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"Fregatura" nella recensione di uno studio professionale: reato o critica commerciale? (Tr. Siena, 285/20)

20 maggio 2020, Tribunale di Siena

La presenza di recensioni negative è uno dei "pericoli" cui il professionista va incontro nel momento in cui inserisce il suo profilo professionale in una piattaforma internet.

Il diritto di critica si concretizza in un giudizio valutativo che postula l’esistenza del fatto assunto ad oggetto o spunto del discorso critico ed una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere, e, conseguentemente, esclude la punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, purchè tali modalità espressive siano proporzionate e funzionali all’opinione o alla protesta, in considerazione degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi.

Il rispetto della verità del fatto assume, in riferimento all’esercizio del diritto di critica, un rilievo più limitato e necessariamente affievolito rispetto al diritto di cronaca, in quanto la critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale, che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica.

Nella critica rivolta su Internet ad uno studio professionale sussiste un interesse pubblico derivante dal fatto che si parla di uno studio aperto al pubblico: recensire lo studio affermando che  “c’è sempre una fregatura da parte mia non lo consiglierei a nessuno!!!” è linguaggio, figurato e gergale, e tono, aspro e polemico, ma non è reato se funzionali alla critica perseguita, senza trasmodare nella immotivata aggressione ad hominem. Il requisito della continenza non può ritenersi superato per il solo fatto dell’utilizzo di termini che, pur avendo accezioni indubitabilmente offensive, hanno però anche significati di mero giudizio critico negativo del quale occorre tenere conto anche alla luce del contesto complessivo e del profilo soggettivo del dichiarante.

Tribunale di Siena 

sentenza n. 285/20; dep. 20 marzo 2020

Motivi in fatto e in diritto della decisione

Con atto di citazione ritualmente notificato, (omissis...) titolare dell’omonimo studio di consulenza del lavoro, conveniva in giudizio (omissis...) al fine di sentirlo condannare: a) al pagamento del compenso professionale dovuto alla professionista per l’attività svolta in suo favore; b) al risarcimento del danno subito a causa dei comportamenti da lui tenuti gravemente lesivi della reputazione e del prestigio dell’attrice.
Deduceva di essere stata incaricata dal convenuto di effettuare alcuni conteggi relativi alle buste paga da lui percepite al fine di valutare, insieme al suo avvocato, la sussistenza dei presupposti per avviare una controversia di lavoro; di aver eseguito il suo incarico, ma di non essere stata pagata; di aver ricevuto dal servizio GMAIL di Google My Business, in data 18.8.2018, la notifica di una recensione scritta dall’(omissis...), nella quale quest’ultimo aveva digitato la seguente frase: “c’è sempre una fregatura da parte mia non lo consiglierei a nessuno!!!”; che, quindi, l’(omissis...) aveva mosso, nei confronti dell’attrice, accuse infondate di illegalità in riferimento all’operato del professionista.
Si costituiva in giudizio (omissis...), chiedendo il rigetto della pretesa attorea.
La causa veniva istruita documentalmente e rimessa in decisione all’esito dei termini concessi alle parti per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica.
In via preliminare va rilevato che all’udienza del 5.12.2019 le parti hanno dato atto che (omissis...) ha provveduto al pagamento integrale del compenso richiesto dall’attrice, onde, sul punto, deve essere dichiarata la cessazione della materia del contendere, trattandosi di sopravvenuto evento preclusivo della pronunzia giudiziale nel merito della controversia, che elimina completamente la posizione di contrasto fra le parti.
La causa è stata ritenuta in decisione esclusivamente per la pronuncia sulla domanda di risarcimento del danno.
A tal proposito, all’esito della disamina delle prodotte prove documentali, questo giudicante ritiene che la domanda di parte attrice non debba trovare accoglimento in considerazione della valenza non diffamatoria del complessivo comportamento del convenuto.
La causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p., sub specie dell’esercizio del diritto di critica, ricorre quando i fatti esposti siano veri o quanto meno l’accusatore sia fermamente e incolpevolmente, ancorchè erroneamente, convinto della loro veridicità.
Il diritto di critica si concretizza in un giudizio valutativo che postula l’esistenza del fatto assunto ad oggetto o spunto del discorso critico ed una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere, e, conseguentemente, esclude la punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, purchè tali modalità espressive siano proporzionate e funzionali all’opinione o alla protesta, in considerazione degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi (Sez. 1, n. 36045 del 13/06/2014, Surano, Rv. 261122).
Il rispetto della verità del fatto assume, in riferimento all’esercizio del diritto di critica, un rilievo più limitato e necessariamente affievolito rispetto al diritto di cronaca, in quanto la critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale, che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica. (Sez. 5, n. 25518 del 26/09/2016, dep. 2017, Volpe, Rv. 270284).
Nella valutazione del requisito della continenza, necessario ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, si deve tenere conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta e verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur aspri e forti, non siano gravemente infamanti e gratuiti, ma siano, invece, comunque pertinenti al tema in discussione (Sez. 5, n.4853 del 18/11/2016, dep. 2017, Fava, Rv. 269093).
Nel caso di specie, il carattere diffamatorio della condotta in contestazione ricorrerebbe, secondo la tesi attorea, nell’espressione “c’è sempre una fregatura” lasciando intendere che il consulente del lavoro sia solito porre in essere condotte truffaldine nei confronti dei clienti.
La dott.ssa (omissis...) enfatizza, con riferimento all’impiego del termine “fregatura”, la carica diffamatoria delle espressioni utilizzate dal convenuto, le quali, in realtà, alla luce del contesto in cui si inseriscono, riguardano la circostanza, considerata vera da chi ha scritto la recensione, che il professionista non avesse agito correttamente.
Non vi è dubbio che le allusioni contenute nella recensione dell’(omissis...) hanno lo scopo di porre in dubbio la correttezza dell’operato dell’attrice.
Si tratta tuttavia di allusioni in sé consentite dalla facoltà di critica e che non si traducono in un attacco gratuitamente degradante della figura morale della (omissis...), ma richiamano la forte insoddisfazione dell’(omissis...) sulle prestazioni ricevute.
Ad un’attenta analisi, infatti, tali espressioni, valutate secondo il criterio della sensibilità dell’uomo medio, non appaiono dotate di un particolare grado di offensività intrinseco: il convenuto non ha, infatti, usato un linguaggio scurrile o comunque parole particolarmente dispregiative nei confronti della (omissis...), ma si è limitato a descrivere ciò che lui aveva percepito.
Ciò ovviamente non esclude che le parole usate, benché non dotate di una particolare offensività intrinseca, abbiano comunque urtato in concreto la sensibilità della professionista, ma ciò non rileva in questa sede in quanto, per la giurisprudenza prevalente, “la mera suscettibilità o la gelosa riservatezza della parte asseritamente offesa” (Cass. pen. 24 marzo 1995, n. 3247) non possono rilevare perché, se rilevassero, la sussistenza della diffamazione finirebbe col dipendere dalla maggiore o minore suscettibilità dell’offeso.
La valutazione del grado di offensività delle espressioni usate deve essere, piuttosto, effettuata anche in relazione al contesto nel quale le parole asseritamente diffamatorie sono state pronunciate e alle cause che hanno indotto il convenuto ad esprimerle.
Del resto l’(omissis...) aveva ricevuto una consulenza da parte della consulente del lavoro e poteva esprimere la sua opinione in merito a quanto ricevuto.
E’ vero che l’esercizio del diritto di critica trova un limite immanente nel rispetto della dignità altrui, non potendo lo stesso costituire mera occasione per gratuiti attacchi alla persona ed arbitrarie aggressioni al suo patrimonio morale (tra le altre Sez. 5, n. 4938 del 28/10/2010, Simeone, Rv. 249239).
Tuttavia, in tale ottica, non è consentito al giudice di merito sintetizzare un discorso assegnandogli il significato di un attacco alla persona (“dare fregature”) che lo stesso non ha, visto che nel post viene criticata l’attività professionale e non l’etica del soggetto privato, in quanto tale.
Le espressioni utilizzate dall’(omissis...), infatti, si riferiscono alla qualità scadente dei servizi che il lavoratore ha ritenuto di ricevere dal consulente ed appare del tutto evidente che la critica alle modalità di svolgimento del lavoro professionale riguarda la percezione che il cliente ha avuto sull’utilità dei servizi ricevuti. La presenza di recensioni negative, del resto, è uno dei “pericoli” cui il professionista va incontro nel momento in cui inserisce il suo profilo professionale in una piattaforma internet, come Gmail (errata corrige: Google) My Business.
Dunque di non altro si tratta che di una recensione nei confronti di un studio aperto al pubblico da parte di un cliente insoddisfatto espressione del diritto di critica costituzionalmente tutelato che, allorché si eserciti nei confronti di un ufficio aperto alla clientela, dilata i suoi confini dal momento che chi si mette sul mercato accetta il rischio di critiche qualora i servizi offerti non soddisfino le aspettative di coloro che ne usufruiscono, tanto più quando tali servizi non sono gratuiti.
Sul tema della esimente del diritto di critica possono citarsi, a titolo meramente esemplificativo di una consolidata interpretazione giurisprudenziale, alcuni arresti della Suprema Corte di Cassazione: il diritto di critica si concretizza in un giudizio valutativo che postula l’esistenza del fatto assunto ad oggetto o spunto del discorso critico ed una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere, e, conseguentemente, esclude la punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, poiché tali modalità espressive siano proporzionale e funzionali all’opinione o alla protesta, in considerazione degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi” (Sez. 1, Sentenza n. 36045 del 13/0612014 Ud. (dep. 20/0812014) Rv. 261122).
In tema di diffamazione, il requisito della continenza postula una forma espositiva corretta della critica rivolta – e cioè strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione – ma non vieta l’utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, in quanto non hanno adeguati equivalenti (Sez. 5, Sentenza n. 31669 del 1410412015 Ud. (dep- 21107/2015) Rv. 264442).
In tenga di delitti contro l’onore, il requisito della continenza non può essere evocato conce strumento oggettivo di selezione degli argomenti sui quali fondare la comunicazione dell’opinione alfine di costituire legittimo esercizio del diritto di critica, selezione che, invece, spetta esclusivamente al titolare di tale diritto, giacché altrimenti il suo contenuto ne risulterebbe svuotato, in spregio del diritto costituzionale di cui all’art. 21 Cost.
Il rispetto del canone della continenza esige, invece, che le modalità espressive dispiegate siano proporzionate e funzionali alla comunicazione dell’informazione, e non si traducano, pertanto, in espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticalo. Pertanto, il requisito della continenza, quale elemento costitutivo della causa di giustificazione del diritto di critica, attiene alla forma comunicativa ovvero alle modalità espressive utilizzate e non al contenuto comunicato (Sez. 5, Sentenza n. 18170 del 09/03/2015 Ud. (dep. 3010412015) Rv. 263460).
L’interpretazione offerta dall’attrice, di fatto, finisce per ridurre la facoltà di critica alla esposizione dei fatti e alla loro puntuale, esatta rappresentazione.
Gli elementi a disposizione del tribunale, invece, consentono di riconoscere l’operatività della scriminante invocata dal convenuto.
Sussiste un interesse pubblico derivante dal fatto che si parla di uno studio di consulenza del lavoro e, in quanto tale, aperto al pubblico.
Il linguaggio, figurato e gergale, nonchè i toni, aspri e polemici, utilizzati dall’agente sono funzionali alla critica perseguita, senza trasmodare nella immotivata aggressione ad hominem. Il requisito della continenza non può ritenersi superato per il solo fatto dell’utilizzo di termini che, pur avendo accezioni indubitabilmente offensive, hanno però anche significati di mero giudizio critico negativo del quale occorre tenere conto anche alla luce del contesto complessivo e del profilo soggettivo del dichiarante (Sez. 5 n. 42570 del 20/06/0218, Concadoro, non massimata).
Da ciò discende che la domanda risarcitoria è infondata e va rigettata.
Stante l’esito della controversia e, dunque, considerata l’infondatezza della domanda di risarcimento, ma che il convenuto ha pagato il compenso dovuto al professionista solo in corso di causa, sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di lite.

P.Q.M.

Il Giudice del Tribunale di Siena in composizione monocratica, definitivamente pronunciando sulla causa n. (omissis...) così provvede:
dichiara cessata la materia del contendere sulla domanda di pagamento del compenso professionale;
rigetta la domanda di risarcimento proposta da parte attrice; compensa integralmente le spese di lite.