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Demansionamento non significa sempre risarcimento (Cass. 13484/18)

2 giugno 2018, Cassazione civile

Nel demansionamento non è configurabile un danno risarcibile in re ipsa, poiché il danno rappresenta una conseguenza possibile, ma non necessaria, della violazione delle norme in tema di divieto di mobilità professionale "verso il basso".

L’oggettiva consistenza del pregiudizio derivante dal demansionamento (e il nesso causale) va, provato, dal lavoratore che ne domandi il risarcimento, anche attraverso presunzioni

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 6 marzo – 29 maggio 2018, n. 13484
Presidente Napoletano – Relatore De Felice

Fatti di causa

La Corte d’Appello di Ancona, a conferma della sentenza dello Tribunale della stessa sede, ha rigettato la domanda risarcitoria di M.M. e Ma. , entrambe dipendenti del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali con la qualifica di "comunicatore istituzionale", dovuta al dedotto demansionamento subito per quasi due anni, a causa del quale le stesse erano state costrette in una condizione di sostanziale inattività.
La Corte ha accertato che le appellanti non avessero assolto all’onere probatorio in ordine alla sussistenza del danno invocato, limitandosi a prospettare che l’inattività lavorativa, influendo negativamente sulle condizioni psichiche tanto da distoglierle dai loro interessi extra lavorativi, costituiva in re ipsa la ragione del malessere.
Avverso tale decisione ricorrono per cassazione M.M. e Ma. con quattro censure, e il Ministero per i Beni e le Attività Culturali resiste con tempestivo controricorso.

Ragioni della decisione

Con la prima censura, formulata ai sensi dell’art. 360, co. 1, n.3 cod. proc. civ., le ricorrenti deducono "Violazione dell’art. 52 d.lgs. n. 165/2001 in materia di assegnazione delle mansioni nel pubblico impiego e art. 2013 cod. civ. Violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2087, 1218, 1223 e 2697 cod. civ. in materia di risarcimento del danno e onere della prova". Il demansionamento sarebbe di per sé fonte di responsabilità risarcitoria per l’amministrazione, e dunque avrebbe errato la Corte d’Appello a pretendere dalle appellanti la prova di una sollecitazione all’assegnazione delle mansioni nei confronti del datore, avendo dovuto semmai quest’ultimo dimostrare la non imputabilità della mancata assegnazione, al fine di un esonero da responsabilità.
Con la seconda censura, formulata ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 cod. proc. civ., si contesta "Violazione dell’art. 52 d.lgs. 165/2001 in materia di assegnazione delle mansioni nel pubblico impiego e art. 2103 cod. civ. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2, 4 e 35 della Costituzione".
La Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere che, fermo restando il diritto del dipendente pubblico al conferimento di congrue e utili mansioni e quello dell’amministrazione a pretenderne il corretto adempimento, nel caso de quo, non avendo nessuna delle parti affrontato tale profilo, questo non si sarebbe rivelato utile ai fini della decisione. Affermano le ricorrenti che la scarsa rilevanza attribuita dal Giudice dell’Appello al mancato conferimento delle mansioni, finirebbe per legittimare sostanzialmente una mala gestio da parte della Direzione regionale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Con la terza censura, formulata ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 cod. proc. civ., le ricorrenti deducono "Violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. in tema di disponibilità e valutazione delle prove ex art. 2697 cod. civ." Le ricorrenti trascrivendo il contenuto di una nota della segreteria provinciale della CGIL indirizzata alla Direzione Regionale per i Beni Culturali e paesaggistici delle Marche (e depositata unitamente al ricorso di primo grado) avente ad oggetto "mancata attivazione informazione preventiva", contestano la Corte d’Appello per l’errore in cui sarebbe incorsa ritenendo che la domanda di attribuzione delle mansioni si fosse limitata a richieste verbali, insufficienti, dunque, al fine di provare il danno subito.
Con la quarta e ultima censura, formulata ai sensi dell’art. 360, co. 1, n.3 cod. proc. civ., le ricorrenti deducono "Violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2087, 1218, 1223, 1226 e 2697 cod.civ. in materia di risarcimento del danno. Violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ." La censura si sofferma sull’esito della prova testimoniale e documentale, al fine di evidenziare la discrasia fra la prova del danno esistenziale, alla dignità, all’immagine professionale e sociale, alla vita di relazione, e al danno biologico, offerta in giudizio dalle ricorrenti, e la motivazione della pronuncia impugnata, là dove questa, ritenendo non adempiuto l’onere probatorio da parte delle appellanti, ha ritenuto che le stesse si fossero limitate a "...dedurre che l’inattività lavorativa avrebbe influito negativamente sulle loro condizioni psichiche, distogliendole da interessi extra lavorativi, e costituendo ciò un sintomo di un loro malessere. Assunto, questo non inverosimile, ma non certo, né suscettibile di prova certa, nell’assenza di dettaglio e non configurandosi riscontri attendibili". (p. 3 sent.).

Le censure, esaminate congiuntamente per connessione, non meritano accoglimento.

Secondo l’orientamento prevalente di questa Corte "In tema di danno da demansionamento, il risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo, dell’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non è conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, sicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore l’onere di fornire la prova del danno e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale" (Cass. n. 1327/2015).
Secondo tale posizione, dunque, cui va data continuità, nel demansionamento non è configurabile un danno risarcibile in re ipsa, poiché quest’ultimo rappresenta una conseguenza possibile, ma non necessaria, della violazione delle norme in tema di divieto di mobilità professionale "verso il basso". L’oggettiva consistenza del pregiudizio derivante dal demansionamento (e il nesso causale) va, perciò, provato, dal lavoratore che ne domandi il risarcimento, anche attraverso presunzioni.
Nel caso in esame la Corte territoriale, con motivazione esente da vizi logico argomentativi, ha fatto corretta applicazione del principio di diritto sopra richiamato, avendo ritenuto che le attuali ricorrenti non abbiano provato - neanche presuntivamente - né allegato, il danno da demansionamento patito, né abbiano offerto alcun elemento utile a valutarne la concreta entità (Sez. Un. n. 6572/2006).
In definitiva, non meritando le censure accoglimento, il ricorso va rigettato. Le spese, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti al pagamento nei confronti del controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000 per competenze professionali, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200 e agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13.