Home
Lo studio
Risorse
Contatti
Lo studio

Decisioni

Giustizia amministrata in nome del popolo: oscuramento dati è eccezione (Cass. 4145/20)

31 gennaio 2020, Cassazione penale

Il principio costituzionale dell’amministrazione della giustizia in nome del popolo richiede che  l’intera celebrazione del processo - ivi compresa, dunque, la fase dell’istruttoria dibattimentale - si svolge in forma pubblica, salvo motivato provvedimento in deroga da parte del giudice procedente che dovrà effettuare un equilibrato bilanciamento tra esigenze di riservatezza del singolo e pubblicità della sentenza.

In tema di trattamento dei dati personali da parte dell'autorità giudiziaria, la richiesta di oscuramento delle generalità e degli altri dati identificativi dell’interessato riportati sulla sentenza o altro provvedimento deve essere fondata su "motivi legittimi", da intendersi quali "motivi opportuni".

Per poter accogliere la richiesta di oscuramento dei dati identificativi in una sentenza, costituiscono possibili “motivi legittimi", in grado di fondare la relativa richiesta (ovvero di indurre l’A.G. a provvedere d’ufficio), nella "particolare natura dei dati contenuti nel provvedimento (ad esempio, dati sensibili)", ovvero nella "delicatezza della vicenda oggetto del giudizio".

In tema di trattamento di dati personali, l’istanza volta all’oscuramento delle generalità e degli altri dati identificativi dell’interessato riportati sulla sentenza o altro provvedimento, si riferisce unicamente all’atto deliberativo del "relativo grado di giudizio" e va quindi formulata avanti il giudice competente per grado.

In tema di falsità in atti, il falso innocuo si configura solo in caso di inesistenza dell’oggetto tipico della falsità, di modo che questa riguardi un atto assolutamente privo di valenza probatoria, quale un documento inesistente o assolutamente nullo. Per la valutazione sulla presenza di un  falso c d. innocuo, il riferimento all’efficacia probatoria del documento, per cui, se il falso lede l’aspettativa sociale di corrispondenza ai fatti di alcuni tipi di rappresentazione, l’innocuità della contraffazione o dell’alterazione di un documento può essere dovuta esclusivamente all’inesistenza dell’oggetto materiale tipico delle falsità in atti, il quale deve essere rappresentato da un documento dotato di efficacia probatoria legale.

Non c'è contraddizione tra la mancata attestazione della recidiva e il diniego delle cd. circostanze generiche, poiché si tratta di apprezzamenti fondati su presupposti distinti: mentre per la recidiva si avrà riguardo alle condanne definitive intervenute prima della commissione del nuovo reato, per comprendere se denotino una maggiore capacità a delinquere del reo, per la concessione delle generiche potranno considerarsi (anche) tutti i carichi, nell’ambito di un più ampio panorama di elementi, dai quali desumere la necessità di render più ragionevole, e mite, la sanzione finale. Aspetto, quest’ultimo, che deve essere giustificato solo quando se ne ravvisi la presenza, che non è mai scontata.

Al fine dell’emissione del decreto di irreperibilità le ricerche vanno eseguite cumulativamente, e non alternativamente, in tutti i luoghi indicati dall’art. 159 c.p.p., diversamente derivandone la nullità assoluta del decreto di irreperibilità medesimo e delle conseguenti notificazioni, ove attinenti alla citazione dell’imputato: peraltro, dette ricerche presuppongono, evidentemente, la possibilità di individuare i luoghi indicati dallo stesso art. 159 c.p.p., posto che, diversamente opinando, diverrebbe, in tali casi, praticamente impossibile emettere il decreto di irreperibilità, con conseguente impossibilità di procedere alla notificazione degli atti:  l’obbligo di effettuare ricerche nei luoghi indicati dall’art. 159 c.p.p., comma 1, è condizionato alla sua oggettiva praticabilità, che rappresenta il limite logico di ogni garanzia processuale.

L’omesso avviso del rinvio dell’udienza all’imputato non comparso, che non abbia allegato alcun legittimo impedimento e che non sia stato dichiarato contumace, comporta una nullità di ordine generale a regime intermedio, che deve essere eccepita dal difensore nella prima occasione utile ai sensi dell’art. 182 c.p.p., comma 2, e non, invece, una nullità assoluta, non essendo configurabile, in tale ipotesi, un’omessa citazione dell’imputato.

 

Corte di Cassazione

sez. II Penale, sentenza 18 ottobre 2019 – 31 gennaio 2020, n. 4145
Presidente Cervadoro – Relatore Pacilli

Ritenuto in fatto

Con sentenza del 31 ottobre 2017 la Corte d’appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza emessa il 26 marzo 2016 dal Tribunale di Verona, ha assolto FRT  dai reati di cui ai capi B) e C) dell’imputazione e ha rideterminato la pena per i delitti di cui al capo A) (truffa aggravata e falsità materiale in certificazioni); ha escluso la recidiva e confermato nel resto la sentenza impugnata.

Secondo il Collegio d’appello erano risultati accertati la truffa ai danni dello Stato e la falsità materiale, commessa dal privato in certificati, poiché l’imputato, essendosi avvalso di un certificato medico, che aveva falsificato, aveva tratto in inganno il medico del Servizio Sanitario Nazionale, che di volta in volta gli aveva prescritto i giorni di malattia, esentandolo dal lavoro e giustificando le assenze, riuscendo così a lucrare il trattamento economico connesso all’assenza, giustificata per malattia.

Avverso la sentenza d’appello l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, deducendo i seguenti motivi:

1) inosservanza o erronea applicazione del combinato disposto di cui agli artt. 159 e 157 c.p.p., per avere la Corte territoriale disatteso l’eccezione di nullità del decreto di irreperibilità (emesso l’8 maggio 2014 in occasione della notifica all’imputato dell’avviso di conclusione delle indagini) e, quindi, di nullità della notificazione dell’avviso anzidetto e del decreto che ha disposto il giudizio. Prima dell’emissione del decreto di irreperibilità, si sarebbe dovuto tentare la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini presso la residenza anagrafica dell’imputato (ossia in (OMISSIS) ); inoltre, sarebbe stato necessario effettuare le ricerche anche nel luogo di abituale svolgimento dell’attività lavorativa (ossia presso l’Università di (omissis) );
2) inosservanza o erronea applicazione dell’art. 11 c.p.p. nonché vizi della motivazione in ordine alla ritenuta competenza territoriale del Tribunale di Verona; in via subordinata, rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 11 c.p.p. per violazione dell’art. 3 Cost., comma 1 e art. 111 Cost., comma 2, nella parte in cui non prevedono lo spostamento della competenza anche per i procedimenti nei quali un magistrato militare assume la qualità di persona danneggiata dal reato o di denunciante. Secondo il ricorrente, il dato letterale "magistrati", contenuto nell’art. 11 c.p.p., e la ratio, sottesa allo spostamento della competenza, previsto da tale norma, ossia evitare la potenziale compromissione dell’imparzialità dei rappresentanti della magistratura, assegnatari di un determinato procedimento penale, dovrebbero condurre all’applicabilità dell’art. 11 c.p.p. anche nel caso in cui vengano in rilievo magistrati che, applicati ad organi sedenti nella medesima sede territoriale, assumano nello stesso procedimento penale la qualità, tra le altre, di persona danneggiata o di denunciante;
3) inosservanza o erronea applicazione del combinato disposto di cui all’art. 180 c.p.p. e art. 182 c.p.p., comma 2, per avere la Corte territoriale disatteso l’eccezione di nullità della notifica all’imputato dell’ordinanza di rinvio, pronunciata fuori udienza l’11 novembre 2015 e notificata in via (omissis) anziché nel luogo di residenza in (omissis) . La Corte distrettuale avrebbe errato nel ritenere l’eccezione proposta tardivamente, atteso che la nullità de qua si sarebbe potuta far valere sino alla deliberazione della sentenza del grado successivo, non avendo la parte assistito al compimento dell’atto;
4) inosservanza o erronea applicazione dell’art. 50 c.p.p., comma 3, per avere il Pubblico ministero rinunciato alla notifica della nuova imputazione (concernente una nuova condotta di falso), così violando il principio dell’irretrattabilità dell’azione penale;
5) mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per il delitto di truffa di cui al capo A) dell’imputazione. La Corte territoriale sarebbe incorsa in un travisamento della prova con riguardo alla deposizione del Dott. Ra. , che non avrebbe affermato di essere stato condizionato dal certificato del prof. O. nel rilasciare i certificati di malattia ma avrebbe detto, al contrario, di non avere concesso un periodo di malattia sulla base di quel certificato. Si sarebbe quindi potuto parlare di efficacia causale del certificato del prof. O. solo se il medico di base si fosse pedissequamente adeguato alla prescrizione sanitaria, contenuta nel certificato apparentemente proveniente dallo specialista. Inoltre, in nessuna parte della deposizione testimoniale, resa dal Dott. Ra. , vi sarebbe traccia del fatto che egli avrebbe preso in considerazione i certificati del Dott. S. , attestanti patologia di tipo psichiatrico solo a partire da ottobre 2012. La Corte sarebbe incorsa in ulteriori travisamenti, avendo ritenuto che:
a) l’imputato operò come relatore al Seminario Italospagnolo presso l’Università di (…) il (omissis) mentre dalla documentazione risulterebbe l’impegno solo nella giornata del 3 maggio 2012;
b) l’imputato sarebbe stato in malattia dal 23 aprile al 19 maggio 2012 mentre il certificato del 23 aprile 2012 assegnava un periodo di malattia sino al 5 maggio e, di seguito, era stato rilasciato certificato nel pomeriggio del 7 maggio, così che il 6 e il 7 maggio 2012, allorquando svolse le funzioni di rappresentante di lista presso la Sezione elettorale n. (omissis) , l’imputato non era in malattia;
c) l’imputato si trovava in Egitto il (omissis) mentre dai tabulati telefonici emergerebbe che egli avrebbe ricevuto due messaggi da un’utenza che si trovava in Egitto;
d) l’imputato avrebbe svolto lezioni all’Università di (…) nel primo semestre dell’anno accademico 2012-2013 mentre dal mandato di pagamento e da qualsivoglia altro elemento non si desumerebbe il periodo di svolgimento delle lezioni.
Per di più, sarebbe illogico desumere l’inesistenza delle malattie, attestate dai certificati medici, dallo svolgimento di attività diverse da quella lavorativa;
6) inosservanza ed erronea applicazione del combinato disposto di cui agli artt. 477 e 482 c.p. e vizi della motivazione in relazione al delitto di falsità materiale. La Corte d’appello, stante l’utilizzo da parte dell’imputato del certificato medico, apparentemente proveniente dal prof. O. , avrebbe erroneamente ritenuto superflua la prova sull’autore della contraffazione dell’anzidetto certificato, pur avendo la difesa contestato l’attribuibilità della condotta de qua all’imputato. La medesima Corte avrebbe errato, inoltre, nel non avere ritenuto configurata un’ipotesi di falso innocuo, atteso che il Dott. Ra. aveva dichiarato di non avere utilizzato il certificato del prof. O. per rilasciare i propri certificati medici di malattia;
7) inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 62 bis c.p., per avere la Corte di merito, al fine di escludere le attenuanti generiche, contraddittoriamente enfatizzato i precedenti penali dell’imputato, che invece avrebbe valorizzato al fine di escludere la recidiva, sicché il medesimo elemento, che per un verso avrebbe indotto a ritenere insussistente la contestata recidiva reiterata, non si sarebbe potuto porre a base del giudizio di non concedibilità delle attenuanti generiche. La Corte territoriale avrebbe poi ritenuto rilevanti le pendenze giudiziarie dell’imputato, pur trattandosi di procedimenti sospesi per irreperibilità di quest’ultimo sulla base della L. n. 67 del 2014, sicché la loro rilevanza sarebbe dovuta essere puntualmente motivata dalla Corte, che, invece, non avrebbe offerto in parte qua alcuno spunto argomentativo;
8) mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine all’aumento a titolo di continuazione tra i delitti di cui al capo A) dell’imputazione e alla dosimetria sanzionatoria. Il Collegio di seconde cure sarebbe caduto in contraddizione laddove, da un lato, avrebbe aderito alla valutazione compiuta dal giudice di primo grado nella determinazione del quantum di pena base da infliggere e, dall’altro, avrebbe ritenuto che il dolo fosse particolarmente intenso, a differenza di quanto aveva considerato il primo giudice, secondo cui l’imputato aveva solo simulato la gravità della malattia ma non l’esistenza della malattia. Del tutto apparente sarebbe poi la motivazione in merito all’aumento a titolo di continuazione tra i delitti di cui al capo A).
In data 2 ottobre 2019 sono pervenuti motivi nuovi nell’interesse del ricorrente.
All’odierna udienza pubblica è stata verificata la regolarità degli avvisi di rito; all’esito, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe e questa Corte, riunita in camera di consiglio, ha deciso come da dispositivo in atti, pubblicato mediante lettura in pubblica udienza.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è inammissibile.

1.1 Il primo motivo è manifestamente infondato.

La Corte territoriale ha disatteso l’eccezione dell’imputato, avendo osservato che, per la validità del decreto di irreperibilità, non era necessario effettuare la notifica ex art. 157 c.p.p. presso la sua residenza, atteso che le indagini di polizia giudiziaria, le ricerche anagrafiche e le informazioni dell’amministrazione penitenziaria avevano palesato fin dall’inizio l’assoluta impraticabilità della notifica nei luoghi indicati nella disposizione predetta. Del resto, per la legittimità della dichiarazione di irreperibilità rileva solo lo svolgimento delle ricerche imposte dall’art. 159 c.p.p., da eseguire con completezza, cumulativamente e non alternativamente.

La medesima Corte ha sottolineato, inoltre, quanto alle ricerche presso il luogo di lavoro, che non era dato sapere quale attività svolgesse l’imputato nei primi mesi del 2014 (essendosi dimesso da assistente amministrativo il 3 febbraio 2013).

Siffatti rilievi sono corretti.

Questa Corte ha avuto modo di affermare (Sez. 2, n. 39329 del 31/5/2016, Rv. 268304; Sez. 3, n. 17458 del 19/4/2012, Rv. 252626) che, se è vero che le ricerche, al fine dell’emissione del decreto di irreperibilità, vanno eseguite cumulativamente, e non alternativamente, in tutti i luoghi indicati dall’art. 159 c.p.p., diversamente derivandone la nullità assoluta del decreto di irreperibilità medesimo e delle conseguenti notificazioni, ove attinenti alla citazione dell’imputato, è altresì vero che dette ricerche presuppongono, evidentemente, la possibilità di individuare i luoghi indicati dallo stesso art. 159 c.p.p., posto che, diversamente opinando, diverrebbe, in tali casi, praticamente impossibile emettere il decreto di irreperibilità, con conseguente impossibilità di procedere alla notificazione degli atti.
Si è affermato, altresì, che nessuna omissione può addebitarsi all’autorità giudiziaria e agli organi di polizia, dei quali la prima si serva, nel caso in cui svolte regolari ricerche nei luoghi di nascita, di ultima residenza e di abituale attività lavorativa - non venga rinvenuta traccia di diversa residenza o dimora (Sez. 5, n. 5127 del 31/03/2000, Rv. 216060).
Può dunque ribadirsi che l’obbligo di effettuare ricerche nei luoghi indicati dall’art. 159 c.p.p., comma 1, è condizionato alla sua oggettiva praticabilità, che rappresenta il limite logico di ogni garanzia processuale (Sez. 2, n. 39329 cit.).
Dal che, nel caso in esame, discende che legittimamente il giudice ha emesso il decreto di irreperibilità sulla base delle ricerche suindicate, attestanti l’assenza di notizie sui possibili luoghi di recapito dell’interessato.
Peraltro, il ricorrente non ha indicato da cosa si dovesse evincere che fosse noto all’autorità, che ha emesso il decreto di irreperibilità, il luogo di abituale svolgimento dell’attività lavorativa, dovendo, di contro, le ricerche imposte dall’art. 159 c.p.p., eseguirsi con completezza, cumulativamente e non alternativamente, "con riferimento agli elementi risultanti dagli atti al momento in cui le stesse vengono svolte" (Sez. 2, n. 10803 del 5/2/1999, Rv. 214357; Sez. 1, n. 20634 del 21/2/2008, Rv. 239988).

1.2 Anche il secondo motivo è manifestamente infondato.

Secondo il ricorrente, si sarebbe dovuta radicare la competenza territoriale del Tribunale di Trento e non di Verona, in quanto l’art. 11 c.p.p. non farebbe discendere lo spostamento di competenza dalla sola qualità di persona offesa, assunta dal magistrato, ma anche della sua distinta qualità di persona danneggiata dal reato, che, nel caso in esame, dovrebbe individuarsi nel Tribunale militare di Verona, in considerazione del trattamento economico, erogato all’imputato per effetto della sua condotta asseritamente delittuosa.

L’eccezione di incompetenza territoriale, sollevata dal ricorrente, poggia su un rilievo errato, come già rimarcato dalla Corte d’appello, che ha puntualizzato che la persona offesa dal reato e anche il soggetto danneggiato non possono identificarsi con un magistrato, inteso come persona fisica (pur se denunciante, come nel caso in esame), oppure con un organo giudiziario quale un Tribunale militare, essendo di tutta evidenza che tali qualifiche spettano solo allo Stato nella sua concreta articolazione rappresentata dal Ministro.

Devono altresì condividersi le corrette argomentazioni con cui il Collegio di merito ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, "non potendosi, a proposito della ratio dell’art. 11 c.p.p., imperniata sul principio di imparzialità, equiparare il rapporto tra il magistrato giudicante e il suo collega, che sia persona offesa o danneggiato dal reato, con il rapporto tra il medesimo magistrato nel rapporto con il Ministro (soggetto offeso o danneggiato), che non muta sostanzialmente solo perché tale rapporto ha avuto origine a causa della denuncia presentata da un magistrato del medesimo ufficio".

1.3 Del pari manifestamente infondato è il terzo motivo, relativo all’asserita nullità della notifica all’imputato dell’ordinanza di rinvio dell’udienza, pronunciata dal Tribunale, fuori udienza, l’11 novembre 2015.

Come già osservato dalla Corte d’appello, l’eccezione è stata sollevata tardivamente, atteso che l’omesso avviso de quc comporta una nullità di ordine generale a regime intermedio, che deve essere eccepita dal difensore nella prima occasione utile, ai sensi dell’art. 182 c.p.p., comma 2. Circostanza, questa, non avvenuta, non avendo il difensore nulla eccepito all’udienza di rinvio dell’11 gennaio 2016.

Al riguardo deve ribadirsi, come già enunciato da questa Corte (Sez. 5, n. 26585 del 19/4/2017, Rv. 270873; Sez. 6, n. 28299 del 10/11/2015, Rv. 267046) che l’omesso avviso del rinvio dell’udienza all’imputato non comparso, che non abbia allegato alcun legittimo impedimento e che non sia stato dichiarato contumace, comporta una nullità di ordine generale a regime intermedio, che deve essere eccepita dal difensore nella prima occasione utile ai sensi dell’art. 182 c.p.p., comma 2, e non, invece, una nullità assoluta, non essendo configurabile, in tale ipotesi, un’omessa citazione dell’imputato.

1.4 Il quarto motivo non è consentito, non ravvisandosi l’interesse del ricorrente a sollevare doglianze in ordine alla mancata notifica di una nuova imputazione e all’asserita violazione del principio dell’irretrattabilità dell’azione penale.

1.5 Anche il quinto motivo non è consentito.
1.5.1 Il ricorrente ha dedotto che, nell’affermazione della responsabilità per il delitto di truffa, la Corte d’appello sarebbe incorsa in travisamenti delle prove ed avrebbe adottato una motivazione illogica.
A tal riguardo, deve ricordarsi, innanzitutto, che, pur a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 46 del 2006, l’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non prevede la possibilità, per la Corte di cassazione, di effettuare un’indagine sul discorso giustificativo della decisione, finalizzata a sovrapporre la propria valutazione a quella già effettuata dai giudici di merito.
Il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione, infatti, attiene all’oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando precluse la rilettura degli elementi di fatto, posti a fondamento della decisione, e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, cfr. Sez. 6, n. 47204 del 7.10.2015, Rv 265482; Sez. 3, n. 12110 del 19.3.2009, Rv 243247).
Peraltro, la giurisprudenza ha affermato che l’illogicità della motivazione, per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (cfr., ex multis, Sez. Unite n. 24 del 24.11.1999, Rv. 214794; Sez. Unite n. 47289 del 24.9.2003, Rv 226074).
Quanto al travisamento della prova, questa Corte, con orientamento (Sez. IV, n. 19710 del 3.2.2009, Rv 243636; Sez. 2, n. 7986 del 18.11.2016, Rv. 269217; Sez. 5, n. 18975 del 13.2.2017, Rv. 269906) che, ancora una volta, il Collegio condivide e ribadisce, ha anche osservato che, in presenza di una c.d. "doppia conforme", ovvero di una doppia pronuncia di eguale segno (nel caso di specie, riguardante l’affermazione di responsabilità), il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado: "Invero, sebbene in tema di giudizio di Cassazione, in forza della novella dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. n. 46 del 2006, è ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un’informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può essere fatto valere nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c.d. doppia conforme, superarsi il limite del "devolutum" con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d’appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice”.

1.5.2 Alla luce di tale prospettiva ermeneutica va osservato che è del tutto congruo e non inficiato da errori di diritto il ragionamento logico giuridico, posto a fondamento della sentenza impugnata.
La Corte territoriale ha valorizzato lo stesso compendio probatorio, esaminato dal giudice di primo grado, e ha confermato la penale responsabilità dell’imputato, avendo ritenuto accertato che quest’ultimo aveva utilizzato il falso certificato di malattia a firma del prof. O. (la cui falsità materiale e ideologica, oltre che provata dalla testimonianza del predetto professionista, non era stata nemmeno contestata dalla difesa), così avendo tratto in inganno il medico del Servizio Sanitario Nazionale, che di volta in volta gli aveva prescritto i giorni di malattia, e avendo conseguito un ingiusto profitto con danno della controparte in ragione del lucrato trattamento economico, connesso all’assenza giustificata per malattia. La Corte territoriale ha precisato che la condotta criminosa era stata posta in essere anche nel periodo antecedente alla data del certificato del prof. O. e che l’imputato, pur essendo stato assente dal lavoro per malattia, aveva svolto altre attività di carattere intellettuale, compatibili con le sue funzioni di cancelliere, anch’esse di carattere intellettuale.

Ciò significava che, se la sua malattia gli avesse impedito lo svolgimento del lavoro per il quale era retribuito, egli non avrebbe potuto neppure partecipare alle altre anzidette attività.

A fronte di siffatte argomentazioni il ricorrente ha dedotto che la Corte territoriale sarebbe incorsa in travisamenti delle prove ma, a tal riguardo, va ricordato che la Corte territoriale ha posto a fondamento della sua decisione lo stesso compendio probatorio già vagliato dal primo decidente, così che non vi è spazio per censurare con il presente ricorso il travisamento della prova.

Anche le residue censure non sono consentite, essendo volte a sollecitare una rilettura delle emergenze processuali, non ammissibile in questa sede (ex plurimis Sez. U, n. 47289 del 24/9/2003, Rv. 226074), vieppiù al cospetto delle argomentazioni della Corte distrettuale, corrette, logiche, non contraddittorie e avallate da un’attenta disamina del materiale probatorio e delle deduzioni difensive.

1.6 Il sesto motivo è privo di specificità, oltre che manifestamente infondato.

La Corte d’appello, nel rimarcare che "era quantomeno superfluo chiedersi chi fosse l’autore della contraffazione", una volta certa la falsità del certificato, in apparenza proveniente dal prof. O. ed utilizzato dall’imputato per indurre il Dott. Ra. ad emettere attestati di malattia, ha - con rilievo logico e, quindi, insindacabile - fondato l’attribuibilità del fatto sul diretto e concreto interesse dell’imputato a porre in essere la condotta de qua.

Correttamente la Corte territoriale ha escluso, poi, la ricorrenza del falso innocuo, avendo evidenziato che "l’innocuità del falso può derivare solo da un’intrinseca caratteristica del documento o dell’oggetto alterato o contraffatto" ma non dalla circostanza che "in un determinato caso esso non abbia consentito di soddisfare una specifica finalità criminosa"; circostanza su cui, invece, aveva fatto leva l’imputato, avendo affermato che il Dott. Ra. aveva dichiarato di non avere utilizzato il certificato del prof. O. per rilasciare i propri certificati medici di malattia.
Al riguardo giova ricordare che questa Corte (Sez. 5, n. 28599 del 7/4/2017, Rv. 270245; Sez. 5, n. 11498 del 5/7/1990, Rv. 18513201) ha avuto modo di affermare che, in tema di falsità in atti, il falso innocuo si configura solo in caso di inesistenza dell’oggetto tipico della falsità, di modo che questa riguardi un atto assolutamente privo di valenza probatoria, quale un documento inesistente o assolutamente nullo.
Si è in particolare osservato che, nell’elaborazione della più recente dottrina sul tema del bene giuridico tutelato dalle norme sul falso, è divenuto prevalente il riferimento all’efficacia probatoria del documento, per cui, se il falso lede l’aspettativa sociale di corrispondenza ai fatti di alcuni tipi di rappresentazione, l’innocuità della contraffazione o dell’alterazione di un documento può essere dovuta esclusivamente all’inesistenza dell’oggetto materiale tipico delle falsità in atti, il quale deve essere rappresentato da un documento dotato di efficacia probatoria legale.
Inesistenza dell’oggetto materiale tipico che non può predicarsi nel caso in esame, trattandosi di un certificato medico, destinato ad avere efficacia probatoria legale.

1.7 Il settimo motivo è manifestamente infondato.

Secondo il ricorrente, i precedenti penali dell’imputato, valorizzati al fine di ritenere insussistente la contestata recidiva reiterata, non si sarebbero potuti porre a base del giudizio di non concedibilità delle attenuanti generiche.

L’assunto va disatteso.

La Corte d’appello ha denegato le attenuanti generiche, oltre che per "la mancanza di una condotta riparatoria o quantomeno di manifestazioni di resipiscenza rispetto a quanto commesso", anche in ragione dei precedenti penali dell’imputato; ha escluso la recidiva in considerazione della risalenza nel tempo dei precedenti, così che non ha ravvisato nei nuovi reati, per cui è stata pronunciata condanna, "quei caratteri rivelatori di una più intensa colpevolezza o di una più spiccata pericolosità sociale, che soli giustificano l’effettiva applicazione della recidiva facoltativa".
In siffatta motivazione non si rinvengono le contraddizioni segnalate dalla difesa, avendo la Corte territoriale preso in considerazione il medesimo elemento, ossia i precedenti penali dell’imputato, al fine di compiere valutazioni afferenti a questioni del tutto diverse.
Difatti, come questa Corte è solita affermare, le attenuanti generiche hanno la funzione di adeguare la pena al caso concreto, permettendo la valorizzazione di connotati oggettivi o soggettivi non tipizzati ma che appaiono in grado di diminuire la meritevolezza e/o il bisogno di pena. Esse, quindi, presuppongono l’esistenza di elementi “positivi”, intendendo per tali quelli che militano per una diminuzione della pena che risulterebbe dall’applicazione dell’art. 133 c.p..
Ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove ritenga di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza (cfr. Sez. 3, n. 35570 del 30/5/2017, Rv. 270694). Al contrario, è la suindicata meritevolezza, quando se ne affermi l’esistenza, che necessita di apposita motivazione, dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti idonei a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio (in questi termini: Sez. 2, n. 38383 del 10/7/2009, Rv. 245241 e, più di recente, Sez. 1, n. 46568 del 18/5/2017, Rv. 271315; Sez. 3, n. 35570 del 30/5/2017, Rv. 270694).
Come testualmente rimarcato dalle Sezioni Unite (sentenza n. 20808 del 25.10.2018, Rv. 275319), gli elementi positivi in grado di condurre ad una riduzione della pena, quale risultante dall’applicazione dell’art. 133 c.p., "possono risultare contrastati e depotenziati da fattori di segno opposto; tra i quali legittimamente si collocano anche i precedenti penali del reo (ex multis, Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269). Si vede bene, quindi, che, allorquando il giudice fa ricorso ai precedenti penali per negare la meritevolezza dell’attenuazione della pena prevista dall’art. 62 bis c.p., egli opera una ricognizione che sfocia nel giudizio di insussistenza di elementi positivi o nel giudizio di dominanza di un fattore negativo sui concorrenti elementi positivi. Quando il fattore in parola è costituito dai precedenti penali del reo, la loro evocazione costituisce quindi un espediente retorico che esalta l’assenza di elementi positivi o la ricorrenza di un concreto elemento in grado di depotenziare quelli favorevoli pur accertati. Del tutto diverso il giudizio in materia di recidiva".

Innanzitutto i precedenti penali, dei quali fa menzione l’art. 133 c.p., non sono del tutto coincidenti con quelli che contribuiscono a costituire la recidiva.

A solo titolo esemplificativo si può considerare che nei primi rientrano anche le sentenze che concedono il perdono giudiziale, che invece non rilevano ai fini della recidiva (Sez. 5, n. 2655 del 16/10/2015, Rv. 265709); quelle che escludono la punibilità per la particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131 bis c.p.; le sentenze di condanna per reati colposi e per le contravvenzioni, che non possono concorrere a concretare la recidiva, pur quando formatesi prima dell’entrata in vigore della L. n. 251 del 2005 (Sez. 3, n. 29238 del 17/02/2017, Rv. 270147, in motivazione); le condanne per le quali si è prodotta l’estinzione di ogni effetto penale, determinata dall’esito positivo dell’affidamento in prova al servizio sociale, che, invece, non possono essere considerate agli effetti della recidiva (Sez. 3, n. 39550 del 4/7/2017, Rv. 271342).
Costituiscono precedenti penali, valutabili ai fini della recidiva, unicamente le condanne definitive e solo quelle che siano divenute tali prima della commissione del nuovo reato; a seconda della specie di recidiva, la condanna deve avere connotazioni particolari, quanto all’oggetto, al tempo, al numero. Ricorrono poi le ulteriori esclusioni di cui si è già detto.
In concreto, quindi, ben può accadere che i giudizi in tema di attenuanti generiche e di recidiva non abbiano una base fattuale coincidente.
In caso diverso, pur quando i precedenti del soggetto siano valutabili anche per il giudizio sulla recidiva, l’uso del medesimo elemento, nell’ambito delle due valutazioni, dà luogo ad operazioni non sovrapponibili.
Mentre, quindi, come innanzi detto, in tema di attenuanti generiche, il precedente penale può contrastare eventuali fattori positivamente valorizzabili o può essere utilizzato al fine di indicare l’assenza di questi ultimi fattori, il giudizio, che riconosce la recidiva, considera il precedente non come fattore ostativo bensì come fattore costitutivo, sia pure non esclusivo, essendo ancora necessario verificare la relazione che esso intrattiene con il nuovo reato. In tema di recidiva, infatti, il giudice deve esaminare i due requisiti costitutivi, verificando non solo l’esistenza del presupposto formale, rappresentato dalla previa condanna, ma anche del presupposto sostanziale, costituito dalla maggiore colpevolezza e dalla più elevata capacità a delinquere del reo, da accertarsi discrezionalmente.
Alla luce delle anzidette coordinate ermeneutiche, è di tutta evidenza, dunque, che la motivazione della sentenza impugnata sfugge ad ogni rilievo censorio, essendo del tutto differenti le valutazioni da svolgere in tema di concedibilità delle attenuanti generiche e di sussistenza della recidiva.
Deve precisarsi, inoltre, che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, correttamente la Corte territoriale ha preso in considerazione, al fine del diniego delle attenuanti generiche, anche le pendenze giudiziarie, la cui rilevanza è consentita dall’art. 133 c.p., a nulla rilevando che, nel caso in esame, trattavasi di procedimenti sospesi, atteso che, pur se sospesi, essi erano pur sempre pendenze giudiziarie.

1.8 Anche l’ottavo motivo è manifestamente infondato.
Premesso che il Collegio d’appello non era vincolato ad allinearsi alla valutazione del primo giudice sull’intensità del dolo ma che, ad ogni modo, anche il primo giudice aveva ritenuto che l’imputato aveva dimostrato "notevole callidità nella realizzazione del raggiro e pervicacia nel perseguire il proprio obiettivo", deve rilevarsi che il medesimo Collegio ha - con argomentazioni scevre da errori e vizi logici - affermato che, in ragione della particolare intensità del dolo, non era accoglibile la richiesta di riduzione della pena base, stabilita dal giudice di primo grado.
Quanto all’aumento per la continuazione, in ragione dell’esclusione della recidiva, ha operato una riduzione della pena rispetto a quella determinata dal giudice di primo grado, tenuto conto - come si ricava dal complesso dell’apparato motivazionale - degli elementi evidenziati per la determinazione della pena base: durata della condotta ed intensità del dolo.
Va ricordato che questa Corte, in tema di determinazione della pena nel reato continuato, ha precisato che non sussiste l’obbligo di specifica motivazione per gli aumenti di pena a titolo di continuazione, valendo a questi fini le ragioni a sostegno della quantificazione della pena base (cfr. Sez. 2, n. 49007 del 16.9.2014, Rv 261424).

2. Quanto alle doglianze espresse nella memoria depositata, deve precisarsi che per lo più esse reiterano censure formulate nei motivi del ricorso, che sono state considerate non meritevoli di accoglimento sulla base delle considerazioni esposte nei paragrafi che precedono.
Non sono consentiti, invece, i rilievi - contenuti sempre nella nota pervenuta il 2 ottobre 2019 - relativi alle prospettate questioni sia di compatibilità comunitaria dell’art. 420 bis c.p.p., comma 2, con l’art. 48, comma 2, della Carta Fondamentale dei Diritti dell’Unione Europea sia di legittimità costituzionale dell’art. 420 bis c.p.p., comma 2 per violazione dell’art. 3 Cost., comma 1 e artt. 24, 111, 117 Cost.: esse, infatti, non investono i capi e punti del provvedimento impugnato, oggetto del ricorso originario, in cui il ricorrente nulla aveva dedotto in ordine alla celebrazione del processo in assenza dell’imputato.
Deve ricordarsi che questa Corte (Sez. 2, n. 17693 del 17/01/2018, Rv. 27282) ha già avuto modo di affermare che, in tema di ricorso per cassazione, in virtù del combinato disposto dell’art. 585 c.p.p., comma 4 e art. 167 disp. att. c.p.p., la presentazione di motivi nuovi è consentita a condizione che essi investano capi o punti della decisione già oggetto dell’atto originario di gravame, ai sensi dell’art. 581 c.p.p., comma 1, lett. a), e consistano in un’ulteriore illustrazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono l’originaria richiesta rivolta al giudice dell’impugnazione, non anche quando essi consistano in deduzioni riguardanti parti del provvedimento gravato che non erano state oggetto della primitiva impugnazione, poiché, in caso contrario, risulterebbero aggirati i termini prescritti dalla legge per la presentazione del ricorso, la cui inosservanza è sanzionata con l’inammissibilità del gravame.
Quanto ai rilievi difensivi in ordine alle attenuanti generiche e alle intervenute revoche di due decreti penali di condanna, deve rilevarsi che la Corte lagunare ha denegato le menzionate circostanze sulla base non solo dei precedenti penali dell’imputato ma anche per "la mancanza di una condotta riparatoria o quantomeno di manifestazioni di resipiscenza rispetto a quanto commesso". Ad ogni modo, i precedenti penali, indicati dalla Corte anzidetta, non si esauriscono nei due decreti penali di condanna, che sono stati revocati, con la conseguenza che le intervenute revoche non compromettono la complessiva congruità e correttezza logico-giuridica della motivazione della decisione impugnata.

3. La declaratoria di inammissibilità totale del ricorso comporta, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché - apparendo evidente che egli ha proposto il ricorso determinando la causa di inammissibilità per colpa (Corte Cost., 13 giugno 2000 n. 186) e tenuto conto della rilevante entità di detta colpa - della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende a titolo di sanzione pecuniaria.

4. Quanto all’istanza di oscuramento, formulata dal ricorrente nella memoria del 2 ottobre 2019, va ricordato che questa Corte (Sez. 6, n. 11959 del 15/2/2017, Rv. 269402) ha avuto modo di affermare che, in tema di trattamento dei dati personali, la richiesta di oscuramento delle generalità e degli altri dati identificativi dell’interessato, riportati sulla sentenza o altro provvedimento, di cui al D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52, comma 1, deve essere fondata su "motivi legittimi", da intendersi quali "motivi opportuni".

Fermo restando che l’accoglimento della richiesta medesima interverrà ogniqualvolta l’A.G. ravviserà un equilibrato bilanciamento tra esigenze di riservatezza del singolo e pubblicità della sentenza, la quale ultima costituisce un necessitato corollario del principio costituzionale dell’amministrazione della giustizia in nome del popolo, massimamente in ambito penale in cui, in ragione degli interessi in gioco, l’intera celebrazione del processo - ivi compresa, dunque, la fase dell’istruttoria dibattimentale - si svolge in forma pubblica (salvo motivato provvedimento in deroga da parte del giudice procedente), si è precisato che, al fine di individuare le ragioni dell’istanza de qua, interessanti indicazioni si traggono dalle linee guida dettate dal Garante della privacy il 2 dicembre 2010, "in materia di trattamento di dati personali nella riproduzione di provvedimenti giurisdizionali per finalità di informazione giuridica", pubblicate sulla G.U. n. 2 del 4 gennaio 2011, in cui al punto 3, con specifico riferimento alla c.d. "procedura di anonimizzazione dei provvedimenti giurisdizionali" di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, commi da 1 a 4, si indicano possibili “motivi legittimi", in grado di fondare la relativa richiesta (ovvero di indurre l’A.G. a provvedere d’ufficio), nella "particolare natura dei dati contenuti nel provvedimento (ad esempio, dati sensibili)", ovvero nella "delicatezza della vicenda oggetto del giudizio".

Per ciò che concerne i "dati sensibili" - discendendo la loro individuazione direttamente dalla legge - che, al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 4, comma 1, lett. d), li definisce come "i dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale" - può affermarsi che nessuno di essi viene in considerazione ed è dunque messo a repentaglio nel caso in questione in cui vengono in rilievo certificati medici ma solo nel loro aspetto dell’accertata falsità.

Quanto, poi, alla "delicatezza" della vicenda per cui è processo, posto che come osserva lo stesso Garante - essa va ravvisata nella peculiarità del caso e della capacità, insita nella diffusione dei dati relativi, di riverberare "negative conseguenze sui vari aspetti della vita sociale e di relazione dell’interessato (ad esempio, in ambito familiare o lavorativo)", così andando ad incidere pesantemente sul diritto alla riservatezza del singolo, si osserva che la presente fattispecie non può definirsi delicata, come reso evidente, del resto, dal mancato richiamo alla delicatezza della vicenda da parte dello stesso ricorrente.

Deve aggiungersi che, come già affermato da questa Corte (Sez. 6, n. 41566 del 5/4/2013, Rv. 257796), in tema di trattamento di dati personali, l’istanza, volta all’oscuramento delle generalità e degli altri dati identificativi dell’interessato riportati sulla sentenza o altro provvedimento, si riferisce unicamente all’atto deliberativo del "relativo grado di giudizio", secondo quanto indicato dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.

Ne discende, nel caso in esame, che non può esaminarsi la richiesta di oscuramento, formulata con riguardo alle pronunciate sentenze di merito.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.