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Madre non impedisce abusi sessuali del padre sulla figlia: condannata (Cass. 1650/19)

15 gennaio 2019, Cassazione penale

Colpevole di concorso nel reato di violenza sessuale  la madre che, una volta informata dalla figlia di quanto da essa subito, e spinta dalla volontà di non mutare la propria situazione familiare, preferisce prendere le parti del marito, insultando e schernendo la minore e, soprattutto, costringendo la stessa a ritrattare - con la complicità del coniuge - quanto da essa raccontato.

Se un genitore è a conoscenza dell'abuso, è in grado di impedire ulteriori abusi: se volontariamente omette di attivarsi, risponde di concorso omissivo. 

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 28 settembre 2018 – 15 gennaio 2019, n. 1650
Presidente Di Nicola – Relatore Andronio

Ritenuto in fatto

1. - Con sentenza del 23 novembre 2017 la Corte d'appello di Milano ha parzialmente riformato la sentenza emessa il 10 marzo 2014 dal Tribunale di Milano, che aveva condannato l'imputata per i reati di cui a) agli artt. 81, 40, secondo comma, 609 bis, 609 ter, n. 5, cod. pen., perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, quale genitore della minore Ca. Fr. Cr., aveva omesso di impedire gli atti di violenza sessuale posti in essere a danno della figlia dal padre della stessa, Ca. Ro.; b) agli artt. 110, 572 cod. pen., perché, in concorso con il marito Ca. Ro., quale genitore esercente la potestà nei confronti di Ca. Fr. Cr., aveva maltrattato la predetta con condotte reiterate e abituali, cagionandole pessime condizioni di vita.
La Corte d'appello di Milano ha dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione nei confronti dell'imputata per il reato di cui agli artt. 110 e 572 cod. pen. e ha confermato nel resto la sentenza impugnata.

2. - Avverso la sentenza l'imputata ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento.

2.1. - Con un primo motivo di doglianza, si censurano il vizio di motivazione e la violazione di legge in ordine alla ritenuta sussistenza dell'elemento soggettivo del reato. Secondo la difesa, il collegio del gravame sarebbe pervenuto ad una conferma della penale responsabilità, muovendo da una valutazione giudiziale delle risultanze processuali affetta da vizi logico-giuridici, da travisamenti di prova e dal ricorso ad elementi presuntivi, quanto ad alcuni aspetti di rilievo decisivo. In primo luogo, la difesa ritiene che la Corte distrettuale, facendo ampio richiamo alla sentenza di primo grado, non si sia confrontata adeguatamente con le doglianze proposte nell'atto di appello, volte a rilevare il travisamento delle risultanze probatorie, dalle quali sarebbe emerso che la Sp. non si era rappresentata il fatto di reato e, conseguentemente, non aveva avuto consapevolezza degli abusi perpetrati dal coniuge ai danni della figlia. Più in particolare, sarebbe erroneo ritenere che la persona offesa, dopo aver raccontato alla madre degli abusi subiti da parte del padre, era stata costretta a ritrattare tutto perché la Sp., dopo essersi confrontata con il marito, le aveva dato della bugiarda e aveva smesso di credere a quanto da lei riferito. Secondo la prospettazione difensiva, i fatti sarebbero andati in modo diverso: la Sp. - nonostante le peculiari modalità di esordio del racconto, effettuato dopo che la madre aveva accusato la minore di intraprendere una relazione con un uomo molto più grande di lei - avrebbe pacificamente creduto a quanto riferito dalla figlia, soffrendo con lei per l'accaduto e promettendo di proteggerla. La ricorrente avrebbe poi cambiato opinione, non - come erroneamente ritenuto dai giudici del merito - dopo essersi confrontata, con il marito, ma dopo che la stessa figlia, costretta dal padre senza che la madre sapesse nulla, aveva ritrattato la sua versione, affermando di essersi inventata tutto e di aver intrapreso la relazione con un proprio coetaneo. Solo a seguito di questa apparentemente convincente ritrattazione, l'imputata avrebbe smesso di credere alla figlia, dandole della bugiarda, accusandola di voler immotivatamente rovinare la famiglia e schernendola con frasi poco confacenti al suo ruolo di madre. A tale conclusione, secondo la difesa, si sarebbe dovuti pervenire sulla base di plurimi elementi probatori: intanto la genesi del racconto e la reazione positiva della madre sarebbe stata descritta in tal modo dalla vittima sentita in udienza, e la stessa sarebbe stata confermata anche da Li. Sp., sorella dell'imputata. A tale proposito, infatti, i giudici di merito avrebbero errato nel fare riferimento ad una sola telefonata intercorsa tra le sorelle durante la quale l'imputata, a fronte delle preoccupazioni espresse dalla sorella che era venuta a conoscenza da Fr. degli abusi subiti dal padre, l'aveva tranquillizzata riferendole che in realtà la minore aveva intrapreso una relazione con un suo coetaneo e non certo con il padre. Per la difesa, tra le due sorelle sarebbero intercorse due telefonate, e solo nella seconda, avvenuta dopo che la minore aveva ritrattato con convinzione quanto da lei raccontato e dunque la madre aveva smesso di crederle, la Sp. aveva tranquillizzato la sorella smentendo quanto riferitole dalla stessa minore. I giudici del merito avrebbero, dunque, operato un palese travisamento probatorio, da un lato considerando un'unica telefonata (invece di due) e dall'altro collocando erroneamente tale unica telefonata, in cui la Sp. smentiva il racconto della persona offesa, prima della ritrattazione della minore e non in un momento successivo ad essa. Sarebbe stata la stessa Li. Sp. a dichiarare in udienza che la seconda conversione era avvenuta dopo la ritrattazione della minore, che aveva addirittura giurato sulla la falsità di quanto da lei affermato. Ancora, secondo la difesa, a provare in modo decisivo il fatto che l'imputata avesse smesso di credere alla figlia solo dopo la sua ritrattazione contribuirebbero le dichiarazioni rese in udienza dalla stessa persona offesa, che aveva confermato di aver addirittura indicato alla madre il coetaneo con cui aveva rapporti sessuali e aveva precisato che il mutamento di atteggiamento da parte della madre, che l'aveva accusata di essere una bugiarda e di avere rovinato una famiglia, era avvenuto solo dopo la sua ritrattazione. In ogni caso, il fatto che l'imputata non volesse credere al marito al mero scopo di non alterare le proprie abitudini familiari, sarebbe anche dimostrato dagli atteggiamenti "di controllo" che la donna aveva iniziato a porre in essere nonostante la ritrattazione. Non si sarebbe considerato, sul punto, che la stessa persona offesa aveva dichiarato che la madre tentava di raccogliere elementi (soprattutto controllava cosa il padre e la minore facessero insieme e comunque soleva non lasciarli più soli) che potessero tranquillizzarla in merito al fatto che il convincimento da lei maturato dopo la ritrattazione della figlia fosse quello corretto. La minore avrebbe, altresì, aggiunto di avere tentato di lasciare in casa delle "prove" (in particolare cassette pornografiche) che potessero far ricredere la madre, la quale, tuttavia, non le aveva mai trovate a causa delle precauzioni adottate dal marito e, per questa ragione, era rimasta ferma nel suo convincimento. Proprio le attenzioni rivolte dalla Sp. agli incontri tra padre e figlia, se pure finalizzati solamente ad ottenere prove del proprio convincimento negativo avrebbero comunque determinato - secondo la difesa - la riduzione dei fenomeni d'abuso, come dichiarato dalla stessa persona offesa. I giudici del merito avrebbero dunque operato una scorretta e arbitraria ricostruzione dei fatti, disancorata rispetto a qualsivoglia risultanza processuale, giungendo ad affermare, al solo scopo di affermare la penale responsabilità dell'imputata, che il mutamento di convincimento della Sp. era avvenuto dopo il confronto con il marito, con cui aveva deciso di allearsi al fine di non mutare le proprie abitudini di vita. La difesa sostiene che la convinzione dell'imputata circa l'insussistenza delle violenze acquista centralità rispetto al complessivo impianto argomentativo, con riferimento all'elemento soggettivo. Lamenta, cioè, che i giudici di secondo grado avrebbero attribuito la penale responsabilità all'imputato sulla base della mera conoscibilità dell'evento e non dell'effettiva conoscenza dello stesso, laddove la fattispecie di cui all'art. 40, secondo comma, cod. pen., imporrebbe di modulare il requisito della conoscibilità-conoscenza del presupposto di fatto che fonda l'azione doverosa in funzione della natura rispettivamente colposa o dolosa della contestazione che ne costituisce l'oggetto, sicché, in caso di contestazione di natura dolosa, la mera conoscibilità dell'evento non costituirebbe presupposto dell'obbligo di attivarsi.
2.2. - Con un secondo motivo di ricorso, si censurano il vizio di motivazione e la violazione dell'art. 62 bis cod. pen., con riferimento alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche sulla base della sola gravità del reato posto in essere; elemento che di per sé non sarebbe ostativo. Al contrario, il collegio del gravame avrebbe dovuto considerare gli elementi addotti dalla difesa, quali: il fatto che anche l'imputata - come riferito dalla stessa persona offesa e dai testi Sp., Mi. e So., era a sua volta vittima delle vessazioni e dei maltrattamenti posti in essere dal marito; il fatto che la stessa era stata ritenuta dalla psicologa incaricata dal Tribunale per i minorenni incapace di revisionare criticamente i fatti di causa, "dissociata e negazionista", a causa del quadro patologico da attribuire al proprio vissuto traumatico; lo stato di incensuratezza dell'imputata.
2.3. - La difesa ha depositato memoria, con la quale insiste in quanto già dedotto, allegando il verbale dell'audizione della persona offesa.

Considerato in diritto

3. - Il ricorso è inammissibile.
3.1. - il primo motivo - con cui si censura la riconosciuta sussistenza dell'elemento soggettivo del reato contestato - è inammissibile, perché, oltre a riproporre questioni già sollevate e correttamente disattese dai giudici del merito, si basa su una mera ricostruzione alternativa dei fatti, che non trova fondamento concreto in nessuno degli elementi probatori raccolti e, anzi, contrasta con le attendibili dichiarazioni rese dalla persona offesa, così come riscontrate dalle plurime testimonianze acquisite in dibattimento.
In particolare, deve rilevarsi che il principale elemento evidenziato dalla difesa per sostenere la mancata rappresentazione dei fatti da parte dell'imputata risulta frutto di una mera congettura: non è vero, infatti, che dal separato procedimento a carico di Ro. Ca., padre della minore, era emerso che questa aveva ritrattato la propria confessione perché da lui "minacciata in separata sede".

Al contrario, anche la pronuncia in esame - in perfetta sintonia con le statuizioni di primo e secondo grado a carico dell'odierna ricorrente - ha descritto un clima negativo, nel quale la madre, una volta informata dalla figlia di quanto da essa subito, spinta dalla volontà di non mutare la propria situazione familiare, aveva preferito prendere le parti del marito, insultando e schernendo la minore e, soprattutto, costringendo la stessa a ritrattare - con la complicità del coniuge - quanto da essa raccontato.

Dai plurimi elementi raccolti - come correttamente evidenziato da entrambe le pronunce di merito - emerge, dunque, che la persona offesa ha ritrattato la sua tragica confessione non perché segretamente costretta dal padre, ma perché sollecitata e pressata da entrambi i genitori, tra loro saldamente alleati contro la verità emergente dal racconto della minore.

Tale approdo è, altresì, confermato dalla stessa persona offesa - ritenuta pienamente attendibile in entrambi i processi - che ha giustificato la propria ritrattazione sulla base della frustrazione provata per il fatto di non essere creduta e per il timore di coinvolgere nella spiacevole vicenda la persona con cui intratteneva una relazione sentimentale.

La medesima conclusione non è smentita neppure dalla ricostruzione delle telefonate intercorse tra l'odierna imputata e la sorella Li. Sp.. Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, infatti, la testimone non ha mai saputo spiegare compiutamente da chi avesse appresso degli abusi, né il momento esatto - se prima o dopo la ritrattazione - in cui aveva ricevuto la smentita dei fatti da parte della Sp..

Lei stessa, inoltre, ha indirettamente dato conto delle pressioni esercitate dalla madre sulla minore per forzarla a ritrattare, riferendo espressamente l'episodio in cui l'imputata l'aveva condotta in chiesa e l'aveva costretta a giurare di essersi completamente inventata quanto raccontato.

Approdi non dissimili si raggiungono attraverso l'analisi - correttamente valorizzata dai giudici del gravame - delle ulteriori testimonianze, tutte concordi nel riferire che la minore subiva passivamente le vessazioni dei genitori, ovvero particolare le condotte sessuali del padre abusante e il comportamento negazionista della madre che, sebbene informata dell'accaduto, non la proteggeva in alcun modo.

A ciò, deve in ultimo aggiungersi che, ai fini della formazione del libero convincimento del giudice, sussiste un effettivo contrasto fra le opposte versioni rese dall'imputato e dalla persona offesa, oggetto di valutazione da parte del giudice anche al fine di verificare l'attendibilità di quest'ultima, solo nel caso in cui sia l'imputato personalmente ad aver fornito la contrastante versione dei fatti, non essendo sufficiente invece una mera prospettazione da parte del suo difensore (ex multis Sez. 3, n. 20884 del 22/11/2016). E nel caso di specie l'imputata non ha mai sostenuto in prima persona la propria versione difensiva, non essendosi sottoposta all'esame. Come ben evidenziato dai giudici di merito, il comportamento dell'imputata integra, dunque, i requisiti della conoscenza dell'abuso, della riconoscibilità dell'azione doverosa su di sé incombente, della volontaria omissione del comportamento impeditivo dell'evento, richiesti dalla giurisprudenza per configurare la fattispecie emergente dal combinato disposto di cui agli artt. 40, secondo comma, e 609 bis cod. pen (ex plurimis Sez. 3, n. 19603 del 28/02/2017; Sez. 3, n. 4730 del 14/12/2007).

3.2. - Parimenti inammissibile è il secondo motivo di ricorso, volto a contestare la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche di cui all'art. 62 bis cod. pen.
A tale proposito, deve ricordarsi che, ai fini del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, può essere valutato il medesimo elemento considerato ai fini della gradazione della pena, ben potendo un dato polivalente essere utilizzato più volte sotto differenti profili senza lesione del principio del ne bis in idem (ex plurimis Sez. 5, n. 24995 del 14/05/2015; Sez. 6, n. 45623 del 23/10/2013). Parimenti, deve rilevarsi che in tema di diniego della concessione delle attenuanti generiche, la ratio della disposizione di cui all'art. 62 bis cod. pen. non impone al giudice di merito di esprimere una valutazione circa ogni singola deduzione difensiva, essendo, invece, sufficiente l'indicazione degli elementi di preponderante rilevanza ritenuti ostativi alla concessione delle predette attenuanti (ex plurimis Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017; Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016). Facendo corretta applicazione di tali principi, la Corte d'appello ha valorizzato in senso negativo la grave condotta dell'imputata, consistita nell'omissione della vigilanza sull'operato del coniuge e nella accettazione delle sue condotte delinquenziali. Per contro, ha evidenziato la completa inconsistenza degli elementi positivi addotti dalla difesa, in quanto -contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso - l'imputata non poteva ritenersi essa stessa vittima del coniuge, dal momento che conduceva una vita parallela esterna al nucleo familiare tramite la forzata collaborazione della figli, a la quale - attraverso ricatto e minaccia - era costretta ad inventare menzogne per nascondere al padre le svariate relazioni extraconiugali intrattenute dalla madre, nonché a gestire la casa e il fratellino minore, per il disinteresse di entrambi i genitori.
4. - Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile.
Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 2.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.