinge il soggetto che riferisce (talvolta in modo inconsapevole) a far sì che taluni elementi risaltino più di altri; non mente, nel senso che non ha la coscienza e la volontà di alterare il racconto, ma segue (quasi inconsapevolmente, si ripete) la sua tesi (essere stato vittima di una condotta lesiva) e ricostruisce e riferisce i ricordi di conseguenza (i c.d. bias cognitivi 10).
Ecco, allora, che anche il fatto che il Pr. avesse già altre volte agito per il risarcimento diviene rilevante ai fini dell’attendibilità del teste stesso e ancor di più il fatto che egli abbia agito in giudizio in sede civile contro gli odierni imputati per ottenere il ristoro dei suoi (presunti lesi) onore e prestigio.
Lo spirito bonario e il sincero rammarico che è emerso dalla testimonianza del Gi. del pari possono aver influenzato la ricostruzione dei ricordi allo scopo (anche dichiarato) di non voler nuocere a nessuno.
Per tutti questi motivi in conclusione il teste Pi. è risultato quello sulle cui parole è stato possibile fondare la decisione di assoluzione degli imputati dal reato loro ascritto per la motivazione sopra detta, ovvero per non costituire il fatto il reato, essendo scriminato dall’atto arbitrario del pubblico ufficiale.

P.Q.M.

Visto l’articolo 530 comma I del codice di procedura penale
ASSOLVE
GR. Gi. e ZA. Gi. dal reato loro ascritto perché il fatto non costituisce reato.
Indica il termine per il deposito della motivazione in giorni 90.
Parma, 14 dicembre 2020.
1 cfr. testimonianza Pr., ud. 07/10/2019, pag. 5.
2 cfr. testimonianza Pi., pag. 25 ud. 07/01/2019.
3 cfr. testimonianza Pi., ud. 07/10/2019, pagg. 27 e ss.
4 cfr. testimonianza Gi., ud. 14/01/2019, pag. 14.
5 cfr. testimonianza Pr., ud. 07/10/2019, pag. 10.
6 Ex multis: (Sez. 6, n. 22529 del 18/03/2015, Vieider, Rv. 263690 in motivazione; Sez. 6, n. 16460 del 11/02/2015, D’Erme, Rv. 263578, in motivazione; Sez. 6, n. 14567 del 06/03/2014, Tavecchio, Rv. 260890; Sez. 6, n. 18841 del 14/04/2011, Mantovani, Rv. 250095; Sez. 5, n. 38952 del 27/10/2006, Izzi, Rv. 235285; Sez. 6, n. 49124 del 01/10/2003, Todirica, Rv. 227721), anche dette "scriminanti" (Sez. 6, n. 18957 del 30/04/2014, Bellino, Rv. 260704; Sez. 6, n. 23255 del 15/05/2012, Negro, Rv. 253043; Sez. 6, n. 7928 del 13/01/2012, Variale, Rv. 252175; Sez. 6, n. 42639 del 22/09/2009, Kosovel, Rv. 245002; Sez. 6, n. 36162 del 10/06/2008, Cassone, Rv. 241750; Sez. 6, n. 35845 del 16/04/2008, Marino, Rv. 241245; Sez. 6, n. 27703 del 15/04/2008; assai di recente anche Corte di Cassazione, Sezione 6 penale, Sentenza 29 gennaio 2019 n. 4457.
7 Ex multis: Sez. 2, n. 22549 del 07/05/2014, Nuzzaci, non mass.; Sez. 6, n. 18841 del 14/04/2011, Mantovani, Rv. 250095; Sez. 6, n. 36162 del 10/06/2008, Cassone, Rv. 241750; Sez. 6, n. 23807 del 06/04/2004, Gioca, non mass; Sez. U. n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240814.
8 cfr. testimonianza Pr., ud. 07/10/2019, pag. 18.
9 cfr. testimonianza Gi., ud. 14/01/2019, pag. 4 e 5.
10 Il bias cognitivo è uno schema sistematico di deviazione dalla norma o dalla razionalità nel giudizio. In psicologia indica una tendenza a creare la propria realtà soggettiva, non necessariamente corrispondente all’evidenza, sviluppata sulla base dell’interpretazione delle informazioni in possesso, anche se non logicamente o semanticamente connesse tra loro, che porta dunque a un errore di valutazione o a mancanza di oggettività di giudizio. (Fonte Wikipedia).