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Dubbi sul DNA sanati da riti alternativi (Cass. 16809/18)

16 aprile 2018, Cassazione penale

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L'esame del DNA costituisce "prova" a tutti gli effetti, e non di mero elemento indiziario ai sensi dell'art. 192 c.p.p., comma 2, sicchè sulla loro base può essere affermata la responsabilità penale dell'imputato, senza necessità di ulteriori elementi convergenti.

 In tema di indagini genetiche, gli esiti dell'analisi comparativa del DNA possano degradare al ruolo di meri indizi, suscettibili di apprezzamento solo in chiave di eventuale conferma di altri elementi probatori, ma ciò è stato affermato in presenza di repertazioni e analisi svolte in violazione delle regole procedurali prescritte dai Protocolli scientifici internazionali in materia, aspetti che non possono essere dedotti nel rito abbreviato.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

(ud. 16/03/2018) 16-04-2018, n. 16809

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIOTALLEVI Giovanni - Presidente -

Dott. DE CRESCIENZO Ugo - Consigliere -

Dott. DI PAOLA Sergio - Consigliere -

Dott. FILIPPINI S. - rel. Consigliere -

Dott. PARDO Ignazio - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

A.F., nato il (OMISSIS);

avverso la sentenza del 21/12/2016 della CORTE APPELLO di BOLOGNA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. STEFANO FILIPPINI;

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. BALDI FULVIO che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza in data 21.12.2016, la Corte di appello di Bologna confermava la sentenza del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Reggio nell'Emilia del 26.1.2016, resa secondo il rito abbreviato "secco", che aveva condannato A.F. alla pena ritenuta di giustizia per il concorso nella rapina a mano armata commessa ai danni di una gioielleria.

1.1. La Corte territoriale respingeva tutte le censure mosse il gravame e specificamente quelle relative alla mancata declaratoria di inutilizzabilità del prelievo di saliva e della successiva estrazione e comparazione del DNA, alla erronea valutazione degli elementi di prova ed alla determinazione del trattamento sanzionatorio.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso l'imputato, per mezzo del suo difensore, denunciando violazione di legge con riferimento all'art. 192 c.p.p., per essere stata valutata come prova, e non mero indizio, la risultanza dell'accertamento tecnico fatto svolgere dal PM, secondo cui vi è compatibilità - e non identità - tra le tracce biologiche estratte dal reperto (un sacchetto di stoffa rinvenuto sul luogo del delitto) e la saliva prelevata dall'imputato.

Per giunta, il campione prelevato dalla traccia è risultato esiguo, circostanza che ha impedito di svolgere analisi biologico-forensi.

Di conseguenza, in assenza di "certezza" dell'indizio, l'elemento accusatorio in parola non può assurgere al rango di prova, ma solo a quello di indizio che, in assenza di ulteriori elementi, non può da solo sorreggere una pronuncia di condanna.

Motivi della decisione

Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per essere manifestamente infondato il motivo dedotto.

1. Non sussiste la dedotta violazione di legge. L'affermazione della penale responsabilità si fonda su una prova materiale acquisita dalla polizia giudiziaria (sacchetto in tela) sul luogo in cui è stato consumato il reato, ricorrendo fondati motivi per ritenere lo stretto collegamento fra il reperto sequestrato e l'atto illecito (rapina aggravata con l'uso di armi), come emerge dalla sentenza di primo grado con affermazione che non forma oggetto di censura nella presente sede.

Dalla motivazione della sentenza impugnata e di quella di primo grado (atti che possono essere esaminati congiuntamente atteso il richiamo della prima alla seconda e i comuni criteri di valutazione del materiale probatorio), si evince che due malviventi hanno fatto irruzione nella gioielleria gestita dalla persona offesa e, dopo averla immobilizzata, si sono impossessati della refurtiva, dimenticando però sul posto un sacchetto di tela sul quale gli organi tecnici che hanno effettuato le indagini hanno rinvenuto tracce biologicheche, comparate con il DNA estratto dalla saliva prelevata sull'imputato, hanno dato un esito di compatibilità.

Il percorso motivazionale con il quale la Corte d'Appello ha spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto autentica e genuina la raccolta della prova, la sua refertazione, la sua analisi, e ha indicato l'assenza di spiegazioni alternative da parte dell'imputato, appare compiuto, senza carenze, nè si rinvengono contraddizioni o manifeste illogicità (neppure indicate dalla difesa).

1.1. In punto di diritto, profilo sul quale si incentra il motivo di ricorso, va considerato che l'elemento acquisto agli atti e valorizzato ai fini dell'affermazione della penale responsabilità dell'imputato costituisce "prova" a tutti gli effetti, come già affermato in precedenti pronunce da questo giudice della legittimità (Sez. 2 n. 8434 del 5.2.2013, Rv 255257; Sez. 1 n. 48349 del 30.6.2004, Rv 231182; e, da ultimo, Sez. 2, n. 43406 del 01/06/2016, Rv. 268161, secondo cui gli esiti dell'indagine genetica condotta sul DNA hanno natura di prova, e non di mero elemento indiziario ai sensi dell'art. 192 c.p.p., comma 2, sicchè sulla loro base può essere affermata la responsabilità penale dell'imputato, senza necessità di ulteriori elementi convergenti).

1.2. Non ignora il Collegio che, secondo condivisa giurisprudenza (Sez. 5, n. 36080 del 27/03/2015, Rv. 264863), in tema di indagini genetiche, gli esiti dell'analisi comparativa del DNA possano degradare al ruolo di meri indizi, suscettibili di apprezzamento solo in chiave di eventuale conferma di altri elementi probatori, ma ciò è stato affermato in presenza di repertazioni e analisi svolte in violazione delle regole procedurali prescritte dai Protocolli scientifici internazionali in materia, aspetti che nel caso di specie non risultano neppure dedotti dalla parte che, invece, ha fatto richiesta di giudizio abbreviato "secco", rinunciando così implicitamente ad introdurre qualsiasi elemento al riguardo.

2. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna dell'imputato che lo ha proposto al pagamento delle spese del procedimento, nonchè - ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità - al pagamento a favore della Cassa delle ammende di una somma che, alla luce del dictum della Corte costituzionale nella sentenza n. 186/2000, sussistendo profili di colpa, si stima equo determinare in Euro 2.000,00.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 16 marzo 2018.

Depositato in Cancelleria il 16 aprile 2018