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Istigazione a violare la legge (Corte Cost., 71/78)

5 giugno 1978, Corte Costituzionale

L'istigazione di militari a disobbedire alle leggi non contrasta con il diritto fondamentale di libera manifestazione del pensiero. 

La libertà garantita dall'art. 21 Costituzione può consentire modi di manifestazione e propaganda per la pace universale, la non violenza, la riduzione della ferma, l'ammissibilità dell'obiezione di coscienza, la riforma del regolamento di disciplina o altri, che non si concretino mai in una istigazione a commettere altri reati, a violare in genere i doveri imposti al militare dalle leggi.

Apologia punibile non è quella che si estrinseca in una semplice manifestazione di pensiero, diretta all'esternazione e alla diffusione di dottrine per inculcare in altri la persuasione della verità di queste e della necessità di attuarle, ma è solo quella apologia che per le modalità con le quali viene compiuta rivesta carattere di effettiva pericolosità per l'esistenza di beni costituzionalmente protetti e integri comportamento concretamente idoneo a promuovere la commissione di delitti.

 

CORTE COSTITUZIONALE
(ud. 23/05/1978) 05-06-1978, n. 71

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 266 c.p., promosso con ordinanza emessa il 13 novembre 1975 dalla Corte di Assise di Bolzano, nel procedimento penale a carico di Mughini Giampiero ed altri, iscritta al n. 592 del registro ordinanze 1975 e pubblicata nella Gazzetta ufficiale della Repubblica n. 38 dell'11 febbraio 1976.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udito nell'udienza pubblica del 26 aprile 1978 il Giudice relatore Edoardo Volterra;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

Svolgimento del processo - Motivi della decisione


1. - Il giudice a quo, richiamando la sent. n. 16 del 1973 di questa Corte, con la quale veniva dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 266 del codice penale, in riferimento all'art. 21 Cost., denunzia sotto nuovo profilo la illegittimità del medesimo articolo in riferimento all'art. 21, prima parte, e all'art. 25, secondo comma, Cost.

La norma in oggetto nella sua indeterminatezza prescinderebbe infatti da un qualsiasi esame in ordine all'effettivo verificarsi di un pericolo per l'interesse tutelato.

2. - Dall'enunciazione dei termini della denunzia appare non fondato il riferimento all'art. 25, secondo comma, Cost., norma che, limitandosi a porre il principio della più stretta riserva di legge in materia penale, in nessun modo vincola il legislatore al perseguimento di specifici interessi.

3. - L'ordinanza con riguardo all'art. 21 crede di ravvisare un contrasto nella giurisprudenza della Corte Costituzionale.

Infatti, dato che nella sent. n. 108 del 1974, con la quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 415 c.p. nella parte in cui non specifica che l'istigazione all'odio fra le varie classi sociali deve essere attuata in modo pericoloso per la pubblica tranquillità la Corte, avrebbe motivato la sua decisione anche in base alla considerazione dell'indeterminatezza della norma, vi sarebbe, sempre secondo il giudice a quo, contrasto fra la motivazione di questa sentenza e quella, già richiamata, n. 16 del 1973.

4. - La Corte con la sent. n. 87 del 1966, la sent. n. 65 del 1970 e la sent. n. 108 del 1974 ha delineato il concetto di apologia di reato in riferimento al principio della libertà di manifestazione del pensiero sancito dall'art. 21 Cost., precisando che l'art. 414, ultimo comma, c.p., non limita in alcun modo la critica della legislazione e della giurisprudenza né l'attività propagandistica diretta a promuovere l'abrogazione di qualsiasi norma incriminatrice anche nel momento in cui essa viene applicata in concreto.

Ha affermato che apologia punibile non è quella che si estrinseca in una semplice manifestazione di pensiero, diretta all'esternazione e alla diffusione di dottrine per inculcare in altri la persuasione della verità di queste e della necessità di attuarle, ma è solo quella apologia che per le modalità con le quali viene compiuta rivesta carattere di effettiva pericolosità per l'esistenza di beni costituzionalmente protetti e integri comportamento concretamente idoneo a promuovere la commissione di delitti.

5. - Coerentemente a tale giurisprudenza, la Corte non può che confermare gli argomenti svolti nella richiamata sent. n. 16 del 1973 circa l'infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 266 c.p. in riferimento all'art. 21 Cost. Né vi è contrasto fra la motivazione di questa pronunzia e quella n. 108 del 1974 riguardante l'art. 415 c.p.

Infatti la prima sentenza esaminando il contenuto e i limiti dell'art. 266, puntualizza la distinzione fra gli atti la cui istigazione o apologia costituisce il reato previsto e le ideologie e le dottrine la cui propaganda non rientra in detto articolo e non può essere perseguita e vietata, senza violare il principio della libertà di manifestazione dichiarata nell'art. 21 Cost..

«L'istigazione di militari all'infedeltà o al tradimento» afferma la sentenza, «in tutte le forme previste dall'art. 266 c.p. (disobbedire alle leggi, violare il giuramento dato o i do veri della disciplina militare o altri doveri inerenti al proprio stato) offende e minaccia un bene cui la Costituzione riconosce un supremo valore o accorda una tutela privilegiata, in conformità di tutte le costituzioni moderne, da qualsiasi ideologia siano ispirate e da qualunque regime politico-sociale siano espresse».

Con ciò implicitamente la Corte esclude ogni indeterminatezza dell'art. 266, precisando anzi che esso trova applicazione solo quando l'istigazione sia diretta a commettere gli atti concreti specificatamente elencati, i quali costituiscono per valutazione legislativa immune da irragionevolezza pericolo per il bene costituzionalmente protetto e non invece sostanziano critica per fatti specifici in relazione ai quali si eserciti democraticamente il controllo dell'opinione pubblica.

«Rispetto alla norma incriminatrice dell'art. 266 c.p.», prosegue infatti la sentenza, «la libertà garantita dall'art. 21 Cost. può consentire modi di manifestazione e propaganda per la pace universale, la non violenza, la riduzione della ferma, l'ammissibilità dell'obiezione di coscienza, la riforma del regolamento di disciplina o altri, che non si concretino mai in una istigazione a disertare... a commettere altri reati, a violare in genere i doveri imposti al militare dalle leggi».

Come può constatarsi, l'interpretazione che la Corte dà all'art. 266 c.p. lascia al giudice di merito la specifica valutazione se l'atto di cui si fa istigazione o apologia rientri o meno nelle ipotesi previste dall'articolo citato e se l'attività sia attuata con modalità tali da concretizzare un'istigazione o una apologia perseguibile penalmente.

La mancanza del presupposto di indeterminatezza dell'articolo in parola conferma l'insussistenza del denunziato contrasto fra la motivazione della sentenza del 1973 sull'art. 266 e la motivazione della sentenza del 1974 sulla parziale incostituzionalità dell'art. 415 c.p., il quale ultimo, nella sua formulazione originaria, permetteva anche la repressione della semplice esternazione, attuata in modo non pericoloso per la pubblica tranquillità, della verità di una dottrina ed ideologia politica o filosofica sulla necessità di un contrasto fra portatori di opposti interessi economici e sociali.

P.Q.M.
la Corte Costituzionale

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 266 c.p. sollevata in riferimento all'art. 21, prima parte, e all'art. 25, secondo comma, Cost. dall'ordinanza in epigrafe.

Cosi deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 maggio 1978.