Il giudice d'appello che proceda alla reformatio in pejus della sentenza assolutoria di primo grado, ai sensi dell'art. 603, comma 3-bis c.p.p., non è tenuto alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, nel caso in cui si limiti a una diversa valutazione in termini giuridici di circostanze di fatto non controverse, senza porre in discussione le premesse fattuali della decisione riformata.
La regola processuale sulla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale di cui all'art. 603, comma 3-bis, c.p.p., come modificato dall'art. 34, comma 1, lett. i), n. 1), del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, (c.d. Riforma Cartabia), in vigore a far data dal 30 dicembre 2022, trova immediata applicazione nel giudizio di appello conseguente allo svolgimento di giudizio abbreviato, in assenza di disposizioni transitorie e in base al principio "tempus regit actum”.
Ai sensi dell'art. 603, comma 3-bis, c.p.p., «Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice, ferme le disposizioni di cui ai commi da 1 a 3, dispone la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nei soli casi di prove dichiarative assunte in udienza nel corso del giudizio dibattimentale di primo grado o all'esito di integrazione probatoria disposta nel giudizio abbreviato a norma degli articoli 438, comma 5, e 441, comma 5».
Il d.lgs. n. 150/2022, dunque, ha circoscritto l'obbligo di rinnovazione ai soli casi di prove dichiarative (i) assunte nel corso del dibattimento di primo grado ovvero (ii) all'esito di integrazione probatoria disposta nel giudizio abbreviato ai sensi degli artt. 438, comma 5, e 441, comma 5, c.p.p.
in caso di giudizio abbreviato condizionato alla assunzione di prove documentali, la Corte di appello non è tenuta alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per la reformatio in pejus.
Corte di Cassazione
sez. III penale, ud. 6 giugno 2024 (dep. 14 ottobre 2024), n. 37642
Presidente Andreazza - Relatore Aceto
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 10 maggio 2023 la Corte di appello di Trento, pronunciando sulle impugnazioni del Pubblico ministero e degli imputati avverso la sentenza del 21 settembre 2021 del Giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Rovereto, pronunciata a seguito di giudizio abbreviato, in parziale riforma della stessa:
1.1. ha assolto T.G. dai reati di cui ai capi K), L), e 1) perché il fatto non sussiste, ha dichiarato l'imputato colpevole dei reati di cui ai capi A) e B) e, esclusa la circostanza aggravante contestata, lo ha condannato alla pena, condizionalmente sospesa, di due anni di reclusione, riducendo ad euro 911.000 il valore dei beni e delle somme da confiscare, confermando nel resto;
1.2. ha assolto G.A. dai reati di cui ai capi K), L), e 1) perché il fatto non sussiste, ha dichiarato l'imputato colpevole del reato di cui al capo A) e, esclusa la circostanza aggravante contestata, lo ha condannato alla pena, condizionalmente sospesa, di un anno e due mesi di reclusione, riducendo ad euro 792.223 il valore dei beni e delle somme da confiscare, confermando nel resto;
1.3. ha dichiarato H.R. colpevole dei reati di cui ai capi A) e B) e, esclusa la circostanza aggravante contestata, lo ha condannato alla pena, condizionalmente sospesa, di un anno e venti giorni di reclusione, ha applicato nei suoi confronti le pene accessorie di cui all'art. 12 d.lgs. n. 74 del 2000 e ha ordinato a suo carico la confisca diretta del profitto del reato o di beni per un valore ad esso equivalente determinato nella misura di euro 674.960.
2. Per l'annullamento della sentenza hanno presentato distinti ricorsi tutti gli imputati.
3. H.R. articola cinque motivi.
3.1. Con il primo lamenta la mancata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale e deduce l'inosservanza e l'erronea applicazione dell'art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. Osserva, al riguardo, che la Corte di appello ha operato una diversa valutazione della attendibilità e della portata probatoria delle dichiarazioni rese da A.B., segretaria di T.G., e delle mail a lui inviate solo per conoscenza da quest'ultimo. Aggiunge che, in ogni caso, si trattava di prove decisive per dimostrare la manifesta inconsapevolezza del ricorrente delle condotte fiscali degli altri imputati, l'impermeabilità di questi ultimi a qualsivoglia indicazione o consiglio professionale, il fatto che commercialista del T.G. era altra persona (tal M.S.), prove, dunque, la cui mancata rinnovazione non è stata supportata da motivazione adeguata, congrua e non contraddittoria.
3.2. Con il secondo motivo deduce l'inosservanza e/o l'erronea applicazione dell'art. 3 d.lgs. n. 74 del 2000 e il vizio di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione sul punto.
Quanto alla sussistenza oggettiva e soggettiva del reato osserva:
(i) il fatto è stato accertato a seguito del semplice incrocio dei dati contenuti nel cd. "spesometro" con quelli contabili, dati posti immediatamente a disposizione anche dell'Amministrazione Finanziaria non appena trasmessi telematicamente dal contribuente, con conseguente inidoneità della condotta a trarre in inganno gli organi accertatori; la condotta contestata, sostiene, anziché ostacolare l'accertamento, ha palesemente e chiaramente evidenziato la distonia dei dati, rendendo facilmente rilevabile l'irregolarità;
(ii) la divergenza tra i dati riportati nello "spesometro" e la dichiarazione annuale dell'imposta sul valore aggiunto relativa al medesimo anno di imposta è evidente e tale da escludere la capacità decettiva della condotta che non ha affatto ostacolato l'accertamento della Amministrazione Finanziaria che non è mai stata tratta in inganno con conseguente insussistenza del requisito decettivo strutturale necessario a integrare il reato di cui all'art. 3 cit., ché, anzi, è stata proprio tale divergenza a causare la verifica fiscale a carico delle società coinvolte nelle operazioni commerciali;
(iii) peraltro, le fatture oggetto dei rilievi erano state tutte annotate nei registri contabili, avevano concorso alla formazione del volume di affari nel periodo di imposta di competenza, sono state indicate nel modello di dichiarazione annuale IVA del 2014, hanno determinato un maggior ricavo dichiarato pari ad euro 624.800, le cessioni sono state effettive;
(iv) la G. Costruzioni, non appena rilevata la violazione commessa, si era immediatamente adoperata per la ricerca della provvista necessaria a coprire le irregolarità, effettivamente regolarizzate ai sensi dell'art. 13-bis d.lgs. n. 74 del 2000 mediante presentazione di apposite dichiarazioni integrative e versamento di maggiori imposte, sanzioni e interessi, condotta - questa - del tutto negletta dalla Corte territoriale;
(v) la Corte di appello non ha correttamente inteso il meccanismo della cd. inversione contabile avendone erroneamente escluso l'applicazione tout court al settore dell'edilizia;
(vi) l'elemento psicologico è stato desunto dalla narrativa dell'editto accusatorio senza alcuna prova effettiva del suo contributo concreto, consapevole, seriale e ripetitivo, della sua consapevole e cosciente ispirazione della frode, non essendo sufficiente a tal fine nemmeno la mera esecuzione delle indicazioni del proprio cliente; il comportamento passivo del consulente, inidoneo ad arrecare un contributo causalmente rilevante all'altrui realizzazione del reato, integra mera connivenza non punibile, sicché la mera conoscenza dei fatti non è sufficiente a integrare il concorso penalmente punibile; l'unico elemento di prova è costituito da tre mail inviate da M.B., due delle quali a lui solo per conoscenza e mai riscontrate (a riprova della sua estraneità);
(vii) la D. Servizi - che la Corte di appello ritiene aver consapevolmente contribuito alla realizzazione del reato - non è nemmeno legalmente rappresentata da lui, né egli ne era l'unico commercialista che ne faceva parte.
3.3. Con il terzo motivo deduce l'inosservanza e/o l'erronea applicazione degli artt. 240 cod. pen. e 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000, nonché il vizio di motivazione mancante, contraddittoria e manifestamente illogica in relazione alla disposta confisca pur in presenza di avvenuto pagamento del debito fiscale.
3.4. Con il quarto motivo deduce l'inosservanza e/o l'erronea applicazione degli artt. 12 e 13-bis d.lgs. n. 74 del 2000 e il vizio di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione al diniego della circostanza attenuante di cui all'art. 13-ò/s cit. e alla mancata applicazione delle pene accessorie di cui all'art. 12.
Deduce, al riguardo che il debito relativo al reato di cui al capo B è stato estinto integralmente il 16 luglio 2018, quello relativo al reato di cui al capo A il 4 aprile 2019, prima di essere ammesso al giudizio abbreviato.
4. T.G. e G.A., pur con distinti ricorsi, propongono motivi comuni.
4.1. Con il primo motivo (che riguarda il capo, rectius, punto 6 della sentenza) deducono l'inosservanza o l'erronea applicazione dell'art. 3 d.lgs. n. 74 del 2000, nella versione vigente ragione temporis, nonché dell'art. 6, commi 3 e 4, d.P.R. n. 633 del 1972.
Deducono che nel caso di specie manca la condotta connotata da particolare insidiosità, derivante, con valutazione ex ante, dall'impiego di artifici idonei a ostacolare l'accertamento della falsità contabile, poiché si tratta di mera sotto-fatturazione posto che la semplice violazione degli obblighi di fatturazione e registrazione, pur se finalizzata a evadere le imposte, non è di per sé sufficiente a integrare il delitto di cui all'art. 3 cit., non costituendo un mezzo fraudolento. La discordanza documentale tra i dati inseriti nel cd. "spesometro" (operazioni imponibili con aliquota al 22%) e quelli indicati nella dichiarazione ai fini IVA (ove le medesime operazioni sono state assoggettate al regime di cd. reverse charge) è palese - affermano - e immediatamente riscontrabile. Tutte le fatture oggetto di contestazione erano state annotate nei registri contabili, hanno concorso alla formazione del volume di affari del periodo di imposta di competenza, sono state indicate nella dichiarazione IVA 2014, hanno determinato un maggior ricavo pari ad euro 624.800,00 poi rettificato con specifica dichiarazione del 30 novembre 2019.
Per quanto riguarda le fatture nn. 1/2013, 2/2013, 3/2013, 4/2013, 5/2013, emessa dalla società Costruzioni L. Srl nei confronti di G. Costruzioni Srl, che riguardano la cessione di un immobile, lamentano la mancata applicazione dell'art. 6 d.P.R. n. 633 del 1972 che anticipa al momento della emissione della fattura l'esigibilità dell'imposta altrimenti dovuta all'epoca della sottoscrizione del contratto. Peraltro, affermano, non si è considerato che le fatture, a seguito della modifica delle originarie pattuizioni contrattuali, sono state oggetto di storno e di conseguente emissione di nota di credito (n. 3/2018) regolarmente annotata nel partitario contabile al momento della vendita con conseguente "restituzione" dell'IVA a debito a suo tempo dichiarata (e pagata) dalla Costruzione L. e l'obbligo della G. Costruzioni di restituire all'Erario UVA detratta mediante la liquidazione dell'imposta nel periodo di competenza (2018). La Corte di appello - lamentano - non solo non ha considerato che non vi è stato alcun profitto, ma ha anche ignorato la documentazione prodotta e, aggiungono, alcuna contestazione è mai stata mossa dai verificatori alla Costruzioni L. Srl.
Quanto alle operazioni commerciali indicate nella rubrica, connotate dalla emissione di due diverse fatture a fronte dell'unica operazione, contestano l'affermazione dei Giudici distrettuali secondo i quali ciò costituiva operazione fraudolenta laddove, come già detto, si trattava di ipotesi di sotto-fatturazione o mera violazione degli obblighi di fatturazione poi regolarizzate con l'istituto del ravvedimento operoso per il quale non operano più, oggi, le preclusioni di cui all'art. 13, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000, per effetto delle modifiche introdotte con d.lgs. n. 158 del 2015.
4.2. Con il secondo motivo (che riguarda i punti 7.1, 7.2 e 7.3 della sentenza impugnata), deducono la mancanza di motivazione in ordine alla lamentata insussistenza di indizi gravi, precisi e concordanti in ordine alla loro responsabilità sostenendo che l'imprenditore (di fatto o di diritto che sia), per la notoria mancanza di conoscenza della materia fiscale e tributaria, si affida ad un consulente. La carenza di prova non può essere colmata, sostengono, mediante il ricorso acritico alle presunzioni tributarie contestualmente trascurando i dati di fatto emersi nel corso del processo e, tra questi, la relazione tecnica depositata in primo grado dalla difesa della quale la Corte di appello non fa cenno alcuno. Nè la Corte territoriale motiva sul dolo specifico di evasione non emergendo un complessivo quadro indiziario connotato dai requisiti di gravità, precisione e concordanza che dimostri l'esistenza di un disegno criminoso finalizzato all'evasione di imposta.
4.3. Con il terzo motivo (che riguarda i punti 6, 7.1, 7.2 e 7.3) deducono l'inosservanza dell'art. 129 cod. proc. pen. sotto il profilo dell'omessa declaratoria della prescrizione maturata prima della pronuncia impugnata, decorrendo la prescrizione dalla data della presentazione della dichiarazione e non da quella dell'accertamento del reato.
4.4. Con il quarto motivo (terzo nel ricorso, che riguarda i punti 7.4 e 7.4.2) deducono l'inosservanza della legge penale sotto il profilo della inapplicabilità della confisca ai reati commessi prima della introduzione dell'art. 12 bis d.lgs. n. 74 del 2000. In ogni caso, lamentano che la Corte di appello ha ignorato le definizioni agevolate con l'Agenzia delle Entrate delle società coinvolte e degli stessi imputati nonché i relativi pagamenti, negligendo persino i dissequestri conseguentemente operati. Peraltro, trattandosi di reati prescritti non è applicabile nemmeno l'art. 578-bis cod. proc. pen. perché i reati sono stati commessi prima della sua introduzione nel codice di rito.
4.5. Con il quinto motivo (quarto nel ricorso, che riguarda il punto 6.1) deducono l'inosservanza dell'art. 603, comma 3 bis, cod. proc. pen. non avendo la Corte di appello proceduto alla rinnovazione della istruttoria dibattimentale, pur doverosa in caso di sentenza che li ha per la prima volta condannati per i reati di cui ai capi A e B.
Considerato in diritto
1. E' fondato il ricorso di H.R., sono inammissibili i ricorsi di T.G. e G.A..
2. Si imputa ai ricorrenti di aver presentato, per l'anno di imposta 2014, due distinte dichiarazioni fraudolente, l'una della società G. Costruzioni S.r.l. (capo A), l'altra della società C. S.r.l. (capo B), nelle quali, al fine di evadere le imposte sul valore aggiunto, erano stati indicati elementi attivi inferiori a quelli effettivi, artificiosamente emettendo, per le varie operazioni imponibili indicate nella rubrica e per ciascuna di esse, due fatture diverse, l'una, destinata al cliente, con l'IVA a carico di quest'ultimo, l'altra, quella registrata in contabilità, nella quale l'IVA non veniva indicata riportando la singola fattura l'indicazione del titolo di inversione contabile (cd. ''reverse charge"). Gli imputati sono stati chiamati a rispondere del reato di cui all'art. 3 d.lgs. n. 74 del 2000, il T.G. quale amministratore di fatto di entrambe le società, il G.A. quale amministratore di diritto della sola G. Costruzioni S.r.l., l'H.R. quale consulente, ideatore e coautore della condotta criminosa in quanto commercialista e tenutario della contabilità. Secondo l'impostazione accusatoria, disattesa dal GUP in primo grado ma avallata dalla Corte di appello, la creazione di due diverse fatture in concomitanza di ogni operazione imponibile costituiva il mezzo fraudolento per ostacolare la ricostruzione dell'illecito.
Ad avviso del primo Giudice tale artifizio, assimilabile ad una sottofatturazione o comunque a una mera violazione degli obblighi di fatturazione, era finalizzato ad evitare controlli (all'Amministrazione Finanziaria, infatti, venivano comunicati i dati relativi alle operazioni immobiliari con corretta esposizione dell'IVA) ma non era in grado di ostacolare l'accertamento della falsità contabile, tanto è vero che la Guardia di Finanza, una volta acquisita la documentazione, aveva subito rilevato l'illecito meccanismo contabile.
Secondo la Corte di appello, invece, tale meccanismo integra a tutti gli effetti il mezzo fraudolento richiesto dall'art. 3 d.lgs. n. 74 del 2000, anche nella versione attualmente vigente, in quanto idoneo a ostacolare l'accertamento e a indurre in errore l'amministrazione finanziaria, non potendosi identificare quest'ultima con la Guardia di Finanza, munita di poteri investigativi decisamente più penetranti e che solo all'esito di una approfondita e complessa verifica fiscale ha potuto accertare compiutamente i fatti. Ed invero, annota la sentenza impugnata, «da un lato, tale condotta consentiva alla società che emetteva la fattura l'eliminazione degli alert generati automaticamente dallo spesometro integrato in caso di dati incongruenti, con il conseguente venir meno dei controlli dedicati ed il sicuro incasso dell'IVA versata dal cliente, trattenuta e non versata all'erario; dall'altro, consentiva al cliente di chiedere all'amministrazione finanziaria, così ingannata, e ottenere "tranquillamente" il rimborso dell'IVA».
Il T.G. ed il G.A. rispondono altresì di altri delitti di cui agli artt. 2,4 e 8 d.lgs. n. 74 del 2000 per i quali erano già stati condannati in primo grado.
3. Tanto premesso, devono essere prioritariamente esaminati i motivi attinenti la materiale sussistenza del reato di cui all'art. 3 (secondo motivo del ricorso H.R., primo motivo dei ricorsi T.G.-G.A.).
3.1. L'art. 3 d.lgs. n. 74 del 2000 punisce, attualmente, con la pena della reclusione da tre a otto anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, compiendo operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei a ostacolare l'accertamento e a indurre in errore l'amministrazione finanziaria, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi purché ricorrano congiuntamente le soglie di punibilità indicate alle lettere a e b del primo comma. I commi secondo e terzo stabiliscono, rispettivamente, che il fatto si considera commesso avvalendosi di documenti falsi quando tali documenti sono registrati nelle scritture contabili o sono detenuti a fini di prova nei confronti dell'amministrazione finanziaria (secondo comma) e che non costituiscono mezzi fraudolenti la mera violazione degli obblighi di fatturazione e di annotazione degli elementi attivi nelle scritture contabili o la sola indicazione nelle fatture o nelle annotazioni di elementi attivi inferiori a quelli reali.
3.2. I fatti sono stati commessi però nella vigenza dell'art. 3 prima della sua sostituzione ad opera dell'art. 3 d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158 in vigore dal 22 ottobre 2015. Lo ricordano i ricorrenti che ne traggono argomento per lamentare l'ignoranza della Corte di appello sulla norma da applicare.
Il rilievo è totalmente privo di fondamento, sotto ogni profilo,
3.3. La precedente fattispecie puniva con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, sulla base di una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie e avvalendosi di mezzi fraudolenti idonei a ostacolarne l'accertamento indicava in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi, quando congiuntamente ricorrevano le soglie di punibilità indicate alle lettere a) e b) dell'unico comma.
3.4. La sostituzione e integrale rimodulazione della fattispecie incriminatrice impone il confronto strutturale tra la vecchia e la nuova disciplina onde verificare se vi sia continuità normativa tra di esse e se la condotta contestata costituisse reato nella vigenza della precedente disciplina e di quella attuale (Sez. U, n. 24468 del 26/02/2009, Rizzoli, Rv. 243585 - 01; Sez. U, n. 25887 del 26/03/2003, Giordano, Rv. 224607 - 01; Sez. U, n. 35 del 13/12/2000, Sagone, Rv. 217374 - 01).
3.5. Entrambe le fattispecie delittuose contengono elementi comuni: il dolo specifico di evasione, l'oggetto materiale della condotta (la dichiarazione) e il contenuto della dichiarazione (elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi). La nuova fattispecie ha ampliato l'ambito della punibilità alle dichiarazioni non annuali e all'oggetto delle dichiarazioni, esteso a crediti e ritenute fittizi (estensione oggettiva), nonché a quelle presentate dai sostituti di imposta (estensione soggettiva).
3.6. Le due fattispecie divergono (ma solo apparentemente) quanto alle modalità della condotta: nella versione previgente occorrevano, congiuntamente, la falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie e l'avvalimento di mezzi fraudolenti idonei a ostacolarne l'accertamento (l'accertamento, cioè, della falsità contabile); nella versione attuale le modalità esecutive diventano due, alternative fra loro: (i) compiere operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente; (ii) avvalersi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei a ostacolare l'accertamento e ad indurre in errore l'amministrazione finanziaria.
3.7. Appare evidente, nella grammatica del legislatore, che il documento falso costituisce "mezzo fraudolento" tipico alternativo agli altri, sicché mentre il documento falso non richiede accertamenti sulla sua natura fraudolenta (essendo sufficiente accertarne la falsità, materiale o ideologica che sia), per gli altri "mezzi" tale natura dovrà essere accertata dal giudice tenuto conto della definizione tipica di "mezzi fraudolenti" introdotta dalla lettera g-ter, dell'art. 1, d.lgs. n. 74 del 2000, aggiunta dall'art. 1, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 158 del 2015, secondo cui si intendono per tali le «condotte artificiose attive, nonché quelle omissive realizzate in violazione di uno specifico obbligo giuridico, che determinano una falsa rappresentazione della realtà».
3.8. Lo stesso legislatore del 2015 ha ritenuto di dover precisare che non costituiscono "mezzi fraudolenti" la mera violazione degli obblighi di fatturazione e di annotazione degli elementi attivi nelle scritture contabili o la sola indicazione nelle fatture o nelle annotazioni di elementi attivi inferiori a quelli reali (art. 3, comma 3, d.lgs. n. 74 del 2000, come sostituito dall'art. 3, d.lgs. n. 158 del 2015). La cd. sottofatturazione, in buona sostanza, non costituisce, per legge, "mezzo fraudolento" penalmente rilevante ai fini della integrazione del delitto di cui all'art. 3 cit.
3.9. Nella versione vigente, dunque, la falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie non costituisce più elemento strutturale esclusivo della fattispecie, ciò al dichiarato scopo di estendere il precetto anche a chi non è obbligato alla loro tenuta. La falsità nelle scritture contabili costituisce tuttora elemento tipico della fattispecie (tuttavia alternativo alle altre possibili modalità esecutive del reato) come quando, per esempio, i documenti falsi vengono registrati nelle scritture contabili obbligatorie (art. 3, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000). La versione vigente, dunque, estende la punizione a soggetti e a condotte (il compimento di operazioni simulate e l'avvalersi di documenti falsi) la cui penale rilevanza non è più legata alla concorrente falsificazione delle scritture contabili, laddove in passato lo era.
3.10. Conseguenza della modifica del requisito della falsità nelle scritture contabili da modalità esclusiva tipica di realizzazione della condotta a modalità (pur sempre tipica) ma alternativa di consumazione del reato è l'ampliamento della idoneità della condotta a ostacolare non solo (e non necessariamente) la falsità nelle scritture contabili ma anche l'accertamento dell'imponibile e, dunque, dell'imposta effettivamente dovuta (secondo quanto prevede l'art. 1, lett. f, d.lgs. n. 74 del 2000).
3.11. La definizione tipica dei "mezzi fraudolenti" ha indotto il legislatore a meglio definirne la capacità decettiva richiedendone l'idoneità a indurre in errore l'amministrazione finanziaria, correndosi altrimenti il rischio di punire condotte concretamente inoffensive prive di attitudine a mettere in pericolo o ledere il bene tutelato dall'art. 3 d.lgs. n. 74 del 2000. Il requisito della idoneità ingannatoria recupera, dunque, sul piano definitorio, quel "quid pluris" decettivo che la definizione tipica di "mezzi fraudolenti" potrebbe sembrare non richiedere.
3.12. Vigente la precedente versione della norma, la giurisprudenza di legittimità aveva costantemente affermato che per la realizzazione del mezzo fraudolento è necessaria la sussistenza di un "quid pluris" rispetto alla falsa rappresentazione offerta nelle scritture contabili obbligatorie e, cioè, una condotta connotata da particolare insidiosità derivante dall'impiego di artifici idonei ad ostacolare l'accertamento della falsità contabile (Sez. 5, n. 36859 del 16/01/2013, Mainardi, Rv. 258041 - 01; Sez. 3, n. 2292 del 22/11/2012, dep. 2013, Stecca, Rv. 254136 - 01, che ha ritenuto responsabile del reato il socio accomandatario di una società che aveva mistificato il vero ammontare dei ricavi ottenuti da operazioni di vendita attraverso l'omessa registrazione dei contratti preliminari e l'incameramento di una parte del prezzo in contanti). Allo stesso modo, si è ritenuto che integra il reato di cui all'art. 3, comma 1, d.lgs. n.74 del 2000, la condotta di chi registra in contabilità una fattura recante lo stesso numero e la stessa data di altra fattura di importo decisamente superiore, che invece non viene annotata, trattandosi di comportamento insidioso ed ingannatorio, idoneo ad ostacolare l'accertamento dell'imponibile ed a indurre in errore l'amministrazione finanziaria (Sez. 3, n. 37127 del 29/03/2017, Capuano, Rv. 271300 - 01). Analogamente si è ritenuto che l'impiego del cd. "regime del margine" nella consapevolezza dell'assenza dei presupposti normativi, realizzato mediante l'apposizione sulle fatture della dicitura prescritta dalla legge, con la conseguente annotazione di tali documenti contabili e delle relative operazioni nei registri fiscali, integra il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici previsto dall'art. 3 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, costituendo un mezzo fraudolento idoneo ad ostacolare l'accertamento e ad indurre in errore l'amministrazione finanziaria (Sez. 3, n. 42147 del 15/07/2019, Reale, Rv. 277984 - 02, secondo cui la scorretta applicazione del c.d. "regime del margine", in caso di insussistenza dei presupposti richiesti dalla legge, integra uno dei "mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l'accertamento e ad indurre l'Amministrazione in errore", quando è realizzata mediante l'apposizione sulle fatture della dicitura "operazione in regime del margine ex D.L. 23 febbraio 1995 n. 41", la quale, richiesta dall'art. 21, comma 6, lett. d) del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 e successive modifiche, giustifica la mancata indicazione dell'ammontare dell'imposta separatamente dal corrispettivo nonché la conseguente annotazione di tali documenti contabili e delle relative operazioni nei registri previsti dalla legge, da eseguire tenendo conto del regime fiscale applicato. Infatti, in questi casi, le fatture recano un'annotazione che qualifica l'operazione economica in modo non corretto, prefigurando l'esistenza di presupposti in realtà insussistenti, e sono inoltre annotate nei registri in considerazione del regime giuridico indebitamente applicato, cosi venendo confermata la presenza degli indicati presupposti).
3.13. Vi è dunque continuità normativa tra la precedente e la vigente versione del reato di cui all'art. 3, d.lgs. n. 74 del 2000, costituendo, quella sostituita, una sotto-fattispecie della nuova ipotesi di reato che continua ad essere caratterizzato da struttura bifasica che presuppone la compilazione e presentazione di una dichiarazione mendace e la realizzazione di una attività ingannatoria prodromica (Sez. 3, n. 15500 del 15/02/2019, Valente, Rv. 275902 - 02).
3.14. I ricorrenti dubitano che la condotta posta in essere possa essere considerata mezzo fraudolento idoneo a ostacolare l'accertamento e a indurre in errore l'amministrazione finanziaria e ciò in considerazione: a) della facilità con cui la Guardia di Finanza ha accertato il meccanismo fraudolento; b) del fatto che la condotta contestata ha, per assurdo, agevolato, piuttosto che ostacolato, l'accertamento fiscale; c) del fatto che, come già osservato dal primo giudice, si tratta di semplice violazione degli obblighi di fatturazione e registrazione.
3.15. La deduzione, alla luce delle considerazioni che precedono, è manifestamente infondata.
3.16. Nel caso di specie, la condotta prodromica alla presentazione delle dichiarazioni è stata posta in essere documentando la medesima operazione imponibile mediante l'emissione di due fatture diverse aventi la stessa numerazione, l'una, recante l'indicazione della applicazione del regime di inversione contabile, registrata nelle scritture contabili, l'altra, recante l'IVA a carico dell'acquirente, consegnata a quest'ultimo. In questo modo, la società venditrice ha ottenuto dall'acquirente un corrispettivo maggiore di quello indicato in contabilità (al lordo dell'IVA non dichiarata) contestualmente facendo apparire l'operazione come esente da imposta. La documentazione dell'operazione, in ultima analisi, è stata dolosamente predisposta per occultare il fatto generatore dell'obbligazione tributaria a carico della venditrice.
3.17. Non si verte, dunque, in alcuna delle ipotesi previste dal terzo comma dall'art. 3 d.lgs. n. 74 del 2000 (mera violazione degli obblighi di fatturazione e di annotazione degli elementi attivi nelle scritture contabili o indicazione nelle fatture o nelle annotazioni di elementi attivi inferiori a quelli reali) perché l'intero meccanismo artificioso era finalizzato alla falsa rappresentazione della realtà e, in particolare, a escludere l'esistenza di fatti giuridici generatori dell'imposta e dell'obbligo, a carico della società venditrice, di dichiararla e pagarla.
3.18. Si è dedotta la legittima applicazione dell'istituto di inversione contabile.
3.19. Il rilievo è generico e manifestamente infondato.
3.20. Secondo il principio della "inversione contabile", il cd. contribuente di fatto dell'imposta sul valore aggiunto si trasforma nel contribuente di diritto, nel soggetto passivo di imposta.
3.21. In termini generali, l'imposta sul valore aggiunto è dovuta dai soggetti che effettuano le cessioni di beni o le prestazioni di servizi imponibili (art. 17, primo comma, d.P.R. n. 633 del 1972). Soggetto passivo, dunque, è l'imprenditore che cede il bene o eroga il servizio, traducendosi l'imposta in una voce del corrispettivo destinato ad essere pagato dall'acquirente o dal fruitore del servizio (che per questo motivo definito in dottrina come "contribuente di fatto"). Per determinate operazioni, però, il legislatore prevede che l'imposta debba (o possa) essere pagata direttamente dal cessionario o dal fruitore del servizio. In questi casi, la fattura deve essere emessa senza addebito di imposta e con l'osservanza delle indicazioni contenute nell'art. 21 d.P.R. n. 633, cit., con l'annotazione "inversione contabile" e l'eventuale indicazione dell'art. 17. Il cessionario/fruitore del servizio deve a sua volta integrare la fattura con l'indicazione dell'aliquota e della relativa imposta e deve annotarla nel registro delle fatture o dei corrispettivi nonché, ai fini della detrazione, nel registro di cui all'art. 25. La fattura, dunque, è unica. L'inversione contabile (o reverse charge) si applica alle operazioni imponibili indicate dall'art. 17, d.P.R. n. 633, cit., ed in particolare, per quanto qui rileva, alle cessioni di fabbricati di cui al comma sesto, lett. a-bis).
3.22. Si tratta delle vendite di fabbricati abitativi effettuate dalle imprese di costruzione dopo cinque anni dalla data di ultimazione della costruzione stessa o di uno degli interventi di ripristino di cui all'art. 3, comma 1, lett. c), d) ed f), d.P.R. n. 380 del 2001, per i quali l'impresa cedente opti per l'imposizione, nonché delle vendite di fabbricati strumentali che per le loro caratteristiche non sono suscettibili di diversa utilizzazione senza radicali trasformazioni effettuate dopo cinque anni dalla data di ultimazione della costruzione stessa o di uno degli interventi di ripristino di cui all'art. 3, comma 1, lett. c), d) ed f), d.P.R. n. 380 del 2001, e per i quali l'impresa cedente opti per l'imposizione. Per queste operazioni, normalmente esenti da imposta (art. 10, comma 1, nn. 8 bis e 8 ter, d.P.R. n. 633 del 1972), l'opzione per l'imposizione comporta la traslazione dell'obbligo del pagamento dell'imposta a carico del cessionario il quale diventa soggetto passivo di imposta.
3.23. H.R. ne fa argomento difensivo postulando la legittimità dell'inversione contabile, non considerando, però, che la sua applicazione presuppone la convergenza di circostanze fattuali che egli nemmeno deduce, non essendo condivisibile l'affermazione che tale principio si applichi al settore edile tout court.
3.24. Peraltro, nel caso di specie, costituisce considerazione decisiva il fatto che l'applicazione dell'inversione contabile è esclusa dalla emissione della fattura ordinaria nei confronti delle società acquirenti, tanto meno di due fatture di diverso contenuto a fronte della medesima operazione.
3.25. Il rilievo, dunque, è generico, perché non è sufficiente reclamare la astratta applicabilità dell'istituto al settore edile senza contestualmente specificare i requisiti che lo rendono concretamente applicabile alle transazioni oggetto di doppia fatturazione; è, altresì, manifestamente infondato perché, ai fini della applicazione dell'inversione contabile, costituiscono oneri specifici del cedente l'immobile: a) dichiarare nell'atto di vendita l'opzione per tale regime (art. 17, comma sesto, lett. a bis, d.P.R. n. 633 del 1972); b) emettere fattura recante l'annotazione "inversione contabile" che deve essere integrata dal cessionario.
3.26. Nessuno di tali oneri è stato rispettato.
3.27. Quanto alla idoneità del mezzo fraudolento a ostacolare l'accertamento e a indurre in errore l'amministrazione finanziaria, il Collegio ribadisce che tale idoneità deve essere accertata "ex ante" e non "ex post", pena l'irriducibilità logica dell'elevare a elemento costitutivo astratto della fattispecie penale un elemento che, in concreto, non si è rivelato tale. Se l'idoneità del mezzo fraudolento dovesse essere accertata "ex post" la semplice scoperta del reato renderebbe insussistente il fatto per essersi rivelato, appunto, non idoneo il mezzo fraudolento. Con l'assurda conseguenza di un reato che non sussiste per il sol fatto di essere stato accertato. Ciò che conta, dunque, è l'attitudine del mezzo fraudolento a ostacolare l'accertamento e a ingannare l'amministrazione finanziaria in ordine alle componenti che concorrono alla determinazione dell'imponibile e/o dell'imposta (Sez. 3, n. 7230 del 20/10/2022, dep. 2023, Hu Chune, non mass.; Sez. 2, n. 20785 del 18/04/2002, Caramia, non mass, sul punto)
3.28. I ricorrenti sostengono che la capacità decettiva della condotta è esclusa in radice in considerazione della estrema facilità con cui il meccanismo è stato disvelato e del fatto che lo "spesometro" e i dati contabili della società dichiarante sono immediatamente a disposizione dell'Amministrazione Finanziaria. Sicché - affermano - la condotta contestata, anziché ostacolare l'accertamento, ha palesemente e chiaramente evidenziato la distonia dei dati, rendendo facilmente rilevabile l'irregolarità.
3.29. Tale ragionamento, però, è uguale e contrario a quello della Corte di appello secondo cui, invece, proprio la trasmissione dello spesometro integrato (contenente i dati corretti) costituiva elemento idoneo a distogliere l'attenzione da quelli falsi contenuti nella contabilità interna della società.
3.30. Il che esclude la manifesta illogicità del ragionamento della Corte di appello, trasformando la deduzione difensiva nella richiesta di una diversa (e alternativa) valutazione del dato probatorio in questione.
3.31. E' un dato di fatto che il reato è stato accertato a seguito di una verifica fiscale della Guardia di Finanza che non aveva tratto origine dal confronto tra i dati dello spesometro integrato e le dichiarazioni annuali, essendo tale discrasia emersa solo a seguito degli accertamenti e delle indagini della Guardia di Finanza stessa che avevano richiesto anche l'esecuzione di perquisizioni locali e la acquisizione di dati contenuti nei dispositivi informatici che avevano consentito di accertare il meccanismo fraudolento in tutta la sua ampiezza e le sue implicazioni (comprese le modalità fraudolente con cui venivano abbattuti i debiti IVA oggetto delle comunicazioni e delle liquidazioni periodiche).
3.32. Il ragionamento difensivo è dunque smentito dai fatti che corroborano l'argomento logico di cui al § 3.27 che conduce ad un'unica conclusione: l'idoneità del mezzo a ostacolare l'accertamento e a indurre in errore l'amministrazione finanziaria è esclusa solo quando la fraudolenza sia ictu oculi evidente e non richieda alcun tipo di accertamento per essere disvelata. L'accertamento della natura fraudolenta del mezzo e della sua duplice idoneità è affare del giudice di merito la cui conclusioni possono essere sindacate in sede di legittimità nei soli casi stabiliti dall'art. 606, comma 1, cod. proc. pen.
3.33. Si aggiunga che l'incrocio dei dati contenuti nella comunicazione dei dati e delle fatture emesse e ricevute, a suo tempo imposta ai soggetti passivi IVA dall'art. 21 d.l. n. 78 del 2010, convertito con modificazioni dalla legge n. 122 del 2010, con quelli rivenienti dalla dichiarazione annuale ai fini IVA costituisce eventualità tutt'altro che certa perché dipende da un fattore casuale: l'effettivo controllo delle dichiarazioni annuali che, come noto, viene effettuato a campione e non su tutte le dichiarazioni presentate da ciascun contribuente.
3.34. Nel resto, le deduzioni difensive oggetto del primo motivo dei ricorsi di G.A. e T.G. sono inammissibilmente fattuali poiché fanno specifico riferimento al contenuto di prove delle quali viene sollecitata una diversa lettura in questa sede ma delle quali non viene dedotto il travisamento.
4. Possono ora essere esaminati il primo motivo del ricorso di H.R. e l'ultimo motivo dei ricorsi T.G./G.A..
4.1. Va preliminarmente ricordato l'indirizzo secondo il quale la regola processuale sulla rinnovazione dell'Istruttoria dibattimentale di cui all'art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., come modificato dall'art. 34, comma 1, lett. i), n. 1), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, in vigore a far data dal 30 dicembre 2022, trova immediata applicazione nel giudizio di appello conseguente allo svolgimento di giudizio abbreviato, in assenza di disposizioni transitorie e in base al principio "tempus regit actum"(Sez. 5, n. 17965 del 14/02/2024, Coveri, Rv. 286490 - 01, che ha evidenziato che tale ultimo principio va riferito non al momento della presentazione della impugnazione, ma al tempo in cui l'atto del procedimento, ricompreso nel giudizio di impugnazione, viene ad essere compiuto; Sez. 3, n. 10691 del 10/01/2024, S., Rv. 286089 - 01; nel senso che il giudice di appello che riforma una decisione di proscioglimento assunta in esito a giudizio abbreviato, in base al novellato art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. e in forza dei dettami della recente giurisprudenza della Corte EDU, non è tenuto alla rinnovazione della prova dichiarativa, Sez. 2, n. 10401 del 13/02/2024, Albanese, Rv. 286100 - 01).
4.2. I ricorrenti se ne dolgono, paventando la illegittimità della applicazione retroattiva di una norma che limita il diritto alla prova. Nel caso di specie, tuttavia, trattandosi di giudizio abbreviato condizionato alla assunzione di prove documentali, la Corte di appello non era in ogni caso tenuta alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale.
4.3. Da tempo la Corte di cassazione afferma che la decisione del giudice di appello, che comporti la totale riforma della sentenza di primo grado impone la dimostrazione dell'incompletezza o della non correttezza ovvero dell'incoerenza delle relative argomentazioni con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da corretta, completa e convincente motivazione che, sovrapponendosi a tutto campo a quella del primo giudice, senza lasciare spazio alcuno, dia ragione delle scelte operate e del privilegio accordato ad elementi di prova diversi o diversamente valutati. Ciò sul rilievo che la possibile spiegazione alternativa di un fatto non attiene al mero possibilismo, come tale esercitazione astratta del ragionamento disancorata dalla realtà processuale, ma a specifici dati fattuali che rendano verosimile la conclusione di un "iter" logico cui si perviene senza affermazioni apodittiche (Sez. 1, n. 1381 del 16/12/1994, Felice, Rv. 201487; Sez. 2, n. 15756 del 12/12/2002, Contrada, Rv. 225564). Sicché il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato e la insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti ivi contenuti (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679; Sez. 5, n. 8361 del 17/01/2013, Rastegar, Rv. 254638; Sez. 5, n. 42033 del 17/10/2008, Pappalardo, Rv. 242330).
4.4. Sennonché, nel caso di specie, immutato il quadro probatorio, la Corte di appello si è limitata ad una diversa valutazione giuridica dei medesimi fatti posti dal Tribunale a fondamento della pronuncia assolutoria sostanzialmente stigmatizzando l'errore di diritto nel quale era incorso il primo Giudice, né vi è stata, da parte del Pubblico ministero, alcuna sollecitazione, in appello, ad una diversa valutazione delle prove dichiarative.
4.5. Deve essere ribadito che il giudice d'appello che procede alla "reformatio in peius" della sentenza assolutoria di primo grado, ai sensi dell'art. 603, comma 3-bis cod. proc. pen., non è tenuto alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, nel caso in cui si limiti a una diversa valutazione in termini giuridici di circostanze di fatto non controverse, senza porre in discussione le premesse fattuali della decisione riformata (Sez. 2, n. 3129 del 30/11/2023, dep. 2024, Casoppero, Rv. 285826 - 01; Sez. 4, n. 31541 del 22/06/2023, Lazzari, Rv. 284860 - 01; Sez. 3, n. 973 del 28/11/2018, dep. 2019, S., Rv. 274571 - 01).
4.6. La Corte di appello, in ultima analisi, si è limitata a correggere l'errore di diritto nel quale è incorso il Tribunale facendo buon governo delle considerazioni e dei principi affermati al paragrafo che precede.
5. Il secondo motivo dei ricorsi T.G./G.A..
5.1. Il motivo è assolutamente generico e basato su affermazioni apodittiche e autoreferenziali come quella che vuole l'imprenditore (e dunque i ricorrenti) persone naturalmente prive di cultura fiscale e tributaria che necessita per il suo agire quotidiano del supporto di commercialisti.
Si tratta di affermazione che non tiene nel dovuto conto la circostanza che soggetto passivo dell'obbligazione tributaria (e dunque direttamente tenuto all'osservanza della norma) è il contribuente (non il suo consulente) e che nei casi di emissione di fatture per operazioni inesistenti e/o di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti è necessaria la consapevolezza della inesistenza oggettiva delle prestazioni ovvero della loro riferibilità a persone diverse dall'emittente e, dunque, di circostanze di fatto che riguardando direttamente l'autonomia negoziale dell'imprenditore non si può dire che siano da lui ignorate perché privo delle competenze in materia fiscale.
La Corte di appello ha chiaramente indicato, per ogni capo di imputazione (C, D, E, F, G, H, I, J), le specifiche ragioni della inesistenza delle prestazioni oggetto delle fatture indicate nella rubrica con il richiamo a prove e argomenti, volti a disattendere i rilievi difensivi anche in punto di dolo specifico, completamente negletti dai ricorrenti. Quando la prova dell'inesistenza della prestazione venga desunta dalla mancanza della documentazione giustificativa e/ o dal mancato pagamento del corrispettivo o in base ad altri elementi indiziari legittimamente valutabili dal giudice ai sensi dell'art. 192 cod. proc. pen., è onere dell'imputato indicare gli elementi in grado di dimostrare l'effettività della prestazione e la sua riferibilità ai soggetti indicati nella fattura o comunque introdurre elementi in grado di rendere ragionevole il dubbio.
I ricorrenti si limitano a dedurre (del tutto infondatamente) la mancanza di motivazione senza ulteriormente indicare altri profili che vizierebbero la motivazione stessa nella ricostruzione del fatto e nel superamento delle tesi difensive, compito - questo - che non può essere affidato alla Corte di cassazione cui non spetta di ricercare nelle pieghe della motivazione vizi non specificamente dedotti.
5. Il terzo motivo è anch'esso manifestamente infondato.
I ricorrenti dimenticano che i termini di prescrizione per i reati di cui agli articoli da 2 a 10 del d.lgs. n. 74 del 2000, consumati, come nel caso di specie, dopo il 17 settembre 2011, sono stati elevati di un terzo ai sensi del comma 1 bis dell'art. 17 d.lgs. n. 74, cit., aggiunto dall'art. 2, comma 36 vicies semel, d.l. 13 agosto 2011 convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, sicché il termine ordinario di prescrizione è di otto anni, aumentabile a dieci ai sensi dell'art. 161 cod. pen.
6. Il quarto motivo è manifestamente infondato.
6.1. Premesso che, tenuto conto di quanto affermato al paragrafo che precede e dei periodi di sospensione del dibattimento (204 giorni), nessuno dei reati per i quali i ricorrenti hanno riportato condanna era prescritto in appello, va ricordato che sussiste continuità normativa - e non si pone pertanto alcuna questione di diritto intertemporale - tra l'art. 12-bis, comma secondo, D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74 (introdotto dal D.Lgs. 24 settembre 2015 n. 158), che prevede la confisca per equivalente dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato e la fattispecie prevista dall'art. 322 ter cod. pen., richiamato dall'art. 1, comma 143, I. 24 dicembre 2007, n. 244, abrogata dall'art. 14 del D.Lgs. n. 158 del 2015 (Sez. 3, n. 35226 del 16/06/2016, D'Agapito, Rv. 267764 - 01; nello stesso senso, Sez. 3, n. 50338 del 22/09/2016, Lombardo, Rv. 268386 - 01, secondo cui, in materia di reati tributari, la confisca, anche per equivalente, dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo di uno dei delitti previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, deve essere sempre disposta nel caso di condanna o di sentenza di applicazione concordata della pena, stante l'identità della lettera e la piena continuità normativa tra la disposizione di cui all'art. 12-bis, comma secondo, del predetto D.Lgs. (introdotta dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158), e la previgente fattispecie prevista dall'art. 322-ter cod. pen., richiamato dall'art. 1, comma 143, l. 24 dicembre 2007, n. 244, abrogata dall'art. 14 del citato D.Lgs. n. 158 del 2015).
6.2. Non vi è stata, di conseguenza, alcuna applicazione retroattiva dell'art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000 essendo stata la confisca per equivalente legittimamente disposta.
6.3. Nel resto, le deduzioni difensive relative alla estinzione del debito tributario non possono essere scrutinate in questa sede basandosi su aspetti di fatto che non sono mai stati dedotti in appello (ove si questionava della assenza di un profitto confiscabile e della necessità di procedere preliminarmente alla confisca diretta a danno delle società, ritenute, con motivazione non sindacata, mero schermo degli imputati).
7. Sono fondati e assorbenti i rilievi di H.R. in ordine alla propria consapevole partecipazione ai reati di cui ai capi A e B della rubrica (secondo motivo).
7.1. La rubrica imputa al ricorrente di aver concorso (insieme con due colleghi di studio separatamente giudicati) nel reato di cui all'art. 3 d.lgs. n. 74 del 2000 in qualità di consulente, ideatore e co-auture delle condotte in quanto commercialista e tenutario della contabilità delle società riconducibili al T.G., nell'ambito dell'attività professionale svolta all'interno della "D. Servizi S.r.l.".
7.2. Il Tribunale, avendo escluso la materiale sussistenza del reato, non ha affrontato la questione relativa alla responsabilità a titolo concorsuale di H.R..
7.3. La Corte di appello, dato atto che le dichiarazioni fraudolente erano state trasmesse dalla "D. Servizi S.r.l." (il fatto è incontestato, ma non è specificato da chi), ha ritenuto la penale responsabilità del ricorrente indicando, a spiegazione della propria decisione, tre e-mail inviategli dalla moglie e collega, M.B.. Le prime due (del 28 ottobre e del 24 novembre 2014) erano state inviate a H.R. per conoscenza e con essa la M.B. chiedeva (ad altri interlocutori) istruzioni in conseguenza del fatto che le fatture inizialmente emesse con regime di reverse charge erano state pagate dal cliente per intero, IVA compresa; la terza, inviata personalmente ed esclusivamente al marito l'8 luglio 2015, conteneva il seguente testo: (OMISSIS). Nessuna delle tre e-mail è stata riscontrata dal ricorrente.
7.4. Si tratta, afferma la Corte, «di comunicazioni che comportano la piena conoscenza da parte del destinatario del modus operandi oggetto di contestazione e il suo evidente coinvolgimento in esso» (pag. 76). Tale conclusione - secondo i Giudici distrettuali - non può essere messa in discussione, né sminuita dal ruolo "autoritario" esercitato da T.G. «nel rapporto con i commercialisti, cosi come emerge segnatamente nella mail nella quale costui, rispondendo ad altra mail dove la M.B. asserisce che "la giostra non funziona più", replica: "(OMISSIS) (pag. 76). E' certo, dunque, che la D. Servizi prestò consapevolmente il suo determinante apporto tecnico alla consumazione dei reati di cui all'art. 3 d.lgs. n. 74 del 2000.
7.5. Né, prosegue la Corte di appello, il ruolo del ricorrente è escluso dalla figura del fondatore e memoria storica della D. Servizi, A.R. (deceduto nel 2018), il quale, pur curando i rapporti con i clienti e prestando consulenza economica e fiscale, non aveva mai eclissato le professionalità dei componenti dello studio con i quali T.G. aveva rapporti con pari grado di familiarità.
6. Osserva il Collegio che la mera conoscenza dell'altrui attività illecita non è certamente sufficiente a integrare il concorso del professionista nel reato tributario, nemmeno se lo studio professionale di appartenenza curi la contabilità del contribuente e svolga attività di consulenza in suo favore.
6. Un termini generali, la distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel reato commesso da altro soggetto va individuata nel fatto che la prima postula che l'agente mantenga un comportamento meramente passivo, inidoneo ad apportare alcun contributo alla realizzazione del reato, mentre il secondo richiede un contributo partecipativo positivo - morale o materiale - all'altrui condotta criminosa, che si realizza anche solo assicurando all'altro concorrente lo stimolo all'azione criminosa o un maggiore senso di sicurezza, rendendo in tal modo palese una chiara adesione alla condotta delittuosa (Sez. 3, n. 2805 del 22/03/2013, dep. 2014, Grosu, Rv. 258953 - 01; Sez. 4, n. 4055 del 12/12/2013, Benocci, Rv. 258186 - 01; Sez. 6, n. 47562 del 29/10/2013, Spinelli, Rv. 257465 - 01; Sez. 1, n. 15023 del 14/02/2006, Rv. 234128 - 01).
7.7. Nel caso di specie, trattandosi di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici di cui all'art. 3 d.lgs. n 74 del 2000, reato che, pur caratterizzato - come detto - da struttura bifasica, si perfeziona nel momento della presentazione della dichiarazione, il concorso del commercialista/consulente fiscale del contribuente può assumere varie forme e consistere nella materiale realizzazione anche di una sola frazione della fattispecie tipica (compiere una delle operazioni simulate, registrare in contabilità la documentazione falsa o detenerla a fini di prova, porre in essere uno dei mezzi fraudolenti idonei a ostacolare l'accertamento o trarre in inganno l'amministrazione finanziaria, trasmettere materialmente la dichiarazione) oppure nel fornire consigli o suggerimenti sui mezzi giuridici idonei a perseguire il risultato o quando la consumazione del reato attui l'accordo preso con il suo autore materiale oppure ancora nel compiere attività dirette a garantire l'impunità o a favorire o rafforzare, con il proprio ausilio o con le proprie preventive assicurazioni, l'altrui proposito criminoso. In tutti questi casi occorre, naturalmente, che il correo ponga in essere la sua frazione di condotta nella piena consapevolezza di contribuire materialmente al complessivo perfezionamento del reato e al perseguimento del fine di evasione.
7.8. Nel caso di specie, il ragionamento della Corte di appello è in parte insufficiente, in parte manifestamente illogico.
7.9. E' insufficiente, perché l'essere mero destinatario di mail dalle quali si potrebbe desumere che il contribuente assistito dallo studio di appartenenza ponga in essere manovre fraudolente per evadere le imposte dimostra, al più, la conoscenza di tali manovre, non di certo il concorso nel reato; è manifestamente illogico perché la Corte di appello sembra trarne la conclusione che siccome tutto lo studio professionale parrebbe coinvolto negli affari illeciti del cliente allora qualunque commercialista di quello stesso studio sarebbe automaticamente complice.
7.10. Ora, per quanto si possa dire che il dominus delle società decidesse come "far girare la giostra" e che egli si aspettava la "giusta collaborazione", non se ne potrebbe di certo trarre la conseguenza che il ricorrente avesse preso parte agli accordi, che ne attuasse consapevolmente gli scopi, che avesse concorso alla loro consumazione, non essendo chiaro nemmeno quale ruolo concreto avesse disimpegnato H.R. nella complessiva vicenda (non è chiaro nemmeno se avesse presentato una delle dichiarazioni incriminate nella piena consapevolezza della integrazione, sul piano oggettivo, della fattispecie penale e del fine illecito perseguito dal contribuente).
7.11. La sentenza impugnata deve di conseguenza essere annullata nei confronti di H.R. con rinvio alla Corte di appello di Trento, Sezione distaccata di Bolzano, per nuovo giudizio.
8. Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi di T.G. e G.A. consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., essendo essa ascrivibile a colpa dei ricorrenti (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l'onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente nella misura di € 3.000,00.
Il Collegio intende in tal modo esercitare la facoltà, introdotta dall'art. 1, comma 64, legge n. 103 del 2017, di aumentare, oltre il massimo edittale, la sanzione prevista dall'art. 616 cod. proc. pen. in caso di inammissibilità del ricorso considerate le ragioni della inammissibilità stessa come sopra indicate.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di H.R. con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Trento, Sez. dist. di Bolzano.
Dichiara inammissibili i ricorsi di T.G. e G.A. e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.