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La punibilità' della tortura in Italia e in Cile

11 ottobre 2018, Giuseppe Sambataro

"Non è che subito si faceva ‘sto waterboarding, poi ho capito che il waterboarding non si faceva subito al primo passante. (..) Era una tecnica molto usata nelle squadre mobili; ecco perché Nicola Ciocia e i suoi uomini. Perché lui era stato a capo della squadra mobile di Napoli, era una tecnica molto in voga in tutte le polizie europee ed era stata imitata, utilizzata molto durante, ma molto molto più pesante, durante la rivolta di Algeri. Di quella tecnica io a quel momento non conoscevo l’esistenza. Dunque, dobbiamo precisare questo. Di tale tecnica non si faceva uso negli uffici chiamiamoli politici, con i detenutidiciamodi natura politica. L’inizio era stato col Triaca, fu l’inizio di questa attività in settori politici,per l’emergenza dovuta al caso Moro, Dozier, i cinque sequestri, l’ira di Dio che stavascoppiando in Italia. Negli uffici Digos, nell’antiterrorismo politico non venivano usati questi metodi e quindi nessun agente sottufficiale o funzionario li sapeva fare o li conosceva, mentre erano diffusi nelle squadre mobili, guarda caso."

Università degli studi di trento

Relatore:
Prof. Gabriele Fornasari

Controrelatore: Prof. Sergio Bonini

Facoltà di Giurisprudenza
Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

LA PUNIBILITA’ DELLA TORTURA IN CILE E IN ITALIA

Laureando: Giuseppe Sambataro

 

INDICE

I. INTRODUZIONE

I.I. L’Abolizione della tortura: una storia lunga tre secoli

I.II. Il ritorno della tortura nel XX secolo

 I.III. Lo scenario attuale

1. LA TORTURA IN ITALIA

1.1. Esiste la tortura in Italia ?

1.2. La tortura in Italia: l’inadeguatezza degli attuali strumenti di contrasto

1.3. L’obbligo di criminalizzazione della tortura nelle fonti normative 

1.3.1. Le fonti interne

1.3.2. Le fonti internazionali 

1.4. L’obbligo di criminalizzazione della tortura nelle pronunce giurisprudenziali 

1.4.1. La giurisprudenza italiana 

1.4.2. La giurisprudenza internazionale

1.5. La tortura in Italia: considerazioni finali ..

2. LA TORTURA IN CILE

2.1. Un’analisi storico-sociologica

2.1.1. Il Tribunale del Santo Ufficio dell’Inquisizione

2.1.2. L’indipendenza

2.1.3. Dalla Guerra Civile del 1891 al 1931

 2.1.4. Il Governo di Ibàñez

2.1.5. La democrazia cilena: 1932-1973

2.1.6. La dittatura

2.1.7. Transizione politica e post dittatura

2.1.8. Conclusione

 2.2. Il delitto di tortura nelle fonti cilene

2.2.1. Il dettato costituzionale

2.2.2. La genesi del Codice penale cileno

2.2.3. La sistemazione del delitto

2.2.4. Il delitto di tortura nel diritto penale cileno: una visione generale

 2.2.5. Il sistema pre-riforma 

2.2.6. Le obbligazioni internazionali

2.2.7. La regolazione attuale.

2.3. I beni giuridici offesi dalla tortura

2.3.1. Questioni preliminari relative alla teoria del bene giuridico

2.3.2. La dignità

 2.3.3. La natura plurioffensiva del delitto

2.4. La struttura dell’art.150-A c.p.

2.4.1. Il soggetto attivo

2.4.2. Il soggetto passivo

2.4.3. L’elemento oggettivo

2.4.4.L’elemento soggettivo

2.5. L’articolo 150-B c.p.

2.6. Altri regimi punitivi interni

2.6.1. Il régimen común del Codice penale

2.6.2. L’articolo 255 c.p.

2.6.3. L’art.150 n.1 c.p.

2.6.4. L’art. 330 Codigo de Justicia Militar

2.6.5. L’art. 19 D.L.2460, Ley Orgánica de Investigaciones de Chile

 2.7. La tortura in Cile: problemi pratici di punibilità, dati e testimonianze 

2.7.1. La riforma del processo penale, le agitazioni sociali, ed il loro impattosull’andamento della tortura

2.7.2. Le vittime della tortura: studio dei contesti più vulnerabili

2.7.2.a.Tortura in carcere

2.7.2.b.Tortura in altri contesti di detenzione

2.7.2.c. Tortura su donne  

2.7.2.d. Tortura su membri di popolazioni indigene

2.7.2.e. Tortura e proteste sociali

2.7.3. Altre difficoltà pratiche nel contrasto alla tortura

2.7.3.a. Difficoltà nella fase preventiva

 2.7.3.b. Difficoltà nella fase investigativa

 2.7.3.c. La reazione interna dei corpi di polizia

2.7.3.d. La formazione dei corpi di polizia 

2.8. Il Protocollo di Istanbul

2.9. Il Protocollo Opzionale alla Convenzione contro la Tortura

2.10. Le osservazioni del Comitato contro la Tortura

 2.11. La tortura nella giurisprudenza cilena 

 

(..)

. II. CONCLUSIONI 5

II.I. L’ultima proposta di legge per l’introduzione del reato di tortura

II.I.I. La sistemazione del delitto

II.I.II. Il soggetto attivo

II.I.III. Il soggetto passivo

II.I.IV. L’elemento oggettivo

II.I.V. L’elemento soggettivo

II.I.VI. Considerazioni finali

 II.II. Il reato non basta

II.III. Una questione culturale 

 BIBLIOGRAFIA

SITOGRAFIA

 

Tortura: il reato non basta

Alcune considerazioni finali si impongo a conclusione di questo lavoro.

Ci si soffermerà qui solo brevemente sulle numerose misure, a cui pure si è fatto cenno nel corso della trattazione, che l’Italia dovrebbe introdurre per contrastare efficacemente un fenomeno tanto complesso e stratificato come quello della tortura. Molte di queste sono, ancora una volta, espressamente richieste dal diritto internazionale.

Si pensi, per cominciare, al numero identificativo che dovrebbe essere indossato dagli agenti, rendendoli riconoscibili pur mantenendone l’anonimato. O ad un’adeguata formazione dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio su tematiche relative al rispetto dei diritti umani, misura già ripetutamente invocata da più documenti internazionali, CAT in primis. O ancora, alla necessità di intervenire anche sul sistema processuale, per eliminare qualsiasi situazione possa favorire il ricorso a questo tipo di violenze, rendendo ad esempio inutilizzabili gli elementi di prova ottenuti per questa via. Un ruolo importante è giocato, come visto, anche dai tempi di prescrizione, la cui disciplina dovrebbe quindi essere modificata relativamente alla tortura. Vi è infine la necessità di una serie di altri interventi, che ad esempio mirino a ridurre al minimo i tempi di custodia nelle mani delle forze dell’ordine, che garantiscano l’immediata presenza del difensore ad interrogatori e ispezioni, ericonoscano all’arrestato il diritto, se lo desidera, di essere visitato da un medicodi sua scelta.

E non si può negare poi come vi siano interi ambiti dell’ordinamento che necessiterebbero di una riforma strutturale, ambiti particolarmente toccati dagli abusi di cui ci si occupa.

Il riferimento è qui innanzitutto al sistema carcerario. Appare infatti scontato il legame tra la natura dell’istituzione carceria, di per sé chiusa eisolata dal resto della società, e l’alto numero di abusi che vi hanno luogo, abusi a cui, com’è facile immaginare, solo poche volte seguono denunce.

Ed il quadro peggiora se si pensa alle concrete condizioni degli istituti penitenziari italiani, testimoniate da periodici rapporti di enti nazionali ed internazionali, e sanzionate di recente anche giudizialmente nel casoTorreggiani e altri c.Italia della Corte EDU.354 Un ripensamento delle politichecarcerarie, nell’ottica di un miglioramento e di una messa in sicurezza delle condizioni detentive, sarà quindi corollario necessario di un eventuale processo di contrasto effettivo delle pratiche di tortura. In questo senso, va accolta conentusiasmo l’istituzione, seppur tardiva, di un Garante Nazionale dei Diritti delle Persone Detenute o Private della Libertà Personale, ente a cui sono attribuite, tra le altre, le attribuzioni del Meccanismo Nazionale di Prevenzione, previsto dal Protocollo Addizionale alla CAT.

Non è poi possibile chiudere gli occhi di fronte alle continue violazioni dei diritti umani perpetrate contro immigrati, irregolari e clandestini, sotto l’egidaautoassolutoria della sicurezza, nel nome della quale si stringono accordi bilaterali per respingere gli stessi in quei Paesi in cui la tortura non solo è probabile, ma è pratica risaputamente diffusa. E ciò, si badi bene, contravvenendo ad espliciti obblighi di non refoulement sanciti internazionalmente e sottoscritti dall’Italia, che proprio per queste violazioni è stata a più riprese condannata dalla Corte EDU.

Si veda ad esempio il casodell’imam Abu Omar, sospettato di collaborare con il terrorismo di matrice islamica, sequestrato in Italia da agenti delle CIA, militari NATO, e membri del SISMI, che avrebbero poi provveduto a consegnarlo all’Egitto, Paese dove, come da ultimo mostrato dalla brutale vicenda Regeni, si fa uso sistematico della tortura. Al di là del merito della vicenda, va rilevato come il fatto che il Presidente Napolitano prima, e Mattarella poi, abbiano concesso la grazia ad alcuni responsabili del sequestro, non restituisca di certo un’immagine rassicurante a chi sia convinto della necessità di una decisa presa di posizione del Paese contro queste pratiche.

Ma non è solo questa sorta di tortura indiretta ad interessare il mondo delle politiche migratorie, se si pensa alle difficile condizioni in cui versa il sistema di accoglienza italiano. E’ infatti degli stessi giorni in cui queste pagine vengono scritte un rapporto di Amnesty International che accusa la polizia italiana di aver sistematicamente picchiato e torturato migranti e profughi, arrivando fino ad utilizzare l’elettroshock, per costringerli alla registrazione delleimpronte digitali all’interno degli hostpot. Questi centri di identificazione, sono stati istituiti dall’ Agenda Europea sull’Immmigrazione, approvata nel 2015.

Ed è proprio quest’ultimo documento a delineare un sistema di gestione dei flussi migratori che, facendo pressione soprattutto sugli Stati di frontiera come l’Italia, favorisce un quadro in cui abusi e respingimenti forzati rischiano diessere all’ordine del giorno.

Queste righe hanno sicuramente dato un’idea della complessità di unintervento serio ed efficace nel contrasto alla tortura. Complessità che, chiaramente, si traduce in resistenze, tanto economiche quanto politiche, a riforme strutturali dei settori sensibili a cui si è fatto riferimento. A ben vedereperò, ed è questo un tema conduttore dell’intero lavoro, la radice comune di quest’esitazioni normative, di questa riluttanza sistemica, sta proprio nella percezione sociale, e quindi culturale, del fenomeno della tortura. A ciò èdedicato l’ultimo paragrafo del lavoro.

II.III. Una questione culturale

Rimangono una serie di ulteriori lezioni che è possibile trarre dall’esperienza cilena.

Si è visto infatti come quell’ordinamento, pur prevendo un’appositafattispecie penale, sia ancora parecchio lontano dal riuscire a contrastare efficacemente la diffusione di condotte che, per quantità e qualità, sono ben oltre il livello di gravità tollerabile. E ciò, nonostante la scrittura della norma possa ritenersi complessivamente soddisfacente.

Le cause di questa perdurante situazione vanno solo in parte rintracciatenell’eccesiva mitezza delle sanzioni previste, da cui deriva quasi semprel’applicazione di meccanismi di “fuga dalla pena” che riducono sensibilmente la possibilità di un concreto effetto deterrente. E neppure si può attribuire tutta la colpa alle altre questioni tecniche e procedurali analizzate, per cui si rimanda ai relativi paragrafi di questo lavoro.

Il punto, a cui qui si vuole arrivare, è che tanto le reticenze del sistemacileno, quanto quelle dell’ordinamento italiano, hanno innegabilmente un’origineculturale.

Si fa riferimento innanzitutto alla formazione interna dei corpi di polizia. Già si è accennato, nella parte relativa all’ordinamento italiano, allapreoccupante tendenza di questi a reagire corporativamente di fronte ai casi di abusi, quasi sempre sminuendo l’entità degli atti, ed arrivando in certi casi ad ostacolarne illegalmente la persecuzione. Condotte siffatte sono state confermate da alcune fondamentali pronunce interne ed internazionali.E’ quindi impossibile negare una responsabilità perlomeno politica dei vertici di dette istituzioni, da cui ci si aspetterebbe invece una condanna senz’esitazionidi queste violazioni. Violazioni che, va detto, inevitabilmente finiscono conl’infangare anche l’operato di chi svolge il proprio lavoro onestamente, e spesso non adeguatamente retribuito.

D’altro canto, la retorica della singola mela marcia, della pecora nera in un gregge di funzionari integerrimi, stride con la realtà se si considerano alcuni episodi, tristemente noti in Italia, che vedono protagonisti in particolare gli appartenenti al SAP, il Sindacato Autonomo di Polizia.

Si pensi, ad esempio, all’ infelice vicenda che ha visto l’intera platea del Congresso nazionaledell’organismo spendersi in un lungo applauso rivolto a tre dei quattro agenti condannati in via definitiva per aver pestato a morte il giovane Federico Aldrovrandi. Fatto questo, va aggiunto, che ha scatenato reazioni indignate nelmondo politico e spaccature all’interno della stessa polizia.

Si vedano poi i numerosi interventi dei rappresentanti sindacali nelle audizioni davanti alla Comissione giustizia della Camera, nelle sedute del 18 e del 28 giugno 2014, mentre si discuteva l’ultimo disegno di legge per l’introduzione del reato di tortura. I toni sono spropositamente allarmistici nel paventare il carattere ideologico della norma, condannandone la natura di “reato manifesto”.

Il quadro appena descritto assume tonalità ancor più cupe, se si considera che le stesse argomentazioni sono accolte e fatte proprie anche da parte importante della classe politica, soprattutto di centro-destra, tra cui spicca anche una figura istituzionale cruciale come il Ministro dell’Interno.

Al di là della tradizione culturale di queste forze politiche, e di eventuali interessi ulteriori non dichiarati, viene da chiedersi se posizioni contrarie all’introduzione del reato di tortura possano ripagare anche in termini di tornaconto elettorale. Come se, per ragioni riconducibili al fenomeno del populismo penale, l’essere favorevoli alla previsione della fattispecie incriminatrice comportasse una perdita di consenso da parte degli elettori.

Andrebbero quindi in primis indagate le cause dell’impopolarità di unamisura siffatta. A ben vedere, questa sarebbe almeno in parte comprensibile alla luce di un processo di immedesimazione simbolica tra Stato e forze di polizia. “Poliziotto e Stato si sentono la stessa cosa(...). E’ un processo di immedesimazione che contagia anche mass-media, opinione pubblica, etalvolta la stessa magistratura inquirente e giudicante”, che incosciamente lo fanno proprio.

 Si spiegherebbe in parte così la generale ritrosia a mettere in discussione l’operato delle forze dell’ordine, percepite come coincidenti con la stessa struttura dello Stato, e per questo non criticabili senza criticare allo stesso tempo le fondamenta dell’intero ordinamento istituzionale.

Per quanto banale possa sembrare, va quindi ribadita la necessità di un generale cambio di paradigma culturale, che prenda atto innanzitutto della fattuale autonomia dei corpi di difesa, detentori materiali della forza militare che,come dimostra ancora una volta l’esperienza cilena, non sono esenti da rischi dipericolose derive se non adeguatamente monitorati e criticamente analizzati alla stregua di qualsiasi altro nucleo di potere.

Un appello va in questo senso rivolto anche alle università, affinchè affrontino la tematica senza timori reverenziali, ma con la passione critica, ed a volte inevitabilmente polemica, che dovrebbe caratterizzare il dialogo tra attori pubblici in una democrazia che voglia davvero definirsi tale. In questo senso, si vedano i numerosi rapporti utilizzati nella parte di questo lavoro dedicata al Cile, spesso redatti da istituti universitari con il coinvolgimento degli stessi corpi di polizia.

Infine, la questione più importante, nella domanda più inquietante: Siamo sicuri, come società civile, di aver fatto definitivamente nostra una condanna pronta ed incondizionata della tortura? O che invece, ed è questo a dire il vero il presentimento, non vi sia verso detta pratica una certa tolleranza, basata sulla convinzione, miope ed errata, che chi la subisca un po’ se la sia meritata? E non si finirebbe, in questo modo, col legittimare un abuso illegale, trasformandolo in un supplemento retributivo, in una pena ulteriore con cui punire un nemico dall’identità mutevole?

Dalla risposta a questi interrogativi dipenderà l’esito di un qualsiasi discorso sulla punibilità della tortura.