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Criticare l'avvocato non è reato (Cass. 42587/18)

27 settembre 2018, Cassazione penale

Non c'è reato nell'inoltrare un esposto diretto all'organo di autodisciplina degli avvocati per stimolare un controllo sui comportamenti dell'avvocato.

L'avvocato è soggetto a procedimento disciplinare per fatti anche non riguardanti l'attività forense, quando si riflettano sulla sua reputazione professionale o compromettano l'immagine della classe forense. 

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 5 luglio – 27 settembre 2018, n. 42587
Presidente Bruno – Relatore Scordamaglia

Ritenuto in fatto

1. Il Tribunale di Bari, con sentenza del 9 novembre 2016, ha confermato la sentenza di assoluzione pronunciata, con la formula perché il fatto non sussiste, dal locale Giudice di pace nei confronti di Va. Al., citato a giudizio, ai sensi dell'art. 21 d.lgs. 274/2000, per rispondere del delitto di diffamazione, asseritamente commesso nei confronti dell'Avvocato La. Gr. mediante l'inoltro al Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Bari di un esposto nel quale erano descritti i comportamenti ritenuti di rilievo disciplinare ascritti al predetto avvocato che, attraverso scritti inseriti nel social network 'Facebook', avrebbe dimostrato che:”si può delinquere, diffamare, calunniare chiunque, restando impunita” ed avrebbe posto in essere condotte che “un rappresentante dell'Avvocatura non può assumere” trattandosi di “comportamenti integranti estremi di reato”.
2. Ha presentato ricorso per Cassazione, ai sensi dell'art. 38 d.lgs. 274/2000, la parte civile, con il ministero del proprio difensore, articolando un solo motivo, con il quale, denunciando il vizio di violazione di legge e il vizio di motivazione, lamenta che il giudice censurato avrebbe ritenuto il fatto ascritto all'imputato scriminato dall'esercizio del diritto, di cui all'art. 51 cod. pen., applicando in materia acritica i principi di diritto enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di valenza diffamatoria degli esposti diretti agli organi di disciplina degli ordini professionali, senza tener conto che il comportamento segnalato non era stato tenuto dall'avvocato nell'esercizio dell'attività professionale e che, comunque, il tenore della missiva era tale non da adombrare dubbi circa il comportamento medesimo, ma da addebitare senza remora alcuna alla persona interessata condotte di rilievo penale, descritte utilizzando un linguaggio per nulla continente e tale da aggredirne, secondo il comune sentire, il patrimonio morale.
3. Con memoria pervenuta in Cancelleria in data 3 luglio 2018, il difensore dell'imputato ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità del ricorso, perché presentato oltre i termini di legge, e, comunque, perché generico o manifestamente infondato.

Considerato in diritto

1. Il ricorso, pur se tempestivamente presentato - perché depositato il quarantacinquesimo giorno dal deposito della sentenza di appello, secondo quanto previsto dalla norma di cui all'art. 585, comma 2, lett. c) cod. proc. pen. (in relazione all'art. 544, comma 3, cod. proc.pen.), che trova applicazione generalizzata, qualunque sia il giudice che ha pronunciato la sentenza gravata - non è, tuttavia, fondato.

2. La giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che:”Non integra il delitto di diffamazione la condotta di colui che indirizzi un esposto - contenente espressioni offensive - all'Autorità disciplinare, in quanto, in tal caso, ricorre la generale causa di giustificazione di cui all'art. 51 cod. pen., sub specie dell'esercizio di un diritto di critica, costituzionalmente tutelato dall'art. 21 Cost. e da ritenersi preVa. rispetto al bene della dignità personale, pure tutelato dalla Costituzione agli artt. 2 e 3, considerato che senza la libertà di espressione e di critica la dialettica democratica non può realizzarsi?»” (Sez. 5, n. 13549 del 20/02/2008, Pavone, Rv. 239825); più ancora che: “Non integra il delitto di diffamazione la segnalazione al competente Consiglio dell'ordine di comportamenti deontologicamente scorretti tenuti da un libero professionista nei rapporti con il cliente denunciente, sempre che gli episodi segnalati siano rispondenti al vero, perché il cliente per mezzo della segnalazione esercita una legittima tutela dei suoi interessi” (Sez. 5, n. 3565 del 07/11/2007 - dep. 23/01/2008, Toppetta e altro, Rv. 238909; conf. Sez. 5, n. 42576 del 20/07/2016, Crimaldi, Rv. 268044).

3. Devesi riconoscere che a tali criteri direttivi il Tribunale si è conformato, posto che l'estraneità della vicenda scrutinata all'ambito dei rapporti professionali dell'avvocato non incide, limitandolo, sull'ambito applicativo della scriminante del diritto di critica, dovendosi dare atto che l'esposto diretto all'organo di autodisciplina degli avvocati era diretto a suscitare il previsto controllo sui comportamenti dell'avvocato medesimo, suscettibili di gettare discredito sull'intera categoria professionale e di integrare gli estremi dell'illecito disciplinare previsto dall'art. 5 del Codice deontologico forense (Doveri di probità, dignità e decoro: comma 2 « L'avvocato è soggetto a procedimento disciplinare per fatti anche non riguardanti l'attività forense, quando si riflettano sulla sua reputazione professionale o compromettano l'immagine della classe forense."), e non costituiva, invece - secondo quanto risultante dall'accertamento compiuto dai giudici di merito -, una mera occasione per dare sfogo alla volontà di screditare la persona stessa dell'avvocato La. mediante l'evocazione di una sua pretesa indegnità.

In tal senso, del resto, si è già espressa questa Suprema Corte allorché ha affermato che: “Non integra il delitto di diffamazione (art. 595 cod. pen.) la condotta di chi invii un esposto al Consiglio dell'Ordine degli Avvocati contenente dubbi e perplessità sulla correttezza professionale di un legale, considerato che, in tal caso, ricorre la generale causa di giustificazione di cui all'art. 51 cod. pen., "sub specie" di esercizio del diritto di critica, preordinato ad ottenere il controllo di eventuali violazioni delle regole deontologiche” (Sez. 5, n. 42576 del 20/07/2016, Crimaldi, Rv. 268044).
3. Donde s'impone il rigetto del ricorso, cui la consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.