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Magistrati hanno libertà di parola salvo pregiudizio credibilità della funzione (Corte Cost. 100/1981)

8 giugno 1981, Corte Costituzionale

Deve riconoscersi - e non sono possibili dubbi in proposito - che i magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino ma deve del pari ammettersi che le funzioni esercitate e la qualifica da essi rivestita non sono indifferenti e prive di effetto per l'ordinamento costituzionale.

Il diritto di libertà di manifestazione del pensiero non può subire, per i magistrati, limitazioni diverse da quelle previste per la generalità dei consociati e che la generica formulazione della norma censurata consente una compressione del diritto stesso che non può subire restrizioni per effetto dell'appartenenza ad un ordine o del rivestimento di una qualifica professionale, pur se l'esercizio di esso va contemperato con le disposizioni degli artt. 54, secondo comma, 101, secondo comma, e 104, primo comma, della Costituzione.

I magistrati, per dettato costituzionale (artt. 101, comma secondo, e 104, comma primo, Cost.), debbono essere imparziali e indipendenti e tali valori vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza ed imparzialità: nell'adempimento del loro compito.I principi anzidetti sono quindi volti a tutelare anche la considerazione di cui il magistrato deve godere presso la pubblica opinione; assicurano, nel contempo, quella dignità dell'intero ordine giudiziario, che la norma denunziata qualifica prestigio e che si concreta nella fiducia dei cittadini verso la funzione giudiziaria e nella credibilità di essa.

Nel bilanciamento di tali interessi con il fondamentale diritto alla libera espressione del pensiero, sta, come del resto finiscono per riconoscere le ordinanze di rimessione, il giusto equilibrio, al fine di contemperare esigenze egualmente garantite dall'ordinamento costituzionale.

I magistrati sono sottoposti soltanto alla legge, ma il potere disciplinare nei loro confronti è volto a garantire - ed è rimedio insostituibile - il rispetto dell'esigenza di assicurare il regolare svolgimento della funzione giudiziaria, che è uno degli aspetti fondamentali della vita dello Stato di diritto.

La rigorosa tutela del prestigio dell'ordine giudiziario  rientra senza dubbio tra i più rilevanti beni costituzionalmente protetti.

 

 

 

 

CORTE COSTITUZIONALE

SENTENZA N. 100

ANNO 1981

composta dai signori giudici

Avv. Leonetto AMADEI, Presidente

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Leopoldo ELIA

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 18 del r.d.l. 31 maggio 1946, n. 511 (responsabilità disciplinare dei magistrati) promossi con ordinanze emesse il 26 novembre 1977, il 21 luglio (n. 3 ordinanze) e il 13 ottobre 1978 e il 18 maggio 1979 dal Consiglio superiore della magistratura rispettivamente iscritte ai nn. 60, 655, 656 e 672 del registro ordinanze 1978 ed ai nn. 104 e 933 del registro ordinanze 1979 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 94 del 1978, nn. 59 e 102 del 1979 e n. 50 del 1980.

Visti l'atto di costituzione di Governatori Federico e gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella pubblica udienza del 4 marzo 1981 il Giudice relatore Arnaldo Maccarone;

uditi l'avv. AP per Governatori Federico e l'avvocato dello Stato Franco Chiarotti per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

La Sezione disciplinare del Consiglio superiore della Magistratura, con ordinanze di identico contenuto emesse nei procedimenti disciplinari a carico del dott. Franco Misiani il 26 novembre 1977, dello stesso dott. Misiani e del dott. Ernesto Rossi, nonché del dott. Beniamino Deidda e del dottor Federico Governatori il 21 luglio 1978; del dott. Adriano Sansa il 13 ottobre 1978, e del dott. Giuseppe Borrè ed altri il 18 maggio 1979, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 18 r.d.l. 31 maggio 1946, n. 511, nella parte in cui sottopone a sanzione disciplinare il magistrato che tenga, "in ufficio o fuori, condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'Ordine giudiziario", per assunto contrasto con gli artt. 21, primo comma, 25, secondo comma, 101, secondo comma e 108, primo comma, della Costituzione.

A sostegno delle censure il Consiglio superiore osserva nelle dette ordinanze che la norma impugnata non tipicizza l'illecito disciplinare, ma lo individua in rapporto a criteri, valutazioni e modelli di comportamento a loro volta non tipicizzati. In tal modo, secondo il giudice a quo, la predetta parte dell'art. 18 si porrebbe in contrasto: a) con il principio di legalità posto dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione; b) con gli artt. 101, secondo comma e 108, primo comma, della Costituzione, i quali, stabilendo che i giudici sono soggetti soltanto alla legge e che le norme sull'Ordinamento giudiziario sono stabilite per legge, escluderebbero la mediazione di altri organi nella disciplina dello status dei magistrati; c) con l'art. 21 della Costituzione, il quale esclude limitazioni alla libertà di manifestazione del pensiero, sia pure in contemperamento con gli artt. 54, secondo comma, 101, secondo comma, e 104, primo comma, della Costituzione.

In questa sede si è costituito il dott. Federico Governatori, rappresentato e difeso dagli avvocati prof. Franco Bricola, Paolo Barile, Enzo Cheli, Giorgio Ghezzi e Fausto Tarsitano.

Hanno depositato tempestivamente le proprie deduzioni gli avvocati prof. Alessandro Pizzorusso e Fausto Tarsitano.

La difesa afferma anzitutto, richiamandosi alla sentenza n. 78/67, di questa Corte che, in linea generale, il principio di legalità della pena sancito dall'art. 25 Cost. deve avere applicazione anche per le sanzioni amministrative, in relazione alle quali pertanto, parallelamente alle sanzioni penali, la legge soltanto potrebbe con - figurare, con sufficienza adeguata alla fattispecie, i fatti suscettibili di punizione. Onde chiara emergerebbe l'illegittimità della norma impugnata stante l'estrema genericità della stessa quanto alla individuazione dei comportamenti qualificabili come illeciti disciplinari. Ma, prosegue la difesa, anche quando la Corte non ritenesse di condividere il detto principio, che peraltro troverebbe conforto nell'espressione letterale dell'art. 25 Cost. il quale dispone che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso" per cui il precetto costituzionale andrebbe riferito a qualunque tipo di illecito, egualmente il principio di legalità dovrebbe ritenersi operante in relazione alle sanzioni disciplinari applicabili ai magistrati. Questi ultimi, invero, sono sottratti al potere gerarchico del Consiglio superiore e di qualsiasi altro soggetto, per cui l'applicazione delle sanzioni disciplinari non troverebbe rispondenza in un potere discrezionale dell'Amministrazione, quale è quello che normalmente esercita il superiore gerarchico. Onde l'applicazione di sanzioni disciplinari dovrebbe avere in questo caso, come presupposto necessario, l'inosservanza di una norma disciplinare generale ed astratta. Questa particolarità del regime disciplinare della magistratura troverebbe conferma nel carattere interamente giurisdizionale del relativo procedimento, che in ciò si differenzierebbe da quello per l'applicazione delle sanzioni agli altri pubblici dipendenti.

Nel caso in esame, la fase giurisdizionale non riguarderebbe, invero come per gli altri dipendenti, il controllo della legittimità del provvedimento amministrativo di applicazione della sanzione, ma sarebbe destinato proprio all'applicazione della stessa, costituendo la determinazione delle ipotesi di illecito disciplinare commesso dal magistrato materia coperta da riserva di legge, come dovrebbe argomentarsi in base all'articolo 101 della Costituzione, che dichiara i magistrati sottoposti soltanto alla legge, all'art. 108, primo comma, della Costituzione, che stabilisce una generale riserva di legge per la materia dell'Ordinamento giudiziario, e all'art. 107 della Costituzione, che pone una riserva di legge con specifico riguardo a qualunque misura che determini la dispensa o la sospensione dal servizio di un magistrato o il suo trasferimento, il che realizzerebbe, in sostanza, un regime identico a quello degli illeciti penali.

All'estrema genericità della formula adottata dalla norma impugnata conseguirebbe, quindi, anche sotto detti profili, la fondatezza della censura.

La norma impugnata violerebbe altresì il principio dell'indipendenza della magistratura sancito dall'art. 101 Cost., dato che tale norma garantisce i magistrati non soltanto nei confronti degli altri poteri dello Stato, ma anche nei confronti degli uffici od organi così detti superiori, ivi compreso il Consiglio superiore della Magistratura.

La genericità della norma impugnata, infine, potrebbe risolversi in una indebita restrizione della libertà di manifestazione del pensiero garantita dall'art. 21 Cost. perchè tale suo carattere renderebbe possibile la repressione dell'esercizio della libertà di opinione da parte dei magistrati. Né potrebbe invocarsi al riguardo il fatto che il principio di libertà in discorso può trovare limiti nella esigenza di tutelare altri beni costituzionalmente rilevanti, giacché l'appartenenza ad un ordine o il rivestimento di una qualifica professionale possono essere fonti di restrizioni maggiori e di più forti doveri, ma non quando sia in gioco un bene che, come la libertà di manifestazione del pensiero, dovrebbe essere garantito in modo eguale per tutti i soggetti.

La difesa si diffonde infine nell'illustrare il tipo di sentenza che la Corte potrebbe emettere, indicando in conclusione che, nella specie, potrebbe adottarsi una pronunzia "sostitutiva", recante l'indicazione di un gruppo di ipotesi tassative di illeciti disciplinari.

Nelle cause provenienti dai giudizi disciplinari a carico del dott. Francesco Misiani, del dott. Beniamino Deidda, del dott. Adriano Sansa e del dott. Giuseppe Borrè ed altri si è ritualmente costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso come per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha depositato nei termini le proprie deduzioni.

L'Avvocatura, in sostanza, afferma che le questioni sollevate sarebbero infondate in quanto, anche a voler ammettere che il principio di legalità di cui all'art. 25, secondo comma, Cost. sia riferibile anche agli illeciti disciplinari, tale principio sarebbe osservato nella specie perchè le norma impugnata indicherebbe sufficientemente, se pure in termini generici, gli elementi che debbono ricorrere perchè l'illecito sussista. Il criterio di legalità nell'ambito disciplinare andrebbe infatti inteso in maniera meno rigida che in materia penale in vista della peculiare natura di tali infrazioni, e dovendosi quindi riconoscere un ruolo più significativo al momento della interpretazione della norma e del suo adattamento al caso concreto.

L'esigenza della formulazione di un giudizio di valore, secondo l'Avvocatura, non sarebbe estranea al nostro ordinamento, ed anche se l'esigenza stessa si presenta nella identificazione di un illecito disciplinare, sarebbe pur sempre la legge che trova applicazione, di talché non potrebbe dubitarsi che la subordinazione del giudice soltanto alla legge continui ad operare parimenti alla riserva di legge in materia di ordinamento giudiziario.

L'Avvocatura conclude pertanto chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate non fondate.

Considerato in diritto

1. - Le ordinanze innanzi menzionate, di identico contenuto, propongono le stesse questioni, e pertanto i relativi giudizi possono essere riuniti e definiti con unica decisione.

2. - La Corte è chiamata a stabilire se sia conforme ai precetti costituzionali l'art. 18 del r.d.l. 31 maggio 1946, n. 511, nella parte in cui identifica un illecito disciplinare nel fatto che il magistrato "tenga, in ufficio o fuori, condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario".

Il dubbio di costituzionalità è prospettato sotto un duplice profilo: a) per violazione del principio di legalità posto dall'art. 25, secondo comma Cost., in quanto la norma censurata "non tipicizza l'illecito stesso ma lo individua in rapporto a criteri di valutazione e a modelli di comportamento a loro volta non tipicizzati" e conseguente violazione degli artt. 101, comma secondo e 108, comma primo, Post., i quali "non consentono, salvo il disposto dell'art. 105 della Costituzione, la mediazione da parte di altri organi nella disciplina dello status del magistrato in quanto stabiliscono che i giudici sono soggetti soltanto alla legge e che le norme sull'ordinamento giudiziario sono; stabilite per legge"; b) per violazione dell'art. 21, comma primo, Cost., "il quale esclude limitazioni alla libertà di manifestazione del pensiero, sia pure in contemperamento con gli artt. 54, secondo comma, 101, secondo comma e 104, primo comma, della Costituzione".

3. - Le censure non sono fondate. Relativamente al primo degli esposti dubbi di costituzionalità, concernente la dedotta violazione del principio di tipicità dei comportamenti sanzionabili in via disciplinare, deve anzitutto osservarsi che non appare pertinente il richiamo all'art. 25, comma secondo, Cost. Tale norma infatti, interpretata nel necessario collegamento con il primo comma dello stesso articolo, si riferisce, come è generalmente ritenuto, solo alla materia penale e non è di conseguenza estensibile a situazioni, come gli illeciti disciplinari, estranee all'attività del giudice penale, pur se con questa possono presentare, per determinati aspetti, una qualche affinità.

L'esercizio del potere disciplinare è regolato, invero, da principi sostanzialmente differenti e meno incisivi di quelli che reggono l'esercizio del magistero penale, poiché risponde alla potestà amministrativa dello Stato, e non alla funzione di giustizia che quest'ultimo assolve attraverso l'attività giudiziaria.

E tale differenza si riflette naturalmente sulla operatività, nel campo disciplinare, dei principi generali in materia di esplicazione del potere punitivo, rendendola meno rigorosa ed estesa.

Né vale invocare in contrario, come viene fatto nella memoria della parte privata costituitasi in questa sede, la decisione di questa Corte n. 78 del 31 luglio 1967; essa, nel punto in cui afferma che dall'art. 25, comma secondo, Cost., è ricavabile anche per le sanzioni amministrative il principio che deve essere la legge a configurare i fatti da punire, va, infatti, intesa non come trasposizione della disposizione richiamata nella materia disciplinare, con conseguente applicazione di essa alle sanzioni amministrative, ma come riaffermazione della esigenza che anche per gli illeciti disciplinari sia la legge a stabilire i comportamenti sanzionabili.

Neppure può pervenirsi a diversa conclusione, come pure si sostiene nella memoria citata, per il fatto che, per i magistrati, l'applicazione delle sanzioni disciplinari non deriva da un potere discrezionale dell'amministrazione, quale è quello che normalmente si esercita per effetto del rapporto gerarchico e che, inoltre, è preordinato un organo giurisdizionale per l'accertamento dell'illecito e l'applicazione della relativa sanzione. Tali connotazioni non valgono infatti ad eliminare la sostanziale diversità dell'illecito penale da quello disciplinare ma possono tutt'al più evidenziare soltanto qualche aspetto di affinità tra i procedimenti volti all'accertamento dell'illecito.

D'altra parte, va considerato che, pur dovendosi ritenere che, per quanto riguarda i magistrati, il fondamento del potere disciplinare non può ricercarsi, come per gli impiegati pubblici, nel rapporto di supremazia speciale della pubblica amministrazione verso i propri dipendenti, dovendo escludersi un rapporto del genere nei riguardi dei magistrati stessi, "sottoposti soltanto alla legge" ex art. 101 Cost., deve anche riconoscersi che il potere disciplinare nei loro confronti è volto a garantire - ed è rimedio insostituibile - il rispetto dell'esigenza di assicurare il regolare svolgimento della funzione giudiziaria, che è uno degli aspetti fondamentali della vita dello Stato di diritto. Onde ben può configurarsi, su tale base, indipendentemente dal detto rapporto di supremazia, un potere disciplinare fondato direttamente sulla legge e tendente alla tutela dei valori dell'ordinamento dello Stato eventualmente lesi dal comportamento del magistrato.

4. - Ciò premesso, va peraltro affermato che, per quanto concerne la materia disciplinare riguardante i magistrati, il principio di legalità trova egualmente piena applicazione, oltre che come fondamentale esigenza dello Stato di diritto, come conseguenza necessaria del nuovo assetto dato alla magistratura dal legislatore costituente, del quale sono puntuali espressioni la garanzia di indipendenza (artt. 101 e 104 Cost.) e di inamovibilità, se non a seguito di deliberazione del Consiglio superiore della Magistratura per motivi previsti (art. 107 Cost.) dall'ordinamento giudiziario, le cui norme sono stabilite con legge (art. 108 Cost.).

5. - Posta, così, l'esigenza che nella materia in disamina debba essere la legge a determinare illeciti e sanzioni occorre verificare se la norma denunziata, che all'uopo provvede, offra le garanzie volute dall'ordinamento costituzionale.

Il dubbio di legittimità viene fondato, come è stato già precisato, sul difetto di tipicità dell'illecito, che verrebbe in concreto individuato in base a criteri di valutazione ed a modelli di comportamento non specificati, con possibile violazione delle garanzie di indipendenza dei magistrati.

Nell'esaminare tali censure, non può prescindersi dal riferimento ai valori tutelati dalla norma proibitiva, al fine di stabilire, in relazione ad essi, se ed in quale misura sia possibile la tipizzazione dei comportamenti che possono violarli. Essi sono da un lato la fiducia e la considerazione di cui deve godere ciascun magistrato e dall'altro il prestigio dell'ordine giudiziario. É sufficiente esaminare il contenuto di tali valori per constatare la impossibilità di prevedere tutti i comporta menti che possono lederli; si tratta, infatti, di principi deontologici che non consentono di essere ricompresi in schemi preordinati, non essendo identificabili e catalogabili tutti i possibili comportamenti con essi contrastanti e che potrebbero provocare una negativa reazione dell'ambiente sociale.

Ciò spiega la ragione per la quale, nelle leggi che nel passato hanno tentato di enunciare ipotesi tipiche di infrazioni disciplinari - come il r.d.l. 6 dicembre 1865, n. 2626 e la legge 17 luglio 1908, n. 438 - sia stata posta una norma di chiusura generica diretta a sanzionare tutti i comportamenti capaci di ledere la reputazione del singolo magistrato o la dignità dell'ordine al quale egli appartiene.

Per la stessa ragione i vari progetti di riforma, pur con qualche specificazione, indubbiamente utile a fini orientativi, fanno riferimento, per identificare l'illecito per violazione di regole deontologiche, a formule generiche.

Lo stesso avviene negli ordinamenti di varie categorie professionali.

Le previsioni normative in materia non possono non avere portata generale perchè una indicazione tassativa renderebbe legittimi comportamenti non previsti ma egualmente riprovati dalla coscienza sociale.

Tali considerazioni giustificano la latitudine della previsione e l'ampio margine della valutazione affidata ad un organo, che, operando con le garanzie proprie di un procedimento giurisdizionale, è, per la sua strutturazione particolarmente qualificato per apprezzare se i comportamenti di volta in volta considerati siano o meno lesivi dei valori tutelati.

6. - Né può ritenersi che tale sistema normativo violi il principio di legalità perchè, come questa Corte ha affermato (cfr. sent. 191 del 1970 e le altre ivi citate) esso "si attua non soltanto con la rigorosa e tassativa descrizione di una fattispecie ma, in talune ipotesi, con l'uso di espressioni sufficienti per individuare con certezza il precetto e per giudicare se una determinata condotta l'abbia o meno violato".

É stato inoltre ritenuto (sent. 188 del 1975) che "le fattispecie criminose, cosiddette a forma libera, che richiamano, cioè con locuzioni generiche ma di ovvia comprensione concetti di comune esperienza o valori etico-sociali oggettivamente accertabili dall'interprete" sono pienamente compatibili con il principio di legalità.

Tali criteri interpretativi enunciati per fattispecie criminose, appaiono maggiormente validi nella materia disciplinare sia per la minore reazione sociale all'illecito disciplinare rispetto a quello penale e per la minore incidenza di esso sulle posizioni soggettive dell'interessato sia perchè è più ampia, rispetto alle singole ipotesi di reato, la possibilità di comportamenti lesivi dei valori tutelati.

Né appare censurabile il riferimento, nella norma, alla fiducia e considerazione di cui il magistrato deve godere ed al prestigio dell'ordine giudiziario, perchè, come si dirà in prosieguo, trattasi di concetti determinabili secondo la comune opinioni.

Deve pertanto escludersi la violazione delle norme costituzionali invocate, non risultando lesi né il principio di legalità (artt. 25, comma secondo e 108, comma primo, Cost.) né quello di indipendenza del giudice (art. 101, comma secondo, Cost.).

7. - Per quanto concerne la dedotta violazione dell'art. 21, primo comma, Cost., nelle ordinanze e nella memoria della parte costituita, si osserva che il diritto di libertà di manifestazione del pensiero non può subire, per i magistrati, limitazioni diverse da quelle previste per la generalità dei consociati e che la generica formulazione della norma censurata consente una compressione del diritto stesso che non può subire restrizioni per effetto dell'appartenenza ad un ordine o del rivestimento di una qualifica professionale, pur se l'esercizio di esso va contemperato con le disposizioni degli artt. 54, secondo comma, 101, secondo comma, e 104, primo comma, della Costituzione.

Deve riconoscersi - e non sono possibili dubbi in proposito - che i magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino ma deve del pari ammettersi che le funzioni esercitate e la qualifica da essi rivestita non sono indifferenti e prive di effetto per l'ordinamento costituzionale.

Per quanto concerne la libertà di manifestazione del pensiero non è dubbio che essa rientri tra quelle fondamentali protette dalla nostra Costituzione ma è del pari certo che essa, per la generalità dei cittadini non è senza limiti, purché questi siano posti dalla legge e trovino fondamento in precetti e principi costituzionali, espressamente enunciati o desumibili dalla Carta costituzionale (cfr. sent. 9 del 1965).

I magistrati, per dettato costituzionale (artt. 101, comma secondo, e 104, comma primo, Cost.), debbono essere imparziali e indipendenti e tali valori vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza ed imparzialità: nell'adempimento del loro compito.

I principi anzidetti sono quindi volti a tutelare anche la considerazione di cui il magistrato deve godere presso la pubblica opinione; assicurano, nel contempo, quella dignità dell'intero ordine giudiziario, che la norma denunziata qualifica prestigio e che si concreta nella fiducia dei cittadini verso la funzione giudiziaria e nella credibilità di essa.

Nel bilanciamento di tali interessi con il fondamentale diritto alla libera espressione del pensiero, sta, come del resto finiscono per riconoscere le ordinanze di rimessione, il giusto equilibrio, al fine di contemperare esigenze egualmente garantite dall'ordinamento costituzionale.

Alla luce di tali considerazioni va interpretata la sentenza di questa Corte n. 145 del 1976, la quale riconosce "l'esigenza di una rigorosa tutela del prestigio dell'ordine giudiziario, che rientra senza dubbio tra i più rilevanti beni costituzionalmente protetti".

8. - Gli anzidetti rilievi consentono di affermare la piena compatibilità tra libera manifestazione del pensiero e tutela della dignità del singolo magistrato e dell'intero ordine giudiziario; l'equilibrato bilanciamento degli interessi tutelati non comprime il diritto alla libertà di manifestare le proprie opinioni ma ne vieta soltanto l'esercizio anomalo e cioè l'abuso, che viene ad esistenza ove risultino lesi gli altri valori sopra menzionati.

In questa sede non può precisarsi - e ciò non rientra del resto nei compiti della Corte - quali possano essere i comportamenti di cui si è fatto cenno. Dovrà l'organo chiamato a valutare i singoli comportamenti stabilire se essi possano o meno essere riprovati dalla coscienza sociale e se siano o meno conformi alla valutazione che comunque possano fare di essi gli stessi consociati in relazione alla natura e rilevanza degli interessi tutelati ed in funzione del buon andamento dell'attività giudiziaria.

Il controllo di legittimità, affidato al massimo organo della giurisdizione ordinaria, costituisce poi garanzia ulteriore della esatta osservanza dei principi costituzionali applicabili.

Deve, pertanto, escludersi anche la violazione dell'art. 21, comma primo, della Costituzione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 18 r.d.l. 31 maggio 1946, n. 511, nella parte in cui sottopone a sanzione disciplinare il magistrato che tenga in ufficio o fuori condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere o che comprometta il prestigio dell'Ordine giudiziario, sollevate con le ordinanze della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura indicate in epigrafe in relazione agli artt. 21, primo comma, 25, secondo comma, 101, secondo comma, e 108, primo comma, della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 1981.

Leonetto AMADEI – Giulio  GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Michele ROSSANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI.

Giovanni VITALE – Cancelliere

 

Depositata in cancelleria l'8 giugno 1981.