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Plurime email di minacce, è stalking (Cass. 1223/21)

13 gennaio 2021, Cassazione penale

L'invio ripetuto, anche da indirizzi diversi di posta elettronica, di mail dal contenuto gravemente offensivo e minatorio nei confronti della persona offesa, costretta a subire una mole di messaggi di tal fatta, costituisce stalking.

 

CORTE DI CASSAZIONE

SEZ. V PENALE - SENTENZA 13 gennaio 2021, n.1223

Pres. Miccoli – est. Borrelli


RITENUTO IN FATTO

 1. L'ordinanza impugnata è stata emessa il 13 luglio 2020 dal Tribunale del riesame di Catania, che ha confermato l'ordinanza con la quale il Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale aveva applicato a D.G. la misura cautelare della custodia in carcere per il delitto di cui all'art. 612-bis c.p., commesso ai danni dell'Avv. Vito Stefano Di Stefano, difensore di L.N., persona offesa in altro procedimento a carico dell' D.. Oggetto della presente vicenda cautelare sono gli atti persecutori posti in essere dalla predetta ai danni del D.S. in prosecuzione di altre, analoghe condotte, oggetto di un diverso procedimento, giunto alla fase dibattimentale; tali condotte si identificano in numerose mail contenenti minacce di morte nei riguardi di D.S., inviate dall'indagata mentre era sottoposta, per delitto della stessa specie, agli arresti domiciliari con divieto di comunicazioni, giusta ordinanza del Tribunale di Messina.

2. Contro l'anzidetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia della D., articolando quattro motivi.

2.1. Il primo motivo di ricorso denunzia violazione dell'art. 649 c.p.p. e art. 273 c.p.p., comma 2.

Assume la ricorrente - evocando Sezioni Unite Donati - che vi sarebbe violazione del divieto di bis in idem perchè a carico dell'indagata pende, presso il Tribunale di Catania, l'altro procedimento per atti persecutori ai danni del medesimo D.S., la cui prima udienza era fissata per il 12 ottobre 2020. Trattandosi di reato a contestazione aperta, la fattispecie si intenderà consumata alla data della pronunzia della sentenza di primo grado, donde la nuova imputazione provvisoria andrebbe ricondotta alla prima, con conseguente impossibilità di applicare misura cautelare ed impromovibilità dell'azione penale per violazione dell'art. 649 c.p.p. Quanto al profilo cautelare, troverebbe applicazione l'art. 273 c.p.p., comma 2, ed il divieto ivi previsto di applicare misura cautelare in presenza di cause di non punibilità, tra le quali rientra la mancanza di una condizione di procedibilità.

2.2. Il secondo motivo di ricorso sostiene - lamentando la violazione degli artt. 21 e 27 c.p.p. - il difetto di competenza funzionale del Giudice per le indagini preliminari, competenza che spetterebbe, invece, al Giudice monocratico dinanzi al quale pende il primo procedimento ovvero al Giudice dell'udienza preliminare che ha disposto il relativo rinvio a giudizio.

2.3. Il terzo motivo di ricorso lamenta violazione di legge quanto al giudizio di gravità indiziaria in ordine al reato contestato, perchè la comunicazione asincrona - nella specie la mail - non è da sola sufficiente ad integrare la fattispecie contestata. A sostegno di questo assunto, la ricorrente evoca giurisprudenza concernente il reato di molestie e contesta che l'invio di mail che il destinatario può bloccare o cancellare o non leggere possa determinare un'invasione della sfera giuridica altrui. Conclude la parte affermando che, nel caso di specie, la sedicente persona offesa, pur avendo la facoltà di cestinare le missive, ne aveva voluto conoscere il contenuto.

2.4. Il quarto ed ultimo motivo di ricorso denunzia vizio di motivazione quanto al giudizio di gravità indiziaria. Contesta la ricorrente che il Tribunale del riesame abbia reputato a lei riferibili le mail, tenuto conto che chiunque poteva creare un indirizzo di posta elettronica con il suo nome e spedire le mail da altro luogo, diverso dall'abitazione ove la D. era detenuta agli arresti domiciliari, sicchè, in assenza di accertamenti circa l'indirizzo IP di provenienza, il giudizio di gravità indiziaria sarebbe fallace. Si legge altresì nel ricorso che potrebbero essere stati i genitori della ragazza ovvero soggetti a conoscenza delle vicende giudiziarie della ricorrente a rendersi autori degli invii.

3. Il Procuratore generale, nelle sue conclusioni scritte, ha sostenuto la fondatezza del primo motivo di ricorso, chiedendo l'annullamento con rinvio dell'ordinanza impugnata, assorbiti gli altri motivi.

 CONSIDERATO IN DIRITTO

 Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.

1. Il primo motivo di ricorso denunzia violazione del bis in idem perchè a carico dell'indagata pende, presso il Tribunale di Catania, un altro procedimento per atti persecutori ai danni del medesimo D.S., la cui prima udienza dibattimentale era fissata per il 12 ottobre 2020. Secondo la ricorrente, poichè in quel procedimento la contestazione è 'aperta', la fattispecie si intenderà consumata alla data della pronunzia della sentenza di primo grado, donde l'odierna imputazione provvisoria andrebbe ricondotta alla prima, con conseguente impossibilità di applicare misura cautelare per violazione dell'art. 649 c.p.p..

Ebbene, la tesi dell'impugnante non può essere condivisa, perchè fonda su una lettura parziale della giurisprudenza di questa Corte sul tema agitato.

1.1. Gli insegnamenti di questa Corte che il Collegio condivide classificano il reato di atti persecutori come reato abituale e di danno, che si consuma con la realizzazione di uno degli eventi alternativi previsti dall'art. 612-bis c.p., conseguente al compimento dell'ultimo degli atti della sequenza criminosa integrativa della abitualità del reato. Nel caso di contestazione cosiddetta aperta ha altresì sostenuto questa Corte la consumazione del reato può farsi coincidere con la pronunzia della sentenza di primo grado, ma ciò solo laddove -ed è questo il profilo pretermesso nella tesi della ricorrente - i nuovi fatti, successivi a quelli accertati prima dell'esercizio dell'azione penale, siano emersi nel corso dell'istruttoria dibattimentale (Sez. 5, n. 17350 del 20/01/2020, C., Rv. 279401; Sez. 5, n. 15651 del 10/02/2020, T., Rv. 279154; Sez. 5, n. 6742 del 13/12/2018, dep. 2019, D., Rv. 275490; Sez. 5, n. 22210 del 03/04/2017, C., Rv. 270241). Il presupposto della dilatazione della protrazione del reato fino alla sentenza di prime cure, infatti, è che vi sia stata l'emersione processuale delle condotte successive a quelle espressamente contestate o, comunque, all'esercizio dell'azione penale; senza il materializzarsi in giudizio dei comportamenti ulteriori, infatti, la circostanza che il tempus commissi delicti non rechi un termine finale non implica affatto che il reato debba automaticamente ritenersi commesso fino alla data di pronunzia della sentenza di primo grado.

La pretesa, automatica dilatazione del tempo del commesso reato fino alla sentenza di primo grado, come correttamente osservato da Sez. 5, n. 22210 del 03/04/2017 - anche al netto di un evidente lapsus calami presente al terz'ultimo rigo della pag. 2 nell'utilizzo dell'aggettivo 'abituale' piuttosto che 'permanente' -, fonda su un'erronea assimilazione del reato abituale a quello permanente. Infatti, mentre la consumazione di quest'ultimo prosegue fino a che non cessi o venga rimossa la situazione antigiuridica creata attraverso la condotta vietata, l'abitualità del reato di stalking - come sopra precisato - fa sì che esso si consumi in occasione della realizzazione di uno degli eventi tipici descritti nell'art. 612-bis c.p., conseguentemente al compimento dell'ultimo degli atti della sequenza criminosa. Si è così sostenuto che solo nel reato permanente, pur in difetto di contestazione di un termine finale di consumazione, questo coincide con quello della pronunzia della sentenza di primo grado che cristallizza l'accertamento processuale, mentre, nel reato abituale, è necessario - per quanto interessa in questa sede - che tutti gli atti cronologicamente succedutisi siano stati oggetto di specifico accertamento nel corso del processo.

1.2. Ebbene, muovendo da questa premessa teorica, è innegabile che, al momento della pronunzia dell'ordinanza impugnata, la condizione per collocare la consumazione del reato alla data della sentenza di primo grado non si fosse concretizzata, giacchè, nell'altro procedimento, non era stata neanche celebrata la prima udienza dibattimentale (fissata per il 12 ottobre 2020), sicchè non vi era stata la possibilità materiale che, nel corso dell'istruttoria, fosse emersa l'ulteriore protrazione della condotta criminosa.

2. Con il secondo motivo di ricorso la parte deduce il difetto di competenza funzionale del Giudice per le indagini preliminari, competenza che spetterebbe, invece, al Giudice monocratico dinanzi al quale pende il primo procedimento ovvero al Giudice dell'udienza preliminare che ha disposto il relativo rinvio a giudizio.

Ebbene, tale doglianza è infondata perchè la competenza del Giudice per le indagini preliminari costituisce la logica conseguenza di quanto osservato a proposito del primo motivo di ricorso, non essendosi concretizzata la condizione - l'accertamento degli ulteriori accadimenti nel corso dell'istruttoria dibattimentale - per ricondurre alla primigenia contestazione anche i fatti oggetto del nuovo addebito cautelare: ne consegue che il Giudice competente a pronunziarsi è il Giudice per le indagini preliminari del secondo procedimento.

3. Con il terzo motivo, la ricorrente sostiene che l'invio di messaggi di posta elettronica, in quanto comunicazione asincrona, non sarebbe da solo sufficiente ad integrare il reato di stalking.

Il Collegio ritiene che tale censura sia infondata perchè il reiterato invio di messaggi di posta elettronica, contenenti insulti e minacce, costituisce una condotta invasiva, idonea a determinare uno degli eventi previsti dalla norma incriminatrice, nella specie individuato - secondo quanto si legge nell'ordinanza impugnata - nel timore della persona offesa per l'incolumità propria e dei propri familiari.

3.1. A sostegno di questa conclusione, va, in primo luogo, sgomberato il campo dalle suggestioni che la ricorrente tenta di indurre, assimilando il reato per cui si procede a quello di molestie ex art. 660 c.p. e cercando di esportare i concetti elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte a proposito del secondo anche rispetto al primo, giurisprudenza citata nel ricorso (sentenza nn. 44855/12, 24510/10 e 36779/11, mentre non è stato possibile risalire alla n. 12258/16).

Come ben chiarito da Sez. 5, n. 12528 del 14/01/2016, N., Rv. 266875, infatti, le due fattispecie hanno una diversa oggettività giuridica e presidiano beni diversi, sicchè non vi è alcuna implicazione reciproca. Se ne ricava che una cosa è la possibilità che condotte moleste nel senso penalistico del termine possano anche costituire uno dei segmenti della condotta persecutoria, altra cosa è richiedere, per l'integrazione del delitto di stalking, che le condotte invasive debbano rispettare i parametri nomativi di cui all'art. 660 c.p., che potrebbero anche non ricorrere senza che questo ne sminuisca la portata assillante quali segmenti della condotta complessiva. E' questa la ragione per cui il richiamo alla giurisprudenza di questa Corte evocata nel ricorso non coglie nel segno, essendo detti arresti relativi alla struttura della fattispecie di cui all'art. 660 c.p. e, per la gran parte, al tema - senz'altro rilevante quando si tratti di inquadrare il fatto nel modello normativo e di interpretarlo sulla base del principio di stretta legalità - dell'assimilabilità della comunicazione a mezzo posta elettronica all'utilizzo del telefono. Quest'ultimo, come modalità di veicolazione delle molestie, è, infatti, parte della condotta testualmente prevista nella disposizione contravvenzionale e ne costituisce connotazione modale, ma è estranea al delitto di atti persecutori, che può riguardare qualsiasi condotta, comunque caratterizzata, che sia dotata di una portata invasiva e persecutoria.

3.2. A prescindere da questa puntualizzazione, il Collegio osserva - in secondo luogo - che non può essere condiviso neanche l'enunciato critico secondo cui l'invio di messaggi di posta elettronica non avrebbe natura invasiva.

L'attuale diffusione, massiccia e capillare, di questo sistema di comunicazione, adoperato sia per i propri contatti personali che per quelli professionali, ne fa una modalità relazionale che, al pari di altre fondate sull'utilizzo della piattaforma internet, è diventata parte integrante della quotidianità delle persone, anche grazie al fatto che l'accesso alla propria casella di posta elettronica è oggi possibile dai moderni smartphone e tablet e non richiede neanche di utilizzare necessariamente un personal computer.

Di questa evoluzione dei costumi e, in particolare, dei sistemi attraverso i quali le persone comunicano tra loro, l'interprete non può non tenere conto, nel misurare il grado di invasività di una condotta minatoria o ingiuriosa che venga portata alla vittima attraverso l'invio di email.

In quest'ottica, l'invio ripetuto, anche da indirizzi diversi di posta elettronica, di mail dal contenuto gravemente offensivo e minatorio nei confronti della persona offesa, costretta a subire una mole di messaggi di tal fatta, costituisce non solo una condotta assimilabile a quella prevista nella fattispecie penale di cui all'art. 612-bis c.p., ma anche un contegno idoneo a determinare uno degli eventi previsti dalla fattispecie, ivi compreso quello individuato dall'Avv. D.S.. Nel senso della possibilità che messaggi e mail possano veicolare condotte persecutorie si è d'altra parta già espressa questa Corte (Sez. 6, n. 32404 del 16/07/2010, Distefano, Rv. 248285), laddove ha ritenuto che integra l'elemento materiale del delitto di atti persecutori il reiterato invio alla persona offesa anche di messaggi di posta elettronica.

La tesi agitata dalla ricorrente - secondo cui le comunicazioni asincrone, come la mail non avrebbero portata persecutoria perchè il destinatario potrebbe cancellarle o evitare di leggerle - non può avere seguito. L'invasività di una condotta non è data, infatti, dall'effettiva o potenziale possibilità che la persona offesa attui dei meccanismi di difesa per arginarne gli effetti, perchè, se e quando ciò avvenga, la condotta ha già esaurito la propria portata violativa dell'altrui sfera individuale, sfera individuale vieppiù pregiudicata dal fatto di dover predisporre dei meccanismi di difesa. Al danno della ricezione di una pluralità di mail contenenti insulti e minacce, si aggiunge peraltro anche quello di dover effettuare - nell'ambito del complesso di messaggi in entrata nella propria casella - una cernita prima di comprendere la destinazione da dare loro, venendo così pregiudicata ulteriormente la propria libertà morale. Peraltro, il ragionamento difensivo è tanto più ininfluente nel caso di specie, laddove la provenienza delle mail persecutorie da 'account diversi' (pag. 2 dell'ordinanza impugnata), avrebbe reso l'operazione di selezione che la ricorrente pretenderebbe dalla vittima estremamente difficoltosa, oltre che essere infruttuosa se effettuata a priori mediante sistema di blocco di determinati mittenti.

4. Anche il quarto motivo di ricorso che investe il giudizio di gravità degli indizi e, in particolare, quello circa la riconducibilità alla D. delle mail - è infondato.

All'esame del dettaglio della doglianza va premesso che l'orientamento consolidato di questa Corte in tema di misure cautelari personali reputa ammissibile il ricorso per cassazione soltanto se denuncia la violazione di specifiche norme di legge, ovvero la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento secondo i canoni della logica ed i principi di diritto, ma non anche quando propone censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (Sez. 2, n. 31553 del 17/5/2017, Paviglianiti, Rv. 270628; Sez. 4, n. 18795 del 2/3/2017, Di Iasi, Rv. 269884; Sez. 6, n. 11194 del 8/3/2012, Lupo, Rv. 252178; Sez. 5, n. 46124 del 8/10/2008, Pagliaro, Rv. 241997), spettando, al più, al giudice di legittimità la verifica dell'adeguatezza della motivazione sugli elementi indizianti operata dal giudice di merito e della congruenza di essa ai parametri della logica, da condursi sempre entro i limiti che caratterizzano la peculiare natura del giudizio di cassazione (Sez. U, n. 11 del 22/3/2000, Audino, Rv. 215828; Sez. 4, n. 26992 del 29/5/2013, Tiana, Rv. 255460; Sez. 4, n. 22500 del 03/05/2007, Terranova, Rv. 237012).

Ciò posto, il Collegio ritiene che l'ordinanza impugnata, anche quanto al concreto della valutazione indiziaria, sfugga alle censure della ricorrente.

Il Tribunale del riesame, infatti, ha razionalmente valorizzato in senso indiziario gli specifici riferimenti, nelle mail, alla vicenda processuale che vedeva coinvolta l'indagata e il D.S. quale difensore di altra vittima della D.: ne è stato evinto un substrato indiziario caratterizzato da una portata individualizzante, tale da rendere sufficientemente univoca la provenienza delle comunicazioni, data anche l'analogia con le condotte pregresse. Il ricorso lambisce, invece, l'inammissibilità laddove propone, rispetto a quella evinta dal Tribunale del riesame, una possibile genesi alternativa delle comunicazioni: la ricostruzione della parte costituirebbe, infatti, l'estrinsecazione di una situazione di fatto piuttosto singolare, in cui altri avrebbe portato avanti in termini tali da farla apparire riconducibile alla D. - una campagna persecutoria caratterizzata dai medesimi contenuti di quella già attuata dalla ricorrente e che, in particolare, vede D.S. individuato come vittima per la stessa 'colpa' di avere difeso l'altra persona offesa di un reato ascritto alla ricorrente.

L'esistenza della ratio decidendi fondata sui contenuti delle comunicazioni idonea a sostenere l'addebito nella presente fase cautelare consente di reputare irrilevante l'altra argomentazione spesa dal Tribunale del riesame e fondatamente criticata dalla ricorrente; ci si riferisce al valore indiziario attribuito dal Collegio della cautela all'utilizzo della postazione informatica presente nell'abitazione della D., affermazione che effettivamente stride con la possibilità tecnica che un account di posta elettronica venga adoperato da qualsiasi postazione.

5. Al rigetto del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 P.Q.M.

 Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.