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Pedinamento, insulti, messaggi e telefonate bastano per condanna per stalking (Cass. 40504/24)

5 novembre 2024, Cassazione penale

Le dichiarazioni della vittima del reato, sicuramente decisive nel contesto di una vicenda persecutoria, nel prisma interpretativo della giurisprudenza di legittimità, sono autosufficienti alla prova del reato.

Il giudice di appello che riformi la decisione di assoluzione pronunciata in primo grado, pervenendo ad una sentenza di condanna, non ha l'obbligo di fornire una motivazione rafforzata nel caso in cui il provvedimento assolutorio abbia un contenuto motivazionale generico e meramente assertivo, posto che, in tale ipotesi, non vi è neppure la concreta possibilità di confutare argomenti e considerazioni alternative del primo giudice, essendo la decisione di appello l'unica realmente argomentata

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE V PENALE

Sent., (data ud. 19/09/2024) 05/11/2024, n. 40504

A.A. nato a M il (Omissis)

avverso la sentenza del 06/03/2024 della CORTE APPELLO di BOLOGNA

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere MATILDE BRANCACCIO;

udito il Sostituto Procuratore Generale MARILIA DI NARDO che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso e riportandosi alla requisitoria scritta.

udito il difensore, l'avv. C del foro di REGGIO EMILIA, che si riporta ai motivi del ricorso e insiste per l'accoglimento dello stesso.

Svolgimento del processo

1. Con il provvedimento impugnato, la Corte d'Appello di Bologna, in riforma della sentenza assolutoria emessa dal Tribunale di Reggio Emilia in data 29.9.2022 all'esito di giudizio immediato ed accogliendo l'appello del pubblico ministero, ha condannato A.A. alla pena di un anno di reclusione, oltre al risarcimento del danno in favore della parte civile, per il reato di stalking aggravato, commesso ai danni della ex moglie B.B.

L'imputato - secondo la ricostruzione dei giudici di merito - ha attuato una campagna persecutoria contro l'ex coniuge, molestandola e minacciandola mediante pedinamenti, offese in presenza di estranei, messaggi telefonici e telefonate offensivi, diretti a lei ed a parenti, nei quali, tra l'altro, accusava la vittima di averlo tradito. Inoltre: ha realizzato gesti minatori simbolici (la contestazione evidenzia che erano state tagliate a pezzi dall'imputato foto familiari, collocate nella cartella del figlio minore della coppia affinché la vittima le vedesse); ha posizionato un apparecchio "gps" all'interno dell'autovettura della donna per poterne seguire i movimenti ed ha danneggiato l'auto con uno strumento appuntito. È stato contestato, in imputazione, quale evento del reato, l'aver provocato l'imputato alla vittima un grave stato d'ansia e timore per la propria incolumità.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l'imputato, mediante il difensore di fiducia, deducendo tre motivi distinti.

2.1. Il primo argomento di censura eccepisce violazione di legge, relativamente all'art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., riguardo alla rinnovazione istruttoria della prova dichiarativa, disposta solo parzialmente e non con il riascolto di tutti e sette i testimoni, ma solo di due tra loro: la persona offesa e la teste C.C.. I giudici di secondo grado, però, per condannare l'imputato, hanno valorizzato anche dichiarazioni rese in primo grado da testi diversi da quelli in relazione ai quali si è disposta la rinnovazione in appello (il ricorso riporta brani della sentenza nei quali sono citati i loro nominativi). Con il medesimo motivo, il ricorso denuncia anche la violazione dell'art. 521 cod. proc. pen. e la mancanza di motivazione della sentenza d'appello, che avrebbe condannato l'imputato in relazione ad un evento del delitto non contenuto nell'imputazione, vale a dire il mutamento delle abitudini di vita causato alla vittima, orientando l'istruttoria su prove irrilevanti, perché relative a detto evento, estraneo alla contestazione, senza pronunciarsi sul tema reale dell'appello e sull'unico, diverso evento del reato oggetto dell'imputazione: il grave stato d'ansia e timore per la propria incolumità, patito dalla vittima in ragione della condotta del ricorrente.

2.2. La seconda ragione difensiva denuncia vizio di motivazione mancante o carente quanto all'affermazione di responsabilità dell'imputato ed alla valutazione delle prove dichiarative, avuto riguardo all'obbligo di motivazione rafforzata declinato dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite (si evoca la sentenza Sez. U, n. 33748 del 12/7/2005, Mannino, Rv. 231679) nel caso di ribaltamento in appello della sentenza assolutoria di primo grado e condanna dell'imputato.

Nel caso di specie, la decisione di overturning si limita a ripercorrere i fatti dando loro una diversa valenza rispetto a quella proposta dal giudice di primo grado e focalizzandosi sull'evento del reato costituito dal mutamento delle abitudini di vita della persona offesa, ancorché non contestato.

2.3. Un terzo motivo di ricorso eccepisce violazione di legge per erronea applicazione dell'art. 612-bis cod. pen.

Il difensore rilegge – prospettandone una diversa significatività - le condotte di reato che, nei giudizi di merito, sono state ritenute tali da comporre la fattispecie contestata: le ingiurie indirizzate alla ex-moglie dall'imputato sono state pronunciate nel contesto di litigi dovuti alla conflittualità tra i due ed alla separazione causata da un tradimento della persona offesa; l'apparecchio "gps" è stato collocato nell'auto della vittima da un investigatore privato ingaggiato dal ricorrente, per fini collegati all'addebito della separazione; le circostanze di incontri/pedinamenti o molestie avvenuti "in presenza" sono state solo genericamente indicate.

Mancherebbe, quindi, la prova del nesso di causalità tra le condotte ascritte all'imputato e lo stato di ansia o paura lamentato dalla persona offesa.

3. Il Sostituto Procuratore Generale della Corte di cassazione ha chiesto il rigetto del ricorso con requisitoria scritta.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

2. Il primo motivo è inammissibile perché generico e manifestamente infondato.

Anzitutto deve rilevarsi che la sentenza d'appello, con cui è stata ribaltata l'assoluzione decisa in primo grado, ha parzialmente rinnovato la prova dichiarativa, concentrandosi su quella ritenuta decisiva, ascoltando nuovamente in dibattimento la persona offesa del reato di atti persecutori e principale testimone d'accusa, nonché un'altra testimone che ha assistito ad uno degli episodi considerati più significativi nella ricostruzione processuale della vicenda delittuosa, vale a dire un pedinamento della vittima presso un supermercato, da parte dell'imputato, che indirizzava a costei gravi minacce ed insulti, anche telefonici, oltre che il danneggiamento dell'autovettura della vittima stessa.

Il ricorrente denuncia la violazione dell'art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., poiché la Corte di merito non ha provveduto a riascoltare tutti i testimoni ai quali, poi, ha fatto cenno nella sentenza di condanna.

Il motivo proposto, tuttavia, così come è formulato, non ha chiarito la decisività dei testi dei quali si denuncia la mancata rinnovazione istruttoria in appello, così rendendo incompleta ed aspecifica, ai sensi dell'art. all'art. 581, comma primo, lett. a), cod. proc. pen., la deduzione di tale deficit, oggi configurato come vizio di violazione di legge.

È noto, infatti, come tale carattere di decisività è necessario presupposto valutativo per stabilire se vi è stata una violazione dell'art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. o anche un vizio di motivazione carente.

Infatti, all'esito di una lunga elaborazione giurisprudenziale, che ha ispirato le modifiche legislative alla norma dell'art. 603 cod. proc. pen. contenute nella legge n. 103 del 2017, costituisce principio consolidato ritenere che il giudice di appello, investito della impugnazione del pubblico ministero avverso la decisione di assoluzione di primo grado, con cui si adduca una erronea valutazione delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata, affermando la responsabilità penale dell'imputato, senza avere proceduto a rinnovare l'istruzione dibattimentale attraverso l'esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado.

Le Sezioni Unite hanno collegato l'obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa decisiva alla necessità di applicare la regola probatoria epistemologicamente più affidabile per giungere al ribaltamento della sentenza di assoluzione in primo grado, superando il canone di accertamento necessario per la colpevolezza, strumentale alla tutela della presunzione di innocenza di rango costituzionale; il riferimento è alla regola dell'oltre ogni ragionevole dubbio o regola b.a.r.d. (dall'acronimo beyond any reasonable doubt) maggiormente garantita dall'assunzione in contraddittorio dibattimentale della prova dichiarativa decisiva utilizzata per ribaltare la pronuncia assolutoria in condanna.

Sul fatto che l'obbligo di disporre la rinnovazione istruttoria, in caso di overturning di condanna, riguardi la prova dichiarativa "decisiva" concorda tutta la teoria di sentenze delle Sezioni Unite che si sono occupate del tema, sotto diversi e tutti collegati profili, a partire dalla pronuncia Sez. U, n. 27620 del 28/4/2016, Dasgupta, Rv. 267487 sino a giungere alla più recente Sez. U, n. 11586 del 30/9/2021, dep. 2022, D, Rv. 282808 (nel mezzo, si rammentano: Sez. U, n. 18620 del 19/1/2017, Patalano, Rv. 269787; Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 274230; Sez. U, n. 14426 del 28/1/2019, Pavan, Rv. 275112; Sez. U, n. 22065 del 28/1/2021, Cremonini, Rv. 281228).

Come hanno spiegato le Sezioni Unite nella sentenza Troise del 2018, coordinando la locuzione impiegata dal legislatore nel comma 3-bis ("il giudice dispone la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale") con quelle - del tutto identiche sul piano lessicale - già utilizzate nei primi tre commi della medesima disposizione normativa, deve ritenersi che il giudice d'appello sia obbligato ad assumere nuovamente non tutte le prove dichiarative, ma solo quelle che -secondo le ragioni puntualmente e specificamente prospettate nell'atto di impugnazione del pubblico ministero -siano state oggetto di erronea valutazione da parte del giudice di primo grado e vengano considerate decisive ai fini della decisione sull'alternativa "proscioglimento-condanna". Anche la sentenza Dasgupta, del resto, nel definire il concetto di "prove orali decisive" dimostra che la rinnovazione della prova dichiarativa non è indiscriminata ma fa riferimento a quelle prove che "se espunte dal complesso materiale probatorio, si rivelano potenzialmente idonee ad incidere sull'esito del giudizio", nonché a quelle che, "pur ritenute dal primo giudice di scarso o nullo valore, siano, invece, nella prospettiva dell'appellante, rilevanti - da sole o insieme ad altri elementi di prova - ai fini dell'esito della condanna (Sez. U Dasgupta, Rv. 267491).

Non vi è dubbio, dunque, sul fatto che il ricorrente, il quale invochi la mancata rinnovazione della prova decisiva, ai fini della specificità del motivo di ricorso, necessaria per non incorrere nella sanzione processuale di inammissibilità prevista dall'art. 591, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. (in relazione all'art. 581, comma primo, lett. a, del codice di rito), deve quantomeno offrire elementi concreti dai quali trarre la decisività del teste pretermesso dall'esame dibattimentale rinnovato solo parzialmente.

2.1. Nel caso di specie, come si è anticipato, il ricorso si rivela generico, in quanto si limita a riportare brani della motivazione del provvedimento impugnato nei quali si citano i nominativi degli altri testi non riascoltati in appello, lamentandosi della mancata rinnovazione istruttoria con argomenti generali di ordine giurisprudenziale e brevi brani estratti dalla motivazione della sentenza in relazione a detti testi, senza dedurre la loro decisività, se non genericamente ed apoditticamente sostenendola "ai fini dell'assoluzione".

La denuncia difensiva, in altre parole, si risolve nella "citazione" dei testi la cui dichiarazione non è stata rinnovata in appello ed è strutturata secondo una logica "aritmetica", distonica rispetto alla giurisprudenza di questa Corte regolatrice ed alla ratio della disposizione processuale prevista dall'art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen.: si adduce che, dei sette testimoni ascoltati in primo grado, sono stati riesaminati solo due in appello, ma non si spende alcun argomento sulla loro decisività per la prova dei fatti, neppure con riguardo alla loro indispensabilità per la credibilità della persona offesa. Appare evidente che, di fondo alla ragione censoria, giace un errore interpretativo, poiché la difesa sembra richiedere "riscontri" alle dichiarazioni della vittima del reato e principale testimone, in relazione alla quale, come insegna da tempo la giurisprudenza di questa Corte regolatrice, detti riscontri, men che meno costituiti da ulteriori dichiaranti, non sono invece necessari quando vi sia un solido giudizio di attendibilità e credibilità.

Precisamente, a partire dalla sentenza Sez. U, n. 41461 del 19/7/2012, Bell'Arte, Rv. 253214, è stato chiarito che le regole dettate dall'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. Nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi, i quali, tuttavia, non rappresentano il fattore di validazione di esse, ma devono essere idonei ad escludere l'intento calunniatorio del dichiarante, senza risolversi in autonome prove del fatto e senza che sia necessario che assistano ogni segmento della narrazione (Sez. 5, n. 21135 del 26/3/2019, S., Rv. 275312).

Le dichiarazioni della vittima del reato, sicuramente decisive nel contesto della vicenda persecutoria, nel prisma interpretativo della giurisprudenza di legittimità, sono, dunque, autosufficienti alla prova del reato.

E la Corte d'Appello ha chiarito che il racconto della teste-persona offesa è del tutto soddisfacente per credibilità soggettiva, attendibilità, mancanza di intenti calunniatori e chiarezza dei dettagli forniti.

Si è ritenuto, poi, di ascoltare anche una testimone, che era stata presente in un momento parossistico e determinante per la presa di coscienza definitiva della vittima, quanto ai danni psicologici provati dal comportamento del suo ex marito, oltre che per l'oggettiva pericolosità dell'imputato, il quale, nell'episodio relativo, accaduto il giorno 11.4.2020, con il suo comportamento aggressivo e insultante nei riguardi di costei, aveva indotto ad intervenire una guardia giurata del supermercato.

In conclusione, mentre appare evidente la decisività e rilevanza prioritaria di tali due testimonianze, non altrettanto emerge in relazione alle dichiarazioni degli ulteriori testimoni dei quali si lamenta la mancata rinnovazione, sicché ogni deduzione al riguardo doveva essere colorata da tale pertinente carattere, pena, altrimenti, la genericità del ricorso.

2.2. Nello stesso primo motivo di ricorso è contenuta anche una ragione ulteriore di doglianza, riferita alla violazione dell'art. 521 cod. proc. pen., già prima sintetizzata. Si tratta di censura manifestamente infondata perché la sentenza di secondo grado si dedica adeguatamente ad esplorare il tema dell'evento costituito dallo stato di ansia e timore della vittima, desumendolo dalle condotte dell'autore del reato e dalle stesse azioni della persona offesa; in questo scenario, i mutamenti di abitudini della persona offesa sono stati rappresentati come indicatori del suo stato psicologico di frustrazione e paura e non quale evento (non contestato) del reato; è questo il senso in cui tali modifiche alla quotidianità della persona offesa sono state evidenziate nella motivazione del provvedimento impugnato.

Non sussiste, pertanto, alcuna questione di disallineamento tra evento del reato contestato ed evento provato in dibattimento, in relazione a cui è intervenuta condanna.

3. Il secondo motivo di ricorso, che denuncia la mancanza di una motivazione rafforzata della sentenza impugnata, è infondato.

Deve rammentarsi sinteticamente, in proposito, come la verifica di legittimità del provvedimento che riformi in secondo grado una prima pronuncia assolutoria attiene a due aspetti paralleli ma idealmente collegati tra loro: a) la tenuta della motivazione con cui si ribalti la pronuncia di assoluzione, dal punto di vista della sua capacità di superare le argomentazioni di quest'ultima e di proporre una soluzione logica maggiormente coerente con il quadro probatorio e convincente dal punto di vista del test, obbligato, di accertamento della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, secondo il canone previsto dall'art. 533 cod. proc. pen.; b) la necessità di rinnovare la prova dichiarativa che sia valsa, in un primo momento, a fondare la sentenza liberatoria ed in un secondo momento abbia costituito il fondamento della pronuncia di condanna.

Di tale secondo profilo si è già trattato con riguardo alle ragioni difensive enunciate nell'esame del primo motivo di ricorso.

Va chiarito, dunque, l'aspetto relativo alla tenuta della motivazione del provvedimento di riforma in rapporto alla decisione di segno opposto.

Ebbene, già nel 2005, le Sezioni Unite ebbero ad affermare che la sentenza che riformi totalmente, sia in senso assolutorio che in chiave di condanna, la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679; cfr. Sez. 5, n. 8361 del 17/01/2013, Rastegar, Rv. 254638).

Successivamente alla sentenza Mannino, è stato ribadito che sussiste, per il giudice della riforma in appello, la necessità di comporre una motivazione c.d. rafforzata, più convincente rispetto a quella ribaltata e dotata di maggior forza persuasiva, tale da far venir meno ogni ragionevole dubbio in caso di overturning di condanna (ex multis Sez. 4, n. 42868 del 26/9/2019, Miceli, Rv. 277624; Sez. 6, n. 51898 del 11/7/2019, P., Rv. 278056; Sez. 5, n. 54300 del 14/9/2017, Banchero, Rv. 272082; Sez. 3, n. 6817 del 27/11/2014, dep. 2015, S., Rv. 262524; Sez. 1, n. 12273 del 15/12/2013, dep. 2014, Ciaramella, Rv. 262261; Sez. 6, n. 49755 del 21/11/2012, G., Rv. 253909)

L'obbligo di esprimere, da parte del giudice del ribaltamento in appello, non soltanto una propria, alternativa ricostruzione della vicenda conclusasi in primo grado con un diverso esito, bensì una motivazione maggiormente dotata di capacità persuasiva e idonea a scalfire le argomentazioni del primo giudice in modo analitico è stato sottolineato, altresì, con ampie argomentazioni motivazionali, dalle decisioni delle Sezioni Unite già citate al paragrafo 2, che sono negli anni intervenute sul tema, parallelo e al tempo stesso strettamente collegato (oltre che evocato nel presente giudizio), della necessità di rinnovare la prova dichiarativa decisiva.

3.1. La sentenza d'appello corrisponde a tali canoni argomentativi di maggior capacità persuasiva rispetto a quella di primo grado. In essa si mettono in luce, con molta maggiore linearità e coesione logica rispetto alla sentenza del Tribunale, le prove raccolte in dibattimento e si allineano i contenuti di tali prove nel solco degli orientamenti consolidati della Cassazione che hanno contribuito a definire i caratteri essenziali del delitto di atti persecutori.

Si tratta di una motivazione che supera il test di "più forte efficacia persuasiva" richiesto dall'interpretazione di questa Corte regolatrice, pur se la sentenza non si confronta diffusamente con i passaggi specifici della decisione di primo grado, che intende mettere in crisi con il proprio alternativo ragionamento e che, comunque, correttamente stigmatizza quando si rifà ad interpretazioni incoerenti con gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità (cfr. pag. 3, in tema di non necessità della prova medica dello stato di ansia e paura della vittima).

In proposito, peraltro, vi è da evidenziare, per la peculiarità del caso di specie, che sarebbe stato piuttosto complesso confrontarsi con la decisione di primo grado, caratterizzata da un'espressione motivazionale insoddisfacente, generica e meramente assertiva, in relazione alla quale non vi era concreta possibilità di confutare argomenti e considerazioni alternative puntuali del primo giudice, sostanzialmente assenti. In altre parole, è la decisione di appello ad essere l'unica che effettivamente risponde ad un canone di redazione della motivazione ispirato dall'art. 111, comma 6, della Costituzione.

In tali casi, un orientamento che si ritrova nella giurisprudenza di legittimità, e che il Collegio intende ribadire, ha osservato come, in tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi la decisione di assoluzione pronunciata in primo grado, pervenendo ad una sentenza di condanna, non ha l'obbligo di fornire una motivazione rafforzata nel caso in cui il provvedimento assolutorio abbia un contenuto motivazionale generico e meramente assertivo, posto che, in tale ipotesi, non vi è neppure la concreta possibilità di confutare argomenti e considerazioni alternative del primo giudice, essendo la decisione di appello l'unica realmente argomentata (Sez. 6, n. 11732 del 23/11/2022, dep. 2023, S., Rv. 284472; Sez. 5, n. 12783 del 24/1/2017, Caterina, Rv. 269595).

Del resto, proprio perché ogni provvedimento giurisdizionale deve essere motivato, le Sezioni Unite hanno chiarito che tale motivazione non può essere solo un vuoto simulacro delle ragioni che hanno realmente condotto il giudice ad un determinato esito decisorio; non può essere mera apparenza e, qualora lo fosse, tale situazione deve essere equiparata alla mancanza del tutto di una motivazione, determinandosi in tal modo un vizio di violazione di legge (cfr. Sez. U, n. 25080 del 28/5/2003, Pellegrino, Rv. 224611).

3.2. Nel caso all'esame del Collegio, la sentenza del Tribunale ha un incedere motivazionale assertivo ed apparente, oltre che generico, intriso di affermazioni apodittiche o prospettate in modo retorico, attraverso domande alle quali il giudice sottende una risposta assolutoria obbligata e che rivelano l'adesione ad un esito decisorio preferito, che prescindere quasi dall'analisi ragionata delle prove o, al più, deriva da una visione superficiale e non adeguatamente ponderata di esse.

Non vi era, dunque, neppure necessità di strutturare una "motivazione rafforzata" in senso proprio da parte della Corte d'Appello, essendo sufficiente, come accaduto, che le sue argomentazioni fossero capaci di superare qualsiasi ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell'imputato.

Conviene precisare ulteriormente come, in molti passaggi del provvedimento di primo grado, si comprende che il giudice non padroneggia adeguatamente gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità consolidata in tema di stalking, tra i quali, anzitutto, quello che ritiene non necessario, ai fini dell'integrazione della fattispecie, che la vittima prospetti espressamente e descriva con esattezza uno o più degli eventi alternativi del delitto (il grave stato d'ansia o paura provocatole dall'imputato o il fondato timore per l'incolumità propria, di un prossimo congiunto o di una persona a lei legata affettivamente, per rimanere a quelli oggetto di contestazione). La prova di essi, infatti, può desumersi dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla condotta stessa dell'agente (Sez. 5, n. 47195 del 6/10/2015, S., Rv. 265530; Sez. 5, n. 57704 del 14/9/2017, P., Rv. 272086, nonché Sez. 5, n. 17795 del 2/3/2017, S., Rv. 269621; Sez. 6, n. 50746 del 14/10/2014, P.C., Rv. 261535; Sez. 5, n. 14391 del 28/2/2012, S., Rv. 252314; vedi anche Sez. 5, n. 7559 del 10/1/2022, B., Rv. 282866).

E sicuramente non è necessario che le conseguenze dannose per la vittima, derivate dalla condotta dell'autore del delitto, siano medicalmente accertate, a differenza di quanto pure lascia intendere la sentenza di primo grado, potendo il giudice argomentare la sussistenza degli effetti destabilizzanti della condotta dell'agente sull'equilibrio psichico della persona offesa, anche sulla base di massime di esperienza (Sez. 5, n. 18999 del 19/2/2014, C, Rv. 260412). Del resto, neppure è richiesto l'accertamento di uno stato patologico, ma è sufficiente l'effetto negativo sulla serenità e sull'equilibrio psicologico della vittima (Sez. 5, n. 18646 del 17/2/2017, C., Rv. 270020; Sez. 5, n. 16864 del 10/1/2011, C., Rv. 250158).

4. Il terzo motivo di ricorso è formulato "in fatto", con un chiaro intento rivalutativo delle prove e, pertanto, è inammissibile.

In tema di giudizio di cassazione, invero, sono precluse al giudice di legittimità - a meno che non si rivelino indici di manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato - la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione della vicenda, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr., tra le più recenti, Sez. 6, n. 5465 del 4/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601; Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482).

Si è già evidenziato, in proposito, come la Corte d'Appello abbia ben spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto fondata l'accusa di stalking nei confronti dell'imputato, oltre ogni ragionevole dubbio. Egli si è reso protagonista di un sistematico ed ossessivo agire persecutorio ai danni dell'ex-moglie, sfociato in pedinamenti, insulti gravi e minacce di morte ripetute, oltre che in intrusioni significative della sfera personale (le ha installato un dispositivo di localizzazione "gps" nell'autovettura), oggettivamente capaci di causare ad una donna uno stato d'ansia e paura, tanto da indurla a modificare molte delle sue abitudini quotidiane (tra l'altro, non usciva più da sola; si era munita di spray al peperoncino da portare sempre con sé e si era dotata di un allarme con "sos" e posizionamento gps). La vittima ne ha riferito ampiamente, secondo la ricostruzione del suo racconto contenuta nella sentenza d'appello.

Il tentativo del ricorrente di far passare tali comportamenti vessatori per la conseguenza di litigi dovuti alla conflittualità sorta per la separazione tra i due ex coniugi corrisponde esattamente al paradigma del motivo di ricorso inammissibile perché rivalutativo e in fatto.

5. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

5.1. Deve essere disposto, altresì, che siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003, in quanto imposto dalla legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 19 settembre 2024.Depositata in Cancelleria il 5 novembre 2024