Prima di respingere richiesta di MAE per condizioni di detenzione inumane, l'autorità giudiziaria deve verificare se la presunzione nel caso di 3 m2 per detenuto possa essereconfutata in particolare dagli effetti complessivi degli altri aspetti delle condizioni di detenzione, tali da compensare in maniera adeguata la mancanza di spazio personale, quali (cumulativamente) la durata e l’ampiezza della restrizione, il grado di libertà di circolazione e l’offerta di attività all’esterno della cella, nonché del carattere generalmente decente o meno delle condizioni di detenzione nell’istituto.
Il riferimento dei tre metri quadrati è relativo quindi alla superficie calpestabile e che per spazio minimo in cella collettiva va inteso lo spazio in cui il soggetto detenuto abbia la possibilità di muoversi.
Ai fini della determinazione dello spazio individuale minimo intramurario, pari o superiore a tre metri quadrati da assicurare a ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall’art. 3 CEDU, che devono essere detratte dalla superficie lorda della cella l’area destinata ai servizi igienici e quella occupata da strutture tendenzialmente fisse, tra cui il letto, ove questo assuma la forma e struttura "a castello", e gli armadi, appoggiati o infissi stabilmente alle pareti o al suolo, mentre non rilevano gli altri arredi facilmente spostabili.
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 10 – 14 gennaio 2019, n. 1562
Presidente Petruzzellis – Relatore Calvanese
Ritenuto in fatto
1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Roma respingeva la richiesta di consegna di S.P. , richiesta dalle autorità giudiziarie rumene con mandato di arresto Europeo a fini esecutivi.
Secondo la Corte territoriale, dalle informazioni fornite dallo Stato di emissione, in ordine al trattamento carcerario riservato al consegnando, era concreto il rischio di un trattamento inumano, stante la sua destinazione in regime "chiuso" in una cella con uno spazio (tre metri quadri comprensivi di letto e mobilio) al di sotto del minimo indicato dalla Corte EDU.
2. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte di appello di Roma, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173 disp. att. cod. proc. pen..
2.1. Violazione di legge.
Secondo la giurisprudenza di legittimità in tema di m.a.e., lo spazio minimo di tre mq. va calcolato tenendo in considerazione la possibilità del detenuto di muoversi liberamente tra i mobili. In ogni caso, anche seguendo il più rigoroso orientamento di legittimità in relazione ai casi nazionali, il dato spaziale non è l’unico da prendere in considerazione, dovendosi valutare il complessivo trattamento del detenuto.
Nella specie, il trattamento riservato al consegnando prevedeva il regime chiuso solo per un periodo iniziale, con l’ammissione dopo un anno al regime semiaperto; nel regime chiuso in ogni caso sarebbe stato assicurato il diritto di movimento del detenuto all’interno di spazi comuni con attività ricreative e educative per un periodo minimo di tempo.
La Corte di appello avrebbe dovuto al più integrare le informazioni fornite per stabilire l’ingombro degli arredi interni alle celle, la durata del regime "chiuso", il numero di persone ospitate nella stessa cella.
3. Il difensore del consegnando ha fatto pervenire in Cancelleria una memoria in cui deduce la correttezza della sentenza impugnata, in ordine al rilevato motivo ostativo alla consegna, chiedendone la conferma.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è fondato.
2. La giurisprudenza di legittimità, sul tema della compatibilità degli spazi carcerari con i principi espressi nell’art. 3 della CEDU, ha elaborato, in conformità alla stessa evoluzione della giurisprudenza convenzionale, non criteri rigidi ma opzioni interpretative connotate da quella necessaria elasticità che consenta una globale valutazione delle condizioni generali di detenzione.
In particolare la giurisprudenza di questa Corte si è assestata sull’opzione interpretativa che individua la superficie di tre metri quadrati come c.d. "spazio individuale minimo" di disponibilità del singolo detenuto in cella collettiva e, pertanto, non come rigido criterio dimensionale, quanto, piuttosto, indice di riferimento, a partire dal quale deve effettuarsi ogni altra valutazione necessaria all’accertamento della lesione dei diritti del detenuto.
Nelle più recenti sentenze della Corte di Cassazione (per tutte, Sez. 1, n. 41211 del 26/05/2017, Gobbi, Rv. 271087), sul punto, si è dato, inoltre, atto del consolidamento di tale principio anche nell’ambito della giurisprudenza convenzionale, da ultimo espressa con la decisione del 20 ottobre 2016 della Corte EDU, Grande Camera nel procedimento Mursic contro Croazia, nonché con l’ulteriore sentenza "pilota" della Corte EDU del 25/4/2017, Rezmives ed altri c. Romania.
Sullo specifico tema della compatibilità degli spazi carcerari con l’art. 3 della Convenzione EDU, la Grande Camera, premesso che oggetto di valutazione sono "le globali condizioni di detenzione" del ricorrente, ha ribadito che, in caso di sovraffollamento grave, la mancanza di spazio in cella costituisce l’elemento centrale di cui tenere conto per stabilire se tali condizioni siano "degradanti" nel senso inteso dall’art. 3 della Convenzione medesima ed ha confermato che "una superficie calpestabile di tre metri quadrati per ogni detenuto in una cella collettiva" deve rimanere la soglia minima pertinente ai fini della suddetta valutazione, al di sotto della quale sorge una "presunzione" di violazione della disposizione di cui all’art. 3, confutabile, tuttavia, con la dimostrazione della sussistenza di altri aspetti del regime restrittivo che, alla luce delle globali condizioni della detenzione e della sua durata, siano in grado di compensare, in maniera adeguata, la mancanza di spazio personale, come, ad esempio, il grado di libertà di circolazione del ristretto e l’offerta di attività all’esterno della cella nonché le buone condizioni complessive dell’istituto e l’assenza di altri aspetti negativi del trattamento in rapporto a condizioni igieniche e servizi forniti.
Quanto all’individuazione dei criteri e delle modalità di computo dello spazio minimo individuale, prodromico, come detto, alla valutazione delle più generali condizioni di detenzione dello stesso, secondo un orientamento sostanzialmente unanime di legittimità, i tre metri quadrati - al di sotto dei quali, se non emergono i diversi e significativi aspetti "compensativi" di cui si è detto, deve ritenersi la violazione dell’art. 3 CEDU - vanno intesi come "spazio utile al fine di garantire il movimento del soggetto recluso nello spazio detentivo", il che esclude di poter inglobare nel calcolo dello stesso lo spazio occupato dai servizi igienici, destinati a funzioni diverse da quelle correlate al movimento e, in ragione dell’ingombro che ne deriva, quelle strutture tendenzialmente fisse, come ad esempio il letto a castello, che costituiscono un sicuro impedimento al movimento del detenuto (ex multis, Sez. 1, n. 41211 del 26/05/2017, Gobbi, Rv. 271087; Sez. 1, n. 13124 del 17/11/2016, dep. 2017, Morello, Rv. 269514).
In relazione a tale ultimo aspetto la Corte di legittimità, ha sottolineato, da un lato che il letto a castello, di prassi utilizzato per consentire l’alloggio di più detenuti nella stessa camera, presenta un peso tale da non poter essere spostato ed è quindi idoneo a restringere, al pari degli armadi appoggiati o infissi stabilmente al suolo, lo spazio, all’interno della camera detentiva e a costituire un ingombro e, dall’altro, che, dovendosi intendere la porzione di spazio individuale minimo come superficie funzionale alla libertà di movimento del recluso, già di per sé fortemente limitata dall’esperienza segregativa, non può essere considerata superficie "utile" alla integrazione della quota di spazio minimo individuale, quella occupata da tale tipo di letto (di norma non compatibile neanche con una seduta eretta) destinata, invece, esclusivamente a finalità di riposo.
Il riferimento dei tre metri quadrati è relativo quindi alla superficie calpestabile e che per spazio minimo in cella collettiva va inteso lo spazio in cui il soggetto detenuto abbia la possibilità di muoversi (Grande Camera, 20 ottobre 2016, Mursic c. Croazia: "L’important est de determiner si les detenus avaient la possibilitè de se mouvoir normalement dans la cellule (voir, par exemple, Ananyev et autres, precitè, §§ 147-148, et Vladimir Belyayev, prècitè, § 342").
Pertanto, si è affermato, ai fini della determinazione dello spazio individuale minimo intramurario, pari o superiore a tre metri quadrati da assicurare a ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall’art. 3 CEDU, che devono essere detratte dalla superficie lorda della cella l’area destinata ai servizi igienici e quella occupata da strutture tendenzialmente fisse, tra cui il letto, ove questo assuma la forma e struttura "a castello", e gli armadi, appoggiati o infissi stabilmente alle pareti o al suolo, mentre non rilevano gli altri arredi facilmente spostabili.
Resta fermo in ogni caso che lì dove la superficie così calcolata scenda al di sotto dei tre metri quadrati ciò non integra di per sé la violazione del parametro convenzionale bensì la "strong presumption" di trattamento contrario ai contenuti dell’art. 3 CEDU a determinate condizioni bilanciabile (tra tante, Sez. 1, n. 39294 del 03/07/2017, Marsala, non mass.).
Da ultimo, in particolare, la Grande Camera del 15 dicembre 2016, Khalifa e altri c. Italia, ha ribadito che uno spazio personale inferiore a 3 mq. in una cella collettiva fa sorgere una "presunzione, forte ma non inconfutabile, di violazione" dell’art. 3 CEDU che "la presunzione in questione può essere confutata in particolare dagli effetti complessivi degli altri aspetti delle condizioni di detenzione, tali da compensare in maniera adeguata la mancanza di spazio personale", quali cumulativamente "la durata e l’ampiezza della restrizione, il grado di libertà di circolazione e l’offerta di attività all’esterno della cella, nonché del carattere generalmente decente o meno delle condizioni di detenzione nell’istituto" (§ 166).
3. Venendo al caso in esame, la Corte di appello, come ha rilevato l’Ufficio ricorrente, non ha fatto buon governo dei suddetti principi, non avendo accertato il c.d. spazio minimo secondo le linee esegetiche sopra indicate, quanto alla nozione di arredo effettivamente limitativo della libertà di movimento.
Inoltre, non è stata valutata la presenza dei c.d. fattori compensativi, essendosi la Corte di appello limitata a isolare il fattore spazio dalle altre circostanze della detenzione, parcellizzandone la valutazione a scapito di una globale considerazione delle stesse.
4. Ne consegue quindi l’annullamento della sentenza impugnata affinché, se del caso acquisendo ulteriori informazioni, sia nuovamente esaminato il trattamento carcerario riservato in Romania al consegnando, alla luce dei principi di diritto sopra indicati.
La Cancelleria provvederà alle comunicazioni di rito.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Roma.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 22, comma 5.