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I Paesi sicuri alla prova del diritto internazionale (QG)

1 marzo 2020, Massimo Frigo

Contributo di Massimo frigo publicato su Questione giustizia, 1/20, qui riprodotto senza note per maggiore diffusione  (vai al contributo su Questione Giustizia).

I Paesi sicuri alla prova del diritto internazionale

di Massimo Frigo - Questione giustizia, Fascicolo 1/2020, Eguaglianza e diritto civile: Le nuove frontiere dei diritti umani, al tempo dell'esternalizzazione delle frontiere italiane ed europee
Il contributo analizza gli ostacoli all’accesso al territorio o alla procedura di asilo ordinaria posti dall’istituto dei Paesi sicuri: in primo luogo, con riferimento a quando la responsabilità dello Stato per doveri di non-refoulement abbia inizio ai sensi del diritto internazionale; in secondo luogo, con riferimento agli istituti europei di esclusione della procedura ordinaria con riguardo alla clausola di “Stati terzi sicuri” e alla loro compatibilità col diritto internazionale.

1. Introduzione / 2. Il principio di non-refoulement nel diritto internazionale / 3. Giurisdizione: quando lo Stato deve garantire la tutela? / 4. Il concetto di “Paese sicuro” alla prova della Cedu / 5. Conclusione: il principio di non-refoulement non funziona col Bignami

 (vai al contributo su Questione Giustizia)

1. Introduzione

L’istituto dei Paesi terzi sicuri è una sfida impegnativa per il giurista dell’asilo e dell’immigrazione in ottemperanza al dovere di garantire gli obblighi internazionali contratti dallo Stato ai sensi del diritto internazionale sui rifugiati e sui diritti umani.

Come presentato nelle sue più recenti formulazioni in Italia e nei vari travel bans di Donald Trump negli Stati Uniti, passando per la loro inserzione nel diritto comunitario tramite il sistema comune europeo di asilo, il concetto di “Paese sicuro” pare avere l’espressa intenzione di mettere da parte il giudizio pretorio e di imporre una scelta automatica dettata dalla volontà degli organi esecutivi o legislativi dello Stato.

Questo approccio, come però vedremo, mal si adatta al sistema di obblighi internazionali in base al diritto internazionale sui diritti umani e sui rifugiati, che sono internamente vincolanti ai sensi dell’art. 117, comma 1, Costituzione. In questo contributo illustreremo il contenuto e la natura del principio di non-refoulement (parte 2), gli spazi per la sua applicazione (parte 3) e la recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani in merito (parte 4).

 

2. Il principio di non-refoulement nel diritto internazionale

Il principio di non-refoulement, ormai citato ampiamente nella giurisprudenza nazionale e internazionale, trova la sua origine nel diritto internazionale sui rifugiati (la «Convenzione relativa allo status dei rifugiati» della Società delle Nazioni del 1933[1] e la ben più conosciuta «Convenzione relativa allo status dei rifugiati» di Ginevra del 1951, al suo art. 33). Meno conosciuta è la sua origine nel diritto internazionale (bilaterale o multilaterale) di cooperazione penale. Il principio, infatti, trova espressione sovente e, in forme diverse, già prima del XX secolo, nei trattati di estradizione o “restituzione” di sospetti o condannati in contumacia[2].

Nel diritto internazionale sui rifugiati il principio è ben conosciuto. Cristallizzato nell’articolo 33, comma 1, della Convenzione di Ginevra, sancisce che:

«Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche»[3].

La particolarità del principio nel diritto sui rifugiati è quello di non essere assoluto, come si evince dal secondo comma dell’articolo 33, ma di permettere un’eccezione se il rifugiato, «per motivi seri, (…) debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del Paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto Paese»[4]. Fermo il principio, di diritto internazionale, che l’essere rifugiato non è conseguenza del riconoscimento dello status ma condizione preesistente, con la conseguenza che rifugiati potenziali (i potenziali richiedenti asilo, anche se non espressamente richiedenti) rientrano nella sfera di protezione del principio.

Di diverso respiro – la Corte europea dei diritti umani (Corte Edu) direbbe «di protezione più ampia» – è invece il principio di non-refoulement secondo il diritto internazionale sui diritti umani, che ha portata assoluta, non ammettendo eccezione alcuna.

Il principio fu enunciato in primis dalla Corte Edu nel caso Soering c. Regno Unito:

«(…) se uno Stato Parte decide di estradare un fuggitivo (…), tale decisione può dar luogo a una procedura per violazione dell’art. 3, in tal modo comportando la responsabilità di tale Stato in base alla Convenzione se sia dimostrata l’esistenza di motivi sostanziali per ritenere che la persona coinvolta, se estradata, correrebbe il rischio reale di essere sottoposta, nel Paese richiedente, a tortura o ad altro trattamento (o punizione) inumano o degradante. La determinazione di tale responsabilità comporta inevitabilmente una valutazione alla stregua degli standard previsti dall’art. 3 delle condizioni esistenti nel Paese richiedente, seppure non si tratti di sottoporre a giudizio lo Stato di destinazione, o di determinarne una responsabilità alla stregua del diritto internazionale generale, della Convenzione o sotto qualsiasi altro profilo. Nella misura in cui una responsabilità emerga o possa emergere ai sensi della Convenzione, essa grava sullo Stato parte che estrada, per la ragione che esso ha intrapreso un’azione che ha come diretta conseguenza quella di esporre un individuo al maltrattamento vietato»[5].

Il principio di non-refoulement ha, quindi, origine giurisprudenziale. Costituisce l’interpretazione dell’obbligo di ogni Stato di garantire in maniera efficace i diritti umani alle persone soggette alla propria giurisdizione[6]. Ciò si estende al dovere di prevenire prevedibili violazioni dei diritti umani verso una persona che si trasferisce al di fuori del proprio spazio giuridico[7].

Nel diritto internazionale di tutela dei diritti umani vi sono due canoni per interpretare il contenuto del principio. Il più comune e coerente è quello sviluppato dalla Corte Edu, e ripreso da altri organismi regionali come la Commissione e la Corte inter-americane dei diritti umani e la Commissione africana dei diritti umani e dei popoli. Esso impone il dovere di non trasferire una persona al di fuori della giurisdizione qualora vi siano fondati motivi per ritenere che vi sia un rischio reale di una violazione di determinati diritti. Il test è quindi sul potenziale rischio individuale. Il Comitato Onu per i diritti umani evidenzia, invece, il vulnus potenziale nel rischio reale di un «danno irreparabile» a certi diritti[8]. Questo test è meno coerente di quello della Corte Edu, perché corrisponde al requisito per l’emissione di ordinanze cautelari (interim measures) dagli organi di tutela dei diritti umani, che possono appunto essere decise per prevenire un «danno irreparabile» all’oggetto del contendere, cioè la violazione del diritto stesso. È chiaro che se il test in sede di istanza cautelare è lo stesso della sede di merito, vi è una mancanza di utilità e autonomia del giudizio di merito stesso.

Una volta stabilito il funzionamento del principio, gran parte del problema dell’esegeta è la sua identificazione. A quali diritti corrispondono obbligazioni di non-refoulement? Tradizionalmente, fin dalla decisione Soering, il principio è legato al divieto assoluto di tortura e altri trattamenti o pene crudeli, disumani o degradanti (art. 3 Cedu, art. 7 Patto internazionale sui diritti civili e politici – ICCPR). Il principio è stato anche legato al diritto alla vita, col corollario del divieto di trasferimento verso Paesi che applicano la pena di morte per Paesi abolizionisti o in moratoria (art. 6 del Patto, art. 2 Cedu e Protocolli nn. 6 e 13 Cedu)[9].

In maniera espressa, il principio è enunciato all’art. 3 della «Convenzione Onu contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti»[10], all’art. 16 della «Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata» (in cui la protezione scatta quando vi è il rischio di essere esposti a sparizioni forzate)[11], e all’articolo 19, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea[12].

Da questa base, il principio si è espanso in due direzioni ermeneutiche. In primis, tramite un’estensione del contenuto del divieto di pene o trattamenti crudeli, disumani e degradanti. Di questa corrente fa esempio la decisione della Corte Edu nel caso M.S.S. c. Belgio e Grecia, in cui si è esteso il concetto di “trattamento degradante” a situazioni in cui una persona facente parte di un gruppo in situazione di vulnerabilità – nel caso in specie un richiedente asilo – fosse lasciata in situazione d’indigenza estrema[13], o nel caso Paposhvili c. Belgio, in cui finalmente la Corte ha accettato che un trasferimento che esponga una persona all’aggravamento di una malattia potenzialmente mortale pone il soggetto in situazione di trattamento degradante. Tale forma di trattamento, per il momento, costituisce la finestra interpretativa per lo sviluppo del principio ai sensi degli artt. 3 Cedu e 7 ICCPR[14].

Una seconda corrente interpretativa, anch’essa utilizzata dalla Corte europea e dai Comitati Onu, vede un’estensione del principio di non-refoulement ad altri diritti come, per esempio, a casi di rischio di violazione flagrante del diritto al processo equo[15] o al diritto alla libertà personale[16]. Oppure anche, nella giurisprudenza del Comitato sui diritti del fanciullo, al rischio di «danno irreparabile» di ogni diritto e al rischio di violazione del principio di preminenza dell’interesse superiore del bambino ai sensi dell’art. 3 della Convenzione Onu sui diritti del fanciullo[17]. O, infine, del rischio di essere esposte a violenze basate sul genere (gender-based violence), come da giurisprudenza del Comitato Onu sull’eliminazione della discriminazione verso le donne[18].

Questo secondo approccio è più coerente, in quanto riprende quella dottrina, alla base della giurisprudenza Soering, che vede il principio di non-refoulement come un corollario dell’obbligo di garantire i diritti – e non certi diritti – alle persone soggette alla giurisdizione statuale. Ha anche il beneficio di evitare una gerarchia dei diritti, che è stata unanimemente rifiutata alla Conferenza di Vienna sui diritti umani del 1993 e costituisce canone pacifico di interpretazione dei diritti umani da quasi trent’anni[19].

Ciò non risolve, però, il problema dell’interprete di cogliere la regula iuris per poter autonomamente evincere quali diritti (e quali obblighi) attraggano il principio di non-refoulement, prima di una decisione di una corte od organo internazionale di tutela dei diritti umani. Il diritto internazionale non offre tale regola e difficilmente la offrirà, visto che il suo sistema di evoluzione giurisprudenziale del diritto – molto affine a pratiche di common law – non è adatto a esprimersi in massime di portata generale. A mio avviso, la teoria più coerente dovrebbe prendere esempio dalla teoria del Existenzminimum della Corte costituzionale tedesca[20], poi sviluppata a livello internazionale del Comitato Onu sui diritti economici, sociali e culturali nella teoria del “nucleo essenziale” (“minimum core”)[21]. Se si accetta che ogni diritto – a differenti livelli – abbia un nucleo di obbligazioni la cui violazione comporterebbe la nullificazione stessa del diritto, allora se ne potrebbe dedurre una regola interpretativa per estrapolare quali obblighi – e corrispondenti diritti – attraggano un principio così forte come quello di non-refoulement. Ma questa opzione è ancora in fieri nella dottrina giuridica internazionalista.

Per la nostra disamina, ciò che occorre sottolineare è che il principio di non-refoulement non investe solo obblighi negativi sostanziali, ma anche obblighi positivi procedurali. Sia che sia letto da solo, sia che sia interpretato in combinato disposto con l’obbligo di garantire un diritto a un ricorso efficace (art. 2, comma 3, ICCPR; art. 13 Cedu; art. 47 Carta), è giurisprudenza pacifica che ogni persona potenzialmente protetta dal principio debba avere a disposizione una procedura efficace, sospensiva automaticamente dell’espulsione o estradizione, e che permetta una valutazione della sussistenza di un divieto di refoulement[22].

 

3. Giurisdizione: quando lo Stato deve garantire la tutela?

L’elemento fondamentale per attribuire la responsabilità allo Stato nella tutela dei diritti del migrante (come di qualsiasi altra persona) riguarda la soggezione dell’immigrato alla sua giurisdizione, cioè lo spazio o le persone su cui lo Stato esercita l’autorità e per le quali è responsabile a livello internazionale. Ciò deriva dal principio fondamentale del diritto internazionale dei diritti umani secondo cui lo Stato deve garantire, assicurare e proteggere i diritti umani di ogni persona soggetta alla sua giurisdizione, prescindendo dalla nazionalità. Tale obbligo non è circoscritto al territorio di uno Stato. La prima domanda a cui rispondere quando un immigrato arriva in uno Stato estero è se ha effettivamente fatto “ingresso” nello Stato. In molti casi, questo è chiaro: la persona avrà fatto ingresso nello Stato quando entra sul territorio. È stato anche chiaramente stabilito che il migrante rientra nella giurisdizione dello Stato quando si trova nello “spazio internazionale” o “zone d’attente” di un aeroporto[23].

La “giurisdizione” dello Stato ha, quindi, un’estensione più ampia dello spazio corrispondente al territorio nazionale dello Stato. L’obbligo di protezione sorge in favore di tutte le persone sottoposte all’autorità o all’effettivo controllo delle autorità statali e di persone che agiscono in rappresentanza dello Stato; e per tutte le zone extraterritoriali, appartenenti o non appartenenti allo Stato straniero, in cui lo Stato esercita un controllo effettivo[24].

La Corte europea dei diritti umani ha stabilito che la giurisdizione ha portata extra-territoriale[25] in differenti situazioni: quando lo Stato esercita l’effettivo controllo di un territorio esterno ai propri confini (ad esempio, nel caso di occupazione militare in cui il controllo effettivo di una zona può essere dimostrato)[26]; oppure quando pubblici ufficiali agiscono, legalmente o illegalmente, al di fuori del territorio dello Stato, esercitando autorità o controllo su di una persona: per esempio, nel caso di una persona che viene trattenuta in arresto o si trova a distanza di tiro delle forze armate di uno Stato in una zona di frontiera[27]. In conseguenza di ciò, lo Stato può essere obbligato a rispettare e proteggere i diritti delle persone che non sono entrate nel territorio, ma che sono soggette alla sua autorità e controllo oppure che sono state sottoposte ad azioni extra-territoriali (come ad esempio la detenzione) da parte degli agenti dello Stato che esercitano un potere di controllo.

Di particolare rilevanza per i migranti e i richiedenti asilo è il fatto che la giurisdizione dello Stato può estendersi, in determinate situazioni, alle acque internazionali. La Commissione inter-americana dei diritti umani (IACHR) ha rilevato che il rientro nel Paese di origine di richiedenti asilo intercettati in alto mare costituisce una violazione del loro diritto di chiedere asilo in un Paese straniero, come previsto dalla «Dichiarazione americana dei diritti e dei doveri dell’uomo» e dalla «Convenzione americana sui diritti umani»[28].

La Corte Edu ha chiaramente affermato che le attività d’intercettazione di imbarcazioni, anche in alto mare, attirano la giurisdizione dello Stato che esegue l’intercettazione. Dal momento dell’effettivo controllo dell’imbarcazione, tutte le persone a bordo ricadono sotto la giurisdizione dello Stato di intercettazione, che deve salvaguardare e proteggere i loro diritti umani[29].

Il caso Hirsi Jamaa c. Italia è di scuola. In esso, la Corte ha chiarito che vi è giurisdizione qualora via sia il controllo effettivo sulla persona da parte di personale italiano su vettore marittimo battente bandiera italiana, secondo il principio di diritto marittimo internazionale della giurisdizione dello Stato di bandiera[30]. Il precedente caso Medvedyev c. Francia chiarisce maggiormente lo scopo della giurisdizione sulle persone sottoposte alla sfera di controllo effettivo o autorità, in questo caso del vettore francese, anche senza la necessità di essere presenti sul vettore stesso, ma in quanto sottoposti al controllo della forza pubblica[31]. Il più recente – e controverso – caso N.D. e N.T. c. Spagna non ha invece fornito maggiori delucidazioni. Il caso proponeva la questione dell’attribuzione alla giurisdizione spagnola, ai sensi Cedu, di violazioni di diritti umani avvenute sulla recinzione alla frontiera dell’enclave di Melilla, in terra africana. La Corte ha risolto il problema, nella maniera più logica, constatando che, essendo la recinzione all’interno del territorio spagnolo, essa rientrasse nelle giurisdizione territoriale, e non extra-territoriale, dello Stato[32]. Maggiori chiarimenti si aspettano dal caso S.S. e altri c. Italia, in merito al salvataggio che nel novembre 2017 aveva coinvolto anche la nave “Sea Watch”, ma ci vorrà presumibilmente ancora qualche mese prima della decisione.

La decisione in N.D. e N.T. contro Spagna, seppur in parte aliena al problema dei Paesi terzi sicuri, merita una breve disamina per la sua novità. In essa, la Corte europea ha riscontrato che non vi fosse violazione del divieto di espulsione collettiva ai sensi dell’art. 4 del Protocollo 4 alla Cedu. La decisione ha destato comprensibilmente critica e scalpore per aver inserito, per la prima volta, il comportamento del migrante o richiedente asilo fra i criteri di valutazione della sussistenza della violazione del divieto[33]. In realtà questo criterio non è decisivo diversamente dalle altre chiare indicazioni della Corte, la quale ha altresì definito, una volta e per tutte, che il divieto di espulsione collettiva si applica anche ai respingimenti alla frontiera[34].

Inoltre per definire se via sia o meno violazione del divieto alla frontiera, «la Corte [ha sottolineato che] valuterà in maniera importante se, nelle circostanze del caso individuale, lo Stato interessato abbia garantito un accesso genuino ed efficace a sistemi di ingresso legale, in particolare a procedure di frontiera. Se lo Stato ha garantito tale accesso, ma il richiedente non ne ha fatto uso, la Corte prenderà in considerazione, nel contesto attuale e senza pregiudizio per gli articoli 2 e 3 [cioè in principio di non-refoulement, ndA], dell’esistenza di motivi cogenti per non ricorrervi, sulla base di fatti oggettivi per i quali sia responsabile lo Stato interessato»[35].

Due aspetti sono da sottolineare. Innanzitutto che la decisione non si applica a casi nei quali vi sia un rischio potenziale di coinvolgimento del principio di non-refoulement, per i quali gli obblighi procedurali di sospensione automatica dell’espulsione rimangono intatti. Infine, che il primo esame in tema di espulsioni collettive va diretto verso l’esistenza di sistemi efficaci e genuini di accesso al territorio, cioè che possano concretamente portare ad esso e non rappresentino un escamotage giuridico per mascherare una chiusura delle frontiere.

 

4. Il concetto di “Paese sicuro” alla prova della Cedu

Come ben conosciuto, la direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (la cosiddetta “direttiva procedure”), prevede all’articolo 38 la figura del «Paese terzo sicuro», grazie al quale uno Stato Ue può considerare una domanda di protezione internazionale inammissibile[36].

Secondo tale articolo, «[g]li Stati membri possono applicare il concetto di Paese terzo sicuro solo se le autorità competenti hanno accertato che nel Paese terzo in questione una persona richiedente protezione internazionale riceverà un trattamento conforme ai seguenti criteri:

a) non sussistono minacce alla sua vita e alla sua libertà per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale;

b) non sussiste il rischio di danno grave definito nella direttiva 2011/95/UE;

c) è rispettato il principio di “non-refoulement” conformemente alla convenzione di Ginevra;

d) è osservato il divieto di allontanamento in violazione del diritto a non subire torture né trattamenti crudeli, disumani o degradanti, sancito dal diritto internazionale;

e) esiste la possibilità di chiedere lo status di rifugiato e, per chi è riconosciuto come rifugiato, ottenere protezione in conformità della convenzione di Ginevra».

Naturalmente l’applicazione del concetto è contestabile con un ricorso che garantisca un rimedio efficace, che secondo il diritto internazionale, nei casi in cui viene in gioco il principio di non-refoulement, deve essere di natura giurisdizionale[37]. In secondo luogo, si deve sottolineare che la direttiva non obbliga gli Stati membri all’utilizzo di questi concetti, ma ne permette l’introduzione nel diritto nazionale, previa notifica alla Commissione europea. Ciononostante, attraverso di essi si opera un aggravamento dell’onere della prova in capo al richiedente asilo e si instaurano procedure accelerate e di frontiera che rendono estremamente arduo l’accesso a una procedura di asilo efficace.

Questi nodi sono stati affrontati in un recente caso deciso dalla Grande Camera della Corte Edu, Ilias e Ahmed c. Ungheria. I richiedenti contestavano la pratica ungherese di considerare la Serbia – Paese confinante – come Paese sicuro e, di conseguenza, di rigettare come inammissibili richieste d’asilo di chiunque avesse attraversato il Paese, tramite sommarie procedure di frontiera. In questo caso, la Corte ha riscontrato una violazione dell’art. 3 Cedu[38].

La Corte ha ritenuto che «qualora le autorità decidano di rimuovere dei richiedenti asilo verso un Paese terzo, (…) ciò lascia intatta la responsabilità dello Stato contraente in merito al suo dovere di non deportarli se siano stati presentati motivi sostanziali per credere che una tale azione possa esporli direttamente (cioè in quel Paese terzo) o indirettamente (per esempio, nel Paese di origine o in altro Paese) a un trattamento contrario, in particolare, all’articolo 3»[39].

Ciononostante, il modo di espletare tale obbligo di diritto internazionale differisce nel caso dei Paesi terzi rispetto a quanto accade quando la deportazione avvenga verso il Paese di origine.

Nel caso in specie, la questione dirimente è «se la persona abbia accesso o meno a una procedura di asilo adeguata nel Paese terzo che lo riceverà»[40]. Inoltre, «quando il presunto rischio di essere soggetto a un trattamento contrario all’articolo 3 riguarda, per esempio, le condizioni di detenzione o le condizioni di vita dei richiedenti asilo in un Paese terzo, quel rischio va anch’esso valutato dallo Stato espellente»[41].

La regola già stabilita dalla Corte era che, in genere, il Paese espellente «deve assicurarsi che la procedura di asilo del Paese intermedio dia garanzie sufficienti per evitare che un richiedente asilo sia respinto, direttamente o indirettamente, verso il proprio Paese di origine senza una valutazione consona del rischio che possa affrontare nei termini dell’articolo 3 della Convenzione»[42].

In Ilias e Ahmed, la Corte ha definito la massima che «in tutti i casi di spostamento di un richiedente asilo da uno Stato contraente a un Paese terzo intermedio senza esame della domanda d’asilo nel merito, e indipendentemente dall’appartenenza dello Stato terzo all’Ue o alla Cedu, resta il dovere dello Stato espellente di valutare in dettaglio se vi sia o meno il rischio reale che il richiedente asilo si veda negare, nel Paese terzo, l’accesso a una procedura d’asilo adeguata e che possa proteggerlo/la dal refoulement. Se viene stabilito che le garanzie esistenti in merito sono insufficienti, l’articolo 3 implica un obbligo di non ricollocamento dei richiedenti asilo verso tale Paese terzo»[43].

In risposta all’obiezione di alcuni Stati per cui la disciplina dovrebbe proteggere solo i richiedenti asilo e non i migranti economici, la Corte ha chiarito che, quando si utilizza una procedura di rimozione verso un Paese terzo senza esaminare la richiesta d’asilo nel merito, «non è possibile sapere se la persona da espellere rischi un trattamento contrario all’articolo 3 nel suo Paese di origine o sia un mero migrante economico. È solo attraverso una procedura giuridica risultante in una decisione di valore giuridico che una valutazione su questo punto può essere eseguita e può far fede»[44]. In dettaglio, «una valutazione post-factum che il richiedente asilo non correva nessun rischio nel suo Paese di origine non può assolvere lo Stato retrospettivamente da tale obbligo procedurale»[45].

In merito alla valutazione, «mentre è onere del richiedente asilo di allegare le proprie circostanze individuali che non possono essere a conoscenza delle autorità nazionali, queste stesse autorità devono procedere di propria iniziativa a una valutazione aggiornata, in particolare, dell’accessibilità e del funzionamento del sistema d’asilo del Paese ricevente e delle garanzie che dia in pratica. La valutazione va condotta principalmente con riferimento ai fatti che fossero conosciuti dalle autorità nazionali al momento dell’espulsione, ma è obbligo di quelle autorità ricercare a tal fine ogni informazione rilevante che sia generalmente accessibile (…). Vi è una presunzione di conoscenza per quanto concerne carenze generali che siano ben documentate in rapporti autorevoli, in particolare quelli dell’Unhcr, del Consiglio d’Europa e dell’Ue. (…) [Lo Stato espellente] deve, come prima cosa, verificare come le autorità di quel Paese applichino in concreto la loro legislazione sull’asilo»[46].

 

5. Conclusione: il principio di non-refoulement non funziona col Bignami

In definitiva, questa rassegna giurisprudenziale internazionale conferma una volta di più l’intangibilità del principio di non-refoulement nel diritto internazionale.

Gli Stati, anche attraverso la legislazione dell’Ue che è di applicazione obbligatoria e diretta, hanno concepito da anni strumenti giuridici sempre nuovi per cercare di ridurre lo scopo dei propri obblighi derivanti dal principio di non-refoulement.

Come abbiamo visto nell’introduzione, l’ultimo istituto concepito è quello del Paese terzo sicuro in grado di aggravare l’onere della prova nel procedimento di asilo e permettere allo Stato e alle proprie autorità di non dovere entrare nel merito delle decisioni, ma di rimpallare la responsabilità verso altri Paesi.

Tale idea, però, si è nuovamente scontrata con il principio di efficacia del diritto internazionale, che mal tollera certiescamotage. Per questa ragione, la sentenza della Corte Edu in Ilias e Ahmed opera un certo svuotamento, in pratica, di tale istituto. Si è visto come le autorità statali dovranno comunque valutare, sia in generale che nel caso specifico, l’adeguatezza e l’efficacia del sistema di asilo del Paese terzo in termini di non-refoulement. Considerando il grado di dettaglio richiesto dai giudici di Strasburgo, rimane la questione se tale esame non sia altrettanto se non più oneroso dell’esame nel merito della richiesta individuale.

In ogni caso, ciò che rimane chiaro è che le corti nazionali non potranno appoggiarsi ciecamente alla classificazione delle autorità governative (o legislative) di un Paese come sicuro, ma dovranno operare una valutazione dettagliata di propria iniziativa.

Non vi sono scappatoie semplificate all’applicazione del principio di non-refoulement e i governi di turno non possono risolvere la questione dell’espulsione e dell’asilo ricorrendo a una manualistica semplificatrice in stile “Bignami”.

* Le opinioni espresse in questo articolo sono a titolo strettamente personale e non riflettono necessariamente le opinioni e le politiche dell’ICJ (www.icj.org/about/).

Note omesse