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Dipendente palpata: violenza sessuale, non molestia (Cass. 9146/21)

8 marzo 2021, Cassazione penale

Integra il reato di violenza sessuale e non quello di molestia sessuale la condotta consistente nel toccamento non casuale dei glutei, ancorché sopra i vestiti, essendo configurabile la contravvenzione solo in presenza di espressioni verbali a sfondo sessuale o di atti di corteggiamento invasivo e insistito, diversi dall’abuso sessuale, per cui, avendo la condotta dell’imputato assunto una dimensione corporea.

 

Corte di Cassazione

sez. III Penale, sentenza 20 ottobre 2020 – 8 marzo 2021, n. 9146

Presidente Di Nicola – Relatore Zunica

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 24 aprile 2019, la Corte di appello di Lecce confermava la sentenza del 9 marzo 2015, con cui il G.U.P. presso il Tribunale di Lecce aveva condannato S.R.  alla pena, condizionalmente sospesa, di un anno di reclusione, in quanto ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 81 c.p. e art. 609 bis c.p., comma 3, reato a lui contestato per avere costretto, con abuso di autorità, D.G.G.  , sua dipendente, che lavorava presso il suo salone di parrucchiere, a subire atti sessuali, consistiti, in alcuni casi, nel palpeggiarle i glutei, in altri, nel morderle le braccia e, una volta, nel tentarle di morderle le labbra, in tale occasione non riuscendo nel proprio intento per la pronta reazione della donna; fatti commessi in (omissis) .
2. Avverso la sentenza della Corte di appello salentina, S. , tramite il suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando tre motivi.
Con il primo, la difesa contesta la valutazione di attendibilità della persona offesa, osservando che la Corte di appello aveva omesso di considerare come dal compendio probatorio fosse emerso che la denunciante era stata mossa dal perseguimento di uno specifico interesse economico, atteso che la stessa si era costituita parte civile, preferendo poi rimettere la querela e revocare la costituzione di parte civile solo in un momento successivo, ovvero quando aveva ricevuto il risarcimento del danno, risolvendo le pendenze relative all’intercorso rapporto di lavoro. Sarebbe dunque mancata nel caso di specie un’adeguata verifica della credibilità della D.G. , verifica che invero sarebbe stata indispensabile, atteso che l’unica fonte di prova nel caso di specie era costituita proprio dalle sole dichiarazioni della persona offesa, la quale tuttavia aveva fornito tre diverse versioni dei fatti, l’ultima delle quali, quella disposta dinanzi al G.U.P. ai sensi dell’art. 441 c.p.p., comma 5, particolarmente significativa, perché nel corso della stessa la querelante aveva sensibilmente ridimensionato il fatto originariamente denunciato, arrivando addirittura a confessare anche alcune falsità riportate tanto nella querela del 22 agosto 2011, quanto nelle sommarie informazioni del 30 settembre 2011.
In particolare, rispetto alla maggiore retribuzione che la persona offesa, in sede di querela, ha riferito di percepire senza un apparente motivo rispetto alle colleghe, la difesa rileva che, dinanzi al G.U.P., la D.G.  ha ammesso che in realtà lo stipendio le fu aumentato perché fu lei a lamentarsi con l’imputato, pretendendo 20 Euro in più per le spese di viaggio; analogamente, quanto alla tipologia degli atti sessuali subiti, viene osservato che gli stessi, consistiti, secondo il racconto originario, in palpeggiamenti, dopo la corresponsione della somma di denaro, si erano trasformati in un non meglio specificato contatto fisico e in una sculacciata, così come il morso sulle labbra era poi diventato un mero tentativo di morso, per cui si era a quel punto in presenza di atteggiamenti privi di finalità sessuali.
Tali contraddizioni, oltre a inficiare la tenuta logica del racconto della donna, sarebbero altresì idonee a integrare la violazione dell’art. 521 c.p.p., art. 111 Cost. e art. 6 C.E.D.U., stante la mancanza di correlazione tra la sentenza di condanna e il capo di imputazione, dove risultano descritte condotte ben diverse. Una ulteriore incongruenza della sentenza impugnata è stata inoltre ravvisata nel fatto che la Corte territoriale ha ritenuto di qualificare quale riscontro alla narrazione della persona offesa le dichiarazioni dalla collega di lavoro P.R.  , che invece costituivano una deposizione de relato, essendo invece ben più verosimile, alla luce della breve durata del rapporto di lavoro (da maggio ad agosto 2011) e della contestualità della denuncia, presentata il 22 agosto 2011, che quelle confidenze siano state create ad hoc dalla persona offesa, con l’unico obiettivo di precostituirsi la prova dei fatti che avrebbe denunciato, al fine di raggiungere l’unico interesse che l’aveva spinta ad adire l’Autorità giudiziaria.
Con il secondo motivo, viene dedotta la nullità della violazione dell’art. 111 Cost. e artt. 546 e 125 c.p.p., evidenziandosi la totale assenza di motivazione in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestato, presentando la sentenza impugnata, rispetto a tale aspetto, la medesima omissione argomentativa già configurabile rispetto alla sentenza di primo grado.
Con il terzo motivo, il ricorrente contesta l’inquadramento giuridico dei fatti, osservando che gli stessi dovevano essere sussunti non nel reato di violenza sessuale, ma nella fattispecie ex art. 660 c.p., posto che le condotte descritte dalla persona offesa nella più genuina delle sue tre versioni, ovvero l’ultima, difettano sia del requisito oggettivo, cioè della idoneità delle stesse a violare la libertà di autodeterminazione della vittima nella sfera sessuale, sia del requisito soggettivo, mancando l’intenzione da parte dell’autore di raggiungere l’appagamento dei propri istinti sessuali, per cui al più poteva ritenersi configurabile il reato di cui all’art. 660 c.p., da cui tuttavia l’imputato avrebbe dovuto essere assolvo per mancanza della condizione di procedibilità, stante la remissione di querela operata all’udienza del 29 aprile 2013.

Considerato in diritto

Il ricorso è infondato.
1. Premesso che i tre motivi di ricorso sono suscettibili di trattazione unitaria, perché tra loro sostanzialmente sovrapponibili, deve ritenersi che, a differenza di quanto sostenuto dalla difesa, la valutazione di attendibilità della persona offesa e la qualificazione giuridica delle condotte contestate non presentano vizi di legittimità rilevabili in questa sede.
Ed invero le due conformi sentenze di merito, le cui argomentazioni sono destinate a integrarsi reciprocamente, per formare un corpus motivazionale unitario (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013 Rv. 257595), hanno innanzitutto operato una puntuale ricostruzione della vicenda oggetto di contestazione, richiamando in primo luogo le dichiarazioni della persona offesa, D.G.G.  , la quale, nella denuncia presentata il 22 agosto 2011, ha riferito di aver iniziato a lavorare dal maggio 2011 presso il negozio di parrucchiere gestito da S.R. , presso il quale lavoravano altre quattro ragazze; dopo un inizio tranquillo, la persona offesa iniziava a notare che il suo datore di lavoro le manifestava una serie di "attenzioni", prima mandandole baci a distanza, poi facendole proposte imbarazzanti, come quella di praticarla un massaggio mentre i due si trovavano insieme nel retrobottega, fino a toccarle una volta il fondoschiena e a morderla su un braccio in un’altra occasione.
Turbata dall’ennesimo tentativo di palpeggiamento, la D.G. , il (omissis)  rivelava ai suoi genitori cosa le stava accadendo e dopo tre giorni sporgeva querela; sentita poi in sede di sommarie informazioni, la denunciante precisava che i palpeggiamenti erano consistiti in toccamenti dei glutei, che generalmente avvenivano quando entrambi si trovavano all’interno del "magazzino" e solo una volta nel "salone", quando tutte le altre ragazze si trovavano nel "magazzino".
Orbene, il racconto della D.G. , sentita invero anche dal G.U.P. in sede di rito abbreviato, è stato ritenuto ragionevolmente attendibile dai giudici di merito, sia perché sufficientemente preciso, sia perché privo di manifestazioni di animosità nei confronti dell’imputato, sia perché confermato dalle dichiarazioni della collega di lavoro P.R.  , la quale aveva ricevuto le confidenze della persona offesa circa gli atteggiamenti con valenza sessuale di S. .
Nel confrontarsi poi con le deduzioni difensive, la Corte territoriale ha evidenziato, in maniera non illogica, che le stesse non erano idonee a inficiare la credibilità complessiva della narrazione della D.G. , riguardando le discrasie segnalate aspetti non centrali della vicenda, che invero nei suoi tratti essenziali è rimasta confermata nel corso di tutte le audizioni della donna, e ciò sia rispetto alla descrizione dei contatti fisici subiti, tutti di breve durata, sia in ordine alla specificazione dei locali dove gli stessi avvenivano, circostanza questa che ha trovato conforto anche nella documentazione fotografica acquisita.
Non può dunque affermarsi che la remissione della querela intervenuta a seguito dell’accordo economico con l’imputato abbia determinato un ridimensionamento significativo della narrazione della denunciante, la quale peraltro ha riconosciuto dinanzi al G.U.P. di essersi contraddetta sulla questione dei 20 Euro aggiuntivi, da ella richiesti al suo datore di lavoro e non da questi corrisposti autonomamente. Tale discrasia tuttavia non è stata ritenuta dirimente, a fronte di una ricostruzione complessiva della vicenda rivelatasi per il resto coerente, costante e soprattutto priva di enfatizzazioni rispetto agli episodi verificatisi e alle conseguenze che ne sono scaturite, e ciò sin dalla prima rivelazione dei fatti.
Nè alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza appare ravvisabile nel caso di specie, atteso che i comportamenti descritti dalla persona offesa sono perfettamente coerenti con quelli riportati nel caso di imputazione, dove si parla di palpeggiamenti dei glutei e di morsi alle braccia, anche tentati.
In definitiva, la valutazione di attendibilità della persona offesa è scaturita da una disamina razionale ed esauriente delle fonti dimostrative disponibili, a fronte della quale la difesa ha proposto una lettura alternativa (e frammentaria) non consentita in questa sede, dovendosi sul punto ribadire il consolidato principio di questa Corte (cfr. Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482), secondo cui, in tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito.
2. Anche la qualificazione giuridica della condotta appare immune da censure, risultando le avances dell’imputato senz’altro idonee a compromettere la sfera sessuale della persona offesa e ad appagare gli istinti erotici dell’imputato, a nulla rilevando che i toccamenti siano stati di breve durata, assumendo piuttosto rilievo, anche dal punto di vista soggettivo, il fatto che si sia trattato di gesti non occasionali ma reiterati, pur nella breve esperienza lavorativa della D.G. . Risulta dunque corretto l’inquadramento dei fatti non nella previsione di cui all’art. 660 c.p., ma nella fattispecie ex art. 609 bis c.p. (rispetto alla quale è stata riconosciuta ragionevolmente l’ipotesi di minore gravità), avendo la Corte territoriale richiamato, in modo pertinente, la condivisa affermazione della giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. 3, n. 27042 del 12/05/2010, Rv. 248064), secondo cui integra il reato di violenza sessuale e non quello di molestia sessuale la condotta consistente nel toccamento non casuale dei glutei, ancorché sopra i vestiti, essendo configurabile la contravvenzione solo in presenza di espressioni verbali a sfondo sessuale o di atti di corteggiamento invasivo e insistito, diversi dall’abuso sessuale, per cui, avendo la condotta dell’imputato assunto una dimensione corporea, non vi è spazio per la riqualificazione suggerita dalla difesa, che peraltro, a differenza di quanto dedotto, non comporterebbe comunque alcun effetto estintivo, atteso che il reato di molestia è procedibile d’ufficio, per cui la remissione di querela comunque non dispiegherebbe effetti.
3. In conclusione, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso proposto nell’interesse di S.  deve essere rigettato, con conseguente onere per il ricorrente, ex art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.