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Padre non ha pari diritti: MAE eseguibile (Cass. 8555/15)

25 febbraio 2019, CAssazione penale

In tema di mandato di arresto europeo, la limitazione della previsione di cui alla L. 22 aprile 2005, n. 69, art. 18, comma 1, lett. s), alla sola “madre” trova giustificazione, non irrazionale, nell’assoluta peculiarità delle esigenze scaturenti dal rapporto tra la donna e la prole in tenera età e pertanto, non può essere estesa alla figura del padre.

Il diverso trattamento riservato in materia all’uomo (padre di minore al di sotto del limite di tre anni, ovvero coniuge di donna incinta) e alla donna (incinta o madre di minore infratreenne), è incentrato ragionevole insostituibilità del ruolo materno.


CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

sentenza 24-25 febbraio 2015, n. 8555

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MILO Nicola – Presidente –
Dott. DI STEFANO Pierluigi – Consigliere –
Dott. DI SALVO Emanuele – Consigliere –
Dott. DE AMICIS Gaetano – rel. Consigliere –
Dott. BASSI Alessandra – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

Sentenza

sul ricorso proposto da:
OMISSIS;

avverso l’ordinanza n. 27/2014 CORTE APP. SEZ. MINORENNI di PALERMO, del 19/01/2015;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GAETANO DE AMICIS;
sentite le conclusioni del PG Dott. SCARDACCIONE Eduardo Vittorio che ha concluso per il rigetto del ricorso;

Udito il difensore che ha concluso per l’accoglimento dei motivi di ricorso.

1. Con sentenza emessa in data 19 gennaio 2015 la Corte d’appello di Palermo – Sezione minorenni ha accolto la domanda di consegna del cittadino rumeno OMISSIS, avanzata dalle Autorità giudiziarie romene (Pretura di Campina) in virtù del m.a.e. recante la data del 19 agosto 2014, emesso in relazione alla sentenza di condanna n. 144 del 27 maggio 2014, con la quale gli veniva irrogata la pena “educativa” di quattro anni di “ricovero in un centro di reclusione”, per il reato di rapina commesso in OMISSIS, ossia prima ancora che raggiungesse il limite della maggiore età.
2. Avverso la su indicata pronunzia della Corte d’appello palermitana ha personalmente proposto ricorso per cassazione l’interessato, deducendo un duplice ordine di censure, il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente illustrato.
2.1. Vizi di erronea interpretazione ed applicazione della L. n. 69 del 2005, art. 18, lett. r), come modificato dalla sentenza n. 227/2010 della Corte costituzionale, per non avere la Corte d’appello tenuto conto delle esigenze di rieducazione della pena e risocializzazione del condannato, chiaramente emergenti dalla documentazione allegata in sede di giudizio, da cui era possibile desumere la scelta di istituire in Italia una stabile dimora, quale sede principale, e non occasionale, dei propri interessi affettivi e lavorativi (attraverso la convivenza con la propria compagna, residente e stabilmente impiegata in Italia come badante, e la recente nascita di un figlio in data (OMISSIS)). La dimora e i legami stretti in Italia attraverso la costituzione di una famiglia di fatto ivi residente rivelano, dunque, l’esistenza di un radicamento reale e non estemporaneo, rendendo illegittima la decisione di consegna, che peraltro si pone in contrasto non solo con i diritti inviolabili stabiliti dagli artt. 2, 29 e 30 Cost., ma anche con il diritto al rispetto dell’unità familiare sancito dall’art. 8 CEDU. 2.2. Violazioni di legge e vizi motivazionali con riferimento alla L. n. 69 del 2005, della per avere la Corte d’appello illegittimamente disposto la consegna, senza tenere conto dell’interesse preminente del minore di anni tre, che potrebbe subire un pregiudizio psico-fisico nella sua crescita, a seguito dell’allontanamento di uno dei genitori, sia esso il padre o la madre. La norma su menzionata andava dunque applicata alla luce di un’interpretazione estensiva, nel rispetto delle sue finalità e del principio di uguaglianza della posizione del padre rispetto a quella della madre. Si deduce, inoltre, che la Corte di merito non ha chiesto informazioni sulla tutela dell’interesse del minore di anni tre in Romania e che nella sentenza impugnata vi è un errore materiale sul quantum della somma oggetto del reato.

1. Il ricorso è infondato e va pertanto rigettato per le ragioni qui di seguito esposte e precisate.

2. Per quel che attiene al primo motivo di ricorso, la Corte d’appello ha fatto buon governo delle regole desumibili dal quadro di principii al riguardo delineati da questa Suprema Corte, secondo cui la nozione di “residenza” che viene in considerazione per l’applicazione dei diversi regimi di consegna previsti dalla L. n. 69 del 2005 presuppone l’esistenza di un radicamento reale e non estemporaneo dello straniero nello Stato, tra i cui indici concorrenti vanno indicati la legalità della sua presenza in Italia, l’apprezzabile continuità temporale e stabilità della stessa, la distanza temporale tra quest’ultima e la commissione del reato e la condanna conseguita all’estero, la fissazione in Italia della sede principale, anche se non esclusiva, e consolidata degli interessi lavorativi, familiari ed affettivi, il pagamento eventuale di oneri contributivi e fiscali (da ultimo, v. Sez. 6, n. 50386 del 25/11/2014, dep. 02/12/2014, Rv. 261375; Sez. 6, n. 9767 del 26/02/2014, dep. 27/02/2014, Rv. 259118; Sez. 6, n. 46494 del 20/11/2013, dep. 21/11/2013, Rv. 258414; Sez. 6, n. 43011 del 06/11/2012, dep. 07/11/2012, Rv. 253794).

Invero, la disposizione di cui all’art. 18, comma 1, lett. r), della cit. L., che trova il suo pendant, con riferimento al mandato di arresto processuale, nella successiva disposizione di cui all’art. 19, comma 1, lett. c), impone al giudice della consegna – a seguito della interpretazione che ne ha dato la sentenza additiva della Corte costituzionale n. 227/2010 – di verificare in maniera sostanziale, e non formale, l’esistenza, per il cittadino di un altro Stato membro dell’U.E., dei requisiti di collegamento con il territorio del nostro Paese, nel senso di attribuire specifica valenza al dato dell’obiettiva presenza di indici concretamente sintomatici di un reale e non estemporaneo radicamento dell’interessato nello Stato italiano, per avervi inteso stabilire la sede principale dei propri interessi affettivi ed economici, in maniera tale da assimilarne la posizione a quella del cittadino italiano.

Di tale complesso di regole e principii la Corte d’appello ha fatto corretta applicazione, allorquando ha escluso, sulla base degli atti disponibili, l’esistenza di un’effettiva condizione di radicamento del ricorrente in Italia, ponendo in evidenza come egli vi sia giunto solo in epoca assai recente, ossia alla fine del 2013, senza peraltro documentare l’esistenza di una regolare attività lavorativa in grado di stabilizzarne la presenza sul territorio.

Nè assume rilievo decisivo, sotto tale profilo, il legame familiare dal ricorrente intrattenuto con una connazionale che lavora in Italia come collaboratrice domestica, e dalla quale ha avuto un figlio nel giugno 2014, non potendosi ritenere di per sè sufficiente la comprovata esistenza di un nucleo familiare e di un rapporto di filiazione (arg. ex Sez. 6, n. 9767 del 26/02/2014, dep. 27/02/2014, cit.) se posti in relazione – all’interno del necessario giudizio di bilanciamento con i difformi interessi legati al soddisfacimento degli obblighi di cooperazione giudiziaria penale nel comune spazio di libertà, sicurezza e giustizia dell’Unione europea – con il dato inerente alle oggettive implicazioni della mancata prospettazione in punto di fatto, per il ricorrente stesso e per il suo nucleo familiare, della sussistenza del necessario requisito di una stabile permanenza, da tempo apprezzabile, sul territorio nazionale.

Non pertinente, inoltre, deve ritenersi, come è stato correttamente osservato nella motivazione dell’impugnata pronuncia, il riferimento dal ricorrente operato alla decisione n. 21988 del 15 aprile 2013 di questa Suprema Corte (ove si è stabilito, in tema di estradizione per l’estero, che non sussistono le condizioni per l’accoglimento della domanda quando la persona richiesta sia padre di prole di età inferiore a tre anni, con lui convivente, se le primarie esigenze di tutela del minore risultino in concreto prevalenti sulle esigenze punitive sottese alla domanda di estradizione), essendo stato in quel caso valorizzato il diverso quadro fattuale relativo sia al modesto disvalore dell’oggetto del petitum estradizionale (condanna per un furto di pollame, a fronte di un reato di rapina con violenza alla persona offesa), che alla impossibilità per la madre di provvedere ai bisogni primari del minore, con i conseguenti rischi di perdita dell’abitazione – sulla quale gravava l’obbligo di pagamento di un mutuo – e di sradicamento dal territorio italiano, ove la persona richiesta in consegna, diversamente dalla fattispecie in esame, da anni risiedeva assieme alla propria famiglia e ne costituiva, peraltro, l’unica fonte di reddito, per la rilevata assenza di altri mezzi di sostentamento, nonchè di altri familiari in grado di sostenerne le relative esigenze.

La Corte d’appello, dunque, sia pure sulla base di sintetici passaggi motivazionali, ha congruamente operato una valutazione di sostanziale proporzionalità della misura inerente all’obbligo di consegna del cittadino rumeno, ritenendo prevalenti – all’esito dell’operazione di bilanciamento con le esigenze di tutela dell’interesse del minore e dell’unità della vita familiare, sì come garantite dai fondamentali principii scolpiti nelle su menzionate disposizioni di ordine costituzionale e convenzionale – le concorrenti esigenze di cooperazione giudiziaria legate all’attuazione della consegna euro- unitaria, in forza degli elementi di giudizio rappresentati dalla su indicata natura e gravità del reato commesso, dalla ridotta estensione dell’arco temporale entro cui era collocabile la presenza del ricorrente in Italia, dalla sua specifica situazione familiare e, in particolare, dalla documentata esistenza di un’occupazione lavorativa della convivente, implicitamente considerata in grado di sostenere le esigenze del minore.

3. Parimenti infondata deve ritenersi la seconda censura in ricorso prospettata, avendo la Corte di merito correttamente applicato i principii stabiliti da questa Suprema Corte (Sez. 6, n. 11800 del 25/03/2010, dep. 26/03/2010, Rv. 246509), secondo cui, in tema di mandato di arresto europeo, la limitazione della previsione di cui alla L. 22 aprile 2005, n. 69, art. 18, comma 1, lett. s), alla sola “madre” trova giustificazione, non irrazionale, nell’assoluta peculiarità delle esigenze scaturenti dal rapporto tra la donna e la prole in tenera età.

Nello stesso senso, del resto, giova ricordare che da tempo è stata ritenuta, in questa Sede, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, lett. s), della su citata Legge, dedotta con riferimento agli artt. 2, 3, 10, 29 e 30 Cost., nella parte in cui il motivo di rifiuto riguardante la consegna esecutiva di un mandato d’arresto europeo emesso nei confronti di una donna “incinta o madre di prole d’età inferiore a tre anni con lei convivente” non si applica anche al coniuge e padre di prole minore di tre anni, stante la palese non equiparabilità delle due situazioni, che il legislatore ha inteso differenziare proprio in considerazione dell’assoluta peculiarità delle guarentigie, esecutive e procedimentali, inerenti alla tutela del rapporto madre-figlio in tenera età (Sez. F, n. 35286 del 02/09/2008, dep. 15/09/2008, Rv. 241002), circoscritta alla sola madre in ragione dell’affettività e delle cure che unicamente costei è in grado di assicurare al bambino (e al nascituro) e che non possono essere surrogate dalla figura paterna.

Entro la medesima prospettiva, inoltre, questa Suprema Corte ha osservato che l’indiretto riscontro della ratio legis su cui è strutturato il diverso trattamento riservato in materia all’uomo (padre di minore al di sotto del limite di tre anni, ovvero coniuge di donna incinta) e alla donna (incinta o madre di minore infratreenne), incentrata, come si è visto, sulla ragionevole insostituibilità del ruolo materno (e, per ciò stesso, la riprova della manifesta infondatezza della su indicata questione di costituzionalità), sono desumibili dal contenuto della disposizione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 4, laddove siffatta norma processuale estende, in sede di detenzione cautelare, la speciale tutela escludente la detenzione carceraria anche al padre, ma la relega nella sola ipotesi in cui la madre sia deceduta o si trovi in condizioni di assoluta impossibilità di “dare assistenza alla prole” (v., in motivazione, Sez. F., n. 35286 del 02/09/2008, dep. 15/09/2008, cit.).
Solo aspecificamente formulata, e in ogni caso del tutto irrilevante in questa Sede, deve ritenersi la generica enunciazione della presenza di un errore materiale nella sentenza impugnata, per quel che attiene all’individuazione del quantum della somma oggetto del reato.

4. Al rigetto del ricorso consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. La Cancelleria curerà l’espletamento degli incombenti di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 22, comma 5.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.