Va esclusa l'idoneità propagandistica dell'attività comunicativa a ledere il bene giuridico tutelato dal divieto di diffondere in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, quando i toni usati - seppur del tutto contrastanti con le più elementari regole del buon senso, ancorché spregevoli moralmente - per manifestare il suo pensiero, non consentono di stabilire preliminarmente l'idoneità della condotta illecita a offendere il bene giuridico protetto dalla norma penale, contestualizzando il suo comportamento attraverso la formulazione di un giudizio ex ante.
Il reato di diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico attesa la natura di reato di pericolo astratto della fattispecie predetta, imponeva che fosse accertata.
Ciò che rileva non è l'astratta valenza discriminatoria di una manifestazione del pensiero, che deve essere contestualizzata e inserita nel contesto comunicativo: se palesemente paradossale, non è reato.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
(ud. 26/11/2019) 21-02-2020, n. 6933
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SARACENO Rosa Anna - Presidente -
Dott. MANCUSO Luigi Fabrizio - Consigliere -
Dott. LIUNI Teresa - Consigliere -
Dott. BINENTI Roberto - Consigliere -
Dott. CENTONZE Alessandro - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1) P.A., nato a (OMISSIS);
Avverso la sentenza emessa il 14/11/2018 dalla Corte di appello di Milano;
Sentita la relazione del Consigliere Dott. Alessandro Centonze;
Sentite le conclusioni del Sostituto Procuratore generale Dott. Paolo Canevelli, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
Sentita per la parte civile l'avv. CC, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza emessa il 15/03/2017 il Tribunale di Monza condannava l'imputata G.D. alla pena di venti giorni di reclusione, giudicandola colpevole del reato ascrittole, ai sensi del D.L. 26 aprile 1993, n. 122, art. 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 25 giugno 1993, n. 205, accertato a (OMISSIS).
L'imputata, inoltre, veniva condannata al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita, P.A., che venivano quantificati nella misura simbolica di 1,00 Euro.
2. Con sentenza emessa il 14/11/2018 la Corte di appello di Milano, pronunciandosi sull'impugnazione proposta dall'imputata, in riforma della decisione appellata, assolveva G.D. dal reato ascrittole perchè il fatto non sussiste.
3. I fatti di reato in contestazione, a fronte delle divergenti conclusioni dei Giudici di merito, sono incontroversi nella loro materialità e riguardano l'attività di propaganda fondata sulla superiorità razziale ed etnica degli italiani settentrionali rispetto a quelli meridionali, posta in essere dall'imputata attraverso il social network Facebook, sul quale commentava un'immagine satellitare dell'Italia priva delle regioni centro-meridionali, comprese il Lazio e l'Abruzzo, accompagnata dalla dicitura "il satellite vede bene, difendiamo i confini", che commentava con l'inserimento della frase "Forza Etna, Forza Vesuvio, Forza Marsili".
In questa, incontroversa, cornice, il Tribunale di Monza riteneva che il post inserito su Facebook, sopra citato, possedesse connotazioni discriminatorie e propagandistiche idonee a concretizzare la fattispecie di reato contestata a G.D., ai sensi del D.L. n. 122 del 1993, art. 1. Infatti, al commento postato dall'imputata dovevano attribuirsi contenuti di discriminazione, accentuati dalla diffusione virale della comunicazione nella rete telematica.
Di contrario avviso, invece, era la Corte di appello di Milano che riteneva la condotta posta in essere dall'imputata sprovvista di quelle connotazioni discriminatorie e propagandistiche indispensabili alla configurazione della fattispecie in contestazione, atteso che il contenuto del commento postato da G.D. non possedeva caratteristiche tali da offendere il bene giuridico protetto dalla norma.
Si evidenziava, al contempo, che l'attività comunicativa posta in essere dall'imputata, tenuto conto del social network su cui veniva espressa, non poteva ritenersi finalizzata a diffondere a un numero indiscriminato di soggetti i contenuti discriminatori sanzionati dal D.L. n. 122 del 1993, art. 1; connotazione, questa, la cui assenza impediva di configurare la fattispecie contestata.
Sulla scorta di questa ricostruzione degli accadimenti criminosi l'imputata G.D. veniva assolta dal reato ascrittole nei termini di cui in premessa.
3. Avverso la sentenza di appello la parte civile costituita, P.A., ricorreva per cassazione, deducendo la violazione di legge del provvedimento impugnato, in riferimento al D.L. n. 122 del 1993, art. 1, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto degli elementi costitutivi del reato contestato all'imputata G.D., la cui insussistenza era stata affermata dalla Corte di appello di Milano in termini assertivi e svincolati dalle emergenze processuali.
Si deduceva, in proposito, che il commento inserito dall'imputata sulla sua pagina personale di Facebook possedeva connotazioni di illiceità inequivocabili, certamente idonee a concretizzare la fattispecie di reato che le veniva contestata D.L. n. 122 del 1993, ex art. 1, non potendosi dubitare dei contenuti discriminatori del post, accentuati dalla sua diffusione virale sulla rete telematica. Nè era possibile dubitare della natura discriminatoria della comunicazione in questione, che risultava connaturata al suo contenuto, che si fondava sull'assunto, tipicamente razzista, della superiorità etnica degli abitanti dell'Italia settentrionale.
Si evidenziava, inoltre, che la Corte di appello di Milano non aveva contestualizzato la condotta illecita in contestazione, trascurando di considerare che, all'epoca dei fatti, G.D. era un consigliere provinciale della Lega per la provincia di Monza e Brianza, con la conseguenza che gli eventuali lettori avrebbero potuto attribuire al commento postato connotazioni riconducibili all'ambiente politico di cui l'imputata faceva parte. Ne conseguiva che la carica rappresentativa rivestita dall'imputata e la sua appartenenza a un'area politica di ispirazione regionalistica comportava un inevitabile ampliamento delle connotazioni discriminatorie del commento postato, che non consentiva di attribuirgli quei contenuti ironici e goliardici richiamati nella sentenza impugnata, allo scopo di ritenerlo privo di rilevanza penale.
Queste ragioni imponevano l'annullamento della sentenza impugnata.
Motivi della decisione
1. Il ricorso proposto da P.A. è infondato.
2. Occorre premettere che i fatti di reato contestati a G.D., ai sensi del D.L. 26 aprile 1993, n. 122, art. 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 25 giugno 1993, n. 205, appaiono incontroversi, riguardando il commento inserito dall'imputata sulla sua pagina personale di Facebook, relativo a un'immagine satellitare dell'Italia priva delle regioni centromeridionali, comprese il Lazio e l'Abruzzo, accompagnata dalla dicitura "il satellite vede bene, difendiamo i confini...", che veniva commentata con la frase dal tenore manifestamente paradossale "Forza Etna, Forza Vesuvio, Forza Marsili"..
In questo contesto, la questione ermeneutica di cui ci si deve occupare, allo scopo di verificare la fondatezza del ricorso proposto da P.A., quale parte civile costituita nel giudizio di appello, riguarda la possibilità di attribuire connotazioni discriminatorie e propagandistiche al commento inserito dall'imputata sul social network Facebook, sopra citato, rilevanti ai sensi del D.L. n. 122 del 1993, art. 1.
Osserva, in proposito, il Collegio che si può ritenere pacifico che il commento telematico di G.D. costituisce una manifestazione del pensiero che, sotto il profilo ideologico, rimanda a disvalori di discriminazione razziale e di intolleranza, che devono essere inquadrati alla luce della giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo cui: "Ai fini della configurabilità del reato previsto dalla L. 13 ottobre 1975, n. 654, art. 3, comma 1, lett. a), prima parte, e successive modifiche, la "propaganda di idee" consiste nella divulgazione di opinioni finalizzata ad influenzare il comportamento o la psicologia di un vasto pubblico e a raccogliere adesioni; l'odio razziale o etnico" è integrato da un sentimento idoneo a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori, e non da qualsiasi sentimento di generica antipatia, insofferenza o rifiuto riconducibile a motivazioni attinenti alla razza, alla nazionalità o alla religione; la "discriminazione per motivi razziali" è quella fondata sulla qualità personale del soggetto, e non - invece - sui suoi comportamenti" (Sez. 5, n. 32862 del 07/05/2019, Borghezio, Rv. 276857-01; si veda in Sez. 3, n. 39606 del 23/06/2015, Salmè, Rv. 264376-01).
Tuttavia, il commento postato dall'imputata non poteva essere valutato per la sua astratta valenza discriminatoria, ma andava contestualizzato e inserito nel contesto comunicativo, palesemente paradossale, in cui venivano pronunciate le parole incriminate, che venivano esternate a commento di un'immagine satellitare dell'Italia priva delle regioni centro-meridionali, accompagnata dalla frase - contrastante con le più elementari norme del buon senso - "il satellite vede bene, difendiamo i confini".
In questo contesto, appaiono condivisibili le conclusioni della Corte di appello di Milano che correlava i contenuti del commento controverso alle modalità telematiche con cui veniva trasmessa la comunicazione, postata su Facebook senza connotazioni propagandistiche, correttamente escluse nella sentenza impugnata. Nè rilevava, in senso sfavorevole all'imputata, la carica rappresentativa rivestita presso la Provincia di Monza e Brianza, atteso che il tono evidentemente paradossale, escludendo le connotazioni discriminatorie e propagandistiche del post, non consentiva di configurare l'ipotesi delittuosa di cui al D.L. n. 122 del 1993, art. 1.
In questa cornice, presupposta la natura manifestamente paradossale della comunicazione telematica di G.D., non appaiono decisivi i riferimenti, contenuti nella sentenza di primo grado, all'art. 4 Convenzione di New York del 7 marzo 1966, sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale ratificata nel nostro ordinamento dalla L. 13 ottobre 1975, n. 654 -, con cui gli Stati sottoscrittori assumevano l'impegno a "dichiarare punibili dalla legge ogni diffusione di idee basate sulla superiorità o sull'odio razziale, ogni incitamento alla discriminazione razziale, nonchè ogni atto di violenza, od incitamento a tali atti diretti contro ogni razza o gruppo di individui di colore diverso o di diversa origine etnica, così come ogni aiuto apportato ad attività razzistiche, compreso il loro finanziamento, nonchè a dichiarare illegali ed a vietare le organizzazioni e le attività di propaganda organizzata ed ogni attività di propaganda che incitino alla discriminazione razziale e che l'incoraggino, nonchè dichiarare reato punibile dalla legge la partecipazione a tali organizzazioni od a tali attività".
Nel caso in esame, pertanto, veniva compiuto un vaglio ineccepibile del commento dell'imputata, sulla base del quale veniva esclusa l'idoneità propagandistica dell'attività comunicativa a ledere il bene giuridico tutelato dalla fattispecie del D.L. n. 122 del 1993, art. 1; inidoneità offensiva che derivava dai toni - del tutto contrastanti con le più elementari regole del buon senso, ancorchè spregevoli moralmente - utilizzati dall'imputata per manifestare il suo pensiero.
Nè potrebbe essere diversamente, atteso che la natura di reato di pericolo astratto della fattispecie di cui al D.L. n. 122 del 1993, art. 1 imponeva che fosse accertata preliminarmente l'idoneità della condotta illecita di G.D. a offendere il bene giuridico protetto dalla norma penale, contestualizzando il suo comportamento attraverso la formulazione di un giudizio ex ante.
Ne discende che l'inquadramento della manifestazione del pensiero espresso da G.D. - fondato sull'assunto della natura manifestamente paradossale del suo commento - impone di ritenere il giudizio di irrilevanza penale formulato dalla Corte di appello di Milano rispettoso del dettato normativo del D.L. n. 122 del 1993, art. 1 e conforme alle connotazioni di inoffensività del comportamento comunicativo dell'imputata (Sez. 3, n. 37337 del 16/04/2013, Ciacci, Rv. 257347-01; Sez. 3, n. 38051 del 03/06/2004, Coletta, Rv. 230038-01).
3. Le considerazioni esposte impongono il rigetto del ricorso, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 26 novembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2020