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Avvocato ha "comportamento lesivo della integrità professionale": si può dire (Cass. 61/21)

4 gennaio 2021, Cassazione penale

Il diritto di critica, rappresentando l’esternazione di un’opinione relativamente a una condotta, ovvero a un’affermazione altrui, si inserisce nell’ambito della libertà di manifestazione del pensiero, garantita dall’art. 21 della Carta costituzionale e dall’art. 10 della Convenzione EDU. Proprio in ragione della sua natura di diritto di libertà, esso può essere evocato quale scriminate, ai sensi dell’art. 51 c.p., rispetto al reato di diffamazione, purché venga esercitato nel rispetto dei limiti della veridicità dei fatti, della pertinenza degli argomenti e della continenza espressiva.

La nozione di "critica" rimanda non solo all’area dei rilievi problematici, ma, anche e soprattutto, a quella della disputa e della contrapposizione, oltre che della disapprovazione e del biasimo anche con toni aspri e taglienti.

 

 

Corte di Cassazione

sez. V Penale

sentenza 26 ottobre 2020 – 4 gennaio 2021, n. 61
Presidente Catena – Relatore Belmonte

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza impugnata il Giudice di pace di Bari ha dichiarato non dovesi procedere nei confronti di R.D. perché il fatto non costituisce reato, in quanto espressione del diritto di critica, con riguardo alla diffamazione commessa, mediante l’inoltro di una segnalazione disciplinare al C.O.A. di quella stessa città, nei confronti dell’avvocato C.S. , nella quale lo denunciava di avere "toccato il fondo con argomenti infantili", di avere "tenuto un comportamento lesivo dell’integrità professionale", e di "non rispettare le basilari regole di vita, ancor prima che giuridiche".

2. Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione la parte civile denunciando erronea applicazione dell’art. 595 c.p., essendo ravvisabile nello scritto incriminato un attacco gratuito alla reputazione della persona offesa, secondo il richiamato orientamento della giurisprudenza di legittimità.

Considerato in diritto

1. Premessa la diretta ricorribilità in cassazione della parte civile avverso la sentenza del giudice di Pace, ai sensi del D.Lgs. n. 264 del 2000, artt. 36 e 38, deve essere dichiarata l’inammissibilità del ricorso perché manifestamente infondato.

2. Al riguardo, è opportuno considerare che il diritto di critica, rappresentando l’esternazione di un’opinione relativamente a una condotta, ovvero a un’affermazione altrui, si inserisce nell’ambito della libertà di manifestazione del pensiero, garantita dall’art. 21 della Carta costituzionale e dall’art. 10 della Convenzione EDU. Proprio in ragione della sua natura di diritto di libertà, esso può essere evocato quale scriminate, ai sensi dell’art. 51 c.p., rispetto al reato di diffamazione, purché venga esercitato nel rispetto dei limiti della veridicità dei fatti, della pertinenza degli argomenti e della continenza espressiva.

2.1. Deve allora ricordarsi, con riferimento alla veridicità dei fatti oggetto di critica, che quest’ultima, a differenza della cronaca, del resoconto, della mera denunzia, concretizzandosi nella manifestazione di un’opinione meramente soggettiva (di un giudizio valutativo), non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva e asettica (cfr. ex multis Sez. 5, n. 25518 del 26/9/2016, Volpe, Rv. 270284; Sez. 5, n. 49570 del 23/9/2014, Natuzzi, Rv. 261340; Sez. 5, n. 4938 del 28/10/2010, Simeoni, Rv. 249239).

Ciò in quanto il giudizio critico è necessariamente influenzato, e non potrebbe essere altrimenti, dal filtro personale con il quale viene percepito il fatto posto a suo fondamento; esso è, per sua natura, parziale, ideologicamente orientato e teso ad evidenziare proprio quegli aspetti o quelle concezioni del soggetto criticato che si reputano deplorevoli e che si intende stigmatizzare e censurare (Sez. 5, n. 19334 del 5/3/2004, Giacalone, non massimata, conf. Sez. 1 -, n. 8801 del 13/11/2018 Rv. 276167).

La critica postula, insomma, fatti che la giustifichino e cioè, normalmente, un contenuto di veridicità limitato alla oggettiva esistenza dei dati assunti a base delle opinioni e delle valutazioni espresse (Sez. 5, n. 13264 del 16/03/2005, non massimata; Sez. 5, n. 20474 del 14/02/2002, Rv. 221904; Sez. 5, n. 7499 del 14/02/2000, Rv. 216534), ma non può pretendersi che si esaurisca in essi.

In altri termini, come rimarca la giurisprudenza CEDU, la libertà di esprimere giudizi critici, cioè "giudizi di valore", trova il solo, ma invalicabile, limite nella esistenza di un "sufficiente riscontro fattuale" (Corte EdU, sent. del 27.10.2005 caso Wirtshafts-Trend Zeitschriften-Verlags Gmbh c. Austria ric. n. 58547/00, nonché sent. del 29.11.2005, caso Rodrigues c. Portogallo, ric. n. 75088/01), ma, al fine di valutare la giustificazione di una dichiarazione contestata, è sempre necessario distinguere tra dichiarazioni di fatto e giudizi di valore, perché, se la materialità dei fatti può essere provata, l’esattezza dei secondi non sempre si presta ad essere dimostrata (Corte EDU, sent. del 1.7.1997 caso Oberschlick c/Austria par. 33).

Il giudizio valutativo, a differenza del fatto presupposto, non può pretendersi nè che sia "obiettivo", nè, in linea astratta, "vero" o "falso".

Diversamente opinando, si rischierebbe di sindacare la legittimità stessa del contenuto del pensiero, in palese contrasto con le garanzie costituzionali. (Sez. 5, n. 13549 del 20/02/2008, Pavone, Rv. 239825; Sez. 5, n. 13880 del 18/12/2007 - dep. 02/04/2008, Pandolfelli, Rv. 239816; Sez. 5, n. 20474 del 14/02/2002, PG in proc. Trevisan, Rv. 221904; Sez. 5, n. 13264 del 16/03/2005, non massimata; Sez. 5, n. 20474 del 14/02/2002, Rv. 221904; Sez. 5, n. 7499 de 14/02/2000, Rv. 216534).

2.1.1. Deve altresì ribadirsi che la nozione di "critica" rimanda non solo all’area dei rilievi problematici, ma, anche e soprattutto, a quella della disputa e della contrapposizione, oltre che della disapprovazione e del biasimo anche con toni aspri e taglienti, non essendovi limiti astrattamente concepibili all’oggetto della libera manifestazione del pensiero, se non quelli specificamente indicati dal legislatore. Limiti che sono rinvenibili, secondo le linee ermeneutiche tracciate dalla giurisprudenza e dalla dottrina, nella difesa dei diritti inviolabili, quale è quello previsto dall’art. 21 Cost., onde non è consentito attribuire ad altri fatti non veri, venendo a mancare, in tale evenienza, la finalizzazione critica dell’espressione, nè trasmodare nella invettiva gratuita, salvo che la offesa sia necessaria e funzionale alla costruzione del giudizio critico (Sez. 5 n. 37397 del 24/06/2016, Rv. 267866).

2.2. Il requisito della continenza concerne un aspetto sostanziale e un profilo formale. La continenza sostanziale, o "materiale", attiene alla natura e alla latitudine dei fatti riferiti e delle opinioni espresse, in relazione all’interesse pubblico alla comunicazione o al diritto-dovere di denunzia: essa si riferisce, dunque, alla quantità e alla selezione dell’informazione in funzione del tipo di resoconto e dell’utilità/bisogno sociale di esso. La continenza formale attiene, invece, al modo con cui il racconto sul fatto è reso o il giudizio critico esternato, e cioè alla qualità della manifestazione: essa postula, quindi, una forma espositiva proporzionata, "corretta" in quanto non ingiustificatamente sovrabbondante al fine del concetto da esprimere. Questo significa che le modalità espressive attraverso le quali si estrinseca il diritto alla libera manifestazione del pensiero, con la parola o qualunque altro mezzo di diffusione, di rilevanza e tutela costituzionali (ex art. 21 Cost.), postulano una forma espositiva corretta della critica - e cioè astrattamente funzionale alla finalità di disapprovazione - e che non trasmodino nella gratuita e immotivata aggressione dell’altrui reputazione.

Tuttavia, essa non è incompatibile con l’uso di termini che, pure oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, per non esservi adeguati equivalenti (Sez. 5, n. 11905 del 05/11/1997, G., Rv. 209647).

In realtà, secondo il consolidato canone ermeneutico di questa Corte, al fine di valutare il rispetto del canone della continenza, occorre contestualizzare le espressioni intrinsecamente ingiuriose, ossia valutarle in relazione al contesto spazio - temporale e dialettico nel quale sono state profferite, e verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur forti e sferzanti, non risultino meramente gratuiti, ma siano invece pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato e al concetto da esprimere (Sez. 5 n. 32027 del 23/03/2018, Rv. 273573); sono, in definitiva, gli interessi in gioco che segnano la "misura" delle espressioni consentite (Sez. 1,n. 36045 del 13/06/2014, P.M in proc. Surano, Rv. 261122; Sez. 5, n. 21145 del 18/04/2019 Rv. 275554).

Compito del giudice è, dunque, di verificare se il negativo giudizio di valore espresso possa essere, in qualche modo, giustificabile nell’ambito di un contesto critico e funzionale all’argomentazione, così da escludere la invettiva personale volta ad aggredire personalmente il destinatario (Sez. 5 n. 31669 del 14/04/2015, Rv. 264442), con espressioni inutilmente umilianti e gravemente infamanti (Sez. 5 n. 15060 del 23/02/2011, Rv. 250174).

3. Delineata la cornice entro la quale deve essere valutata la sussistenza della predetta scriminante, e applicando i richiamati principi alla fattispecie in esame, ritiene il Collegio, come premesso, che, nelle parole incriminate, non sia ravvisabile un contenuto diffamatorio, poiché, in definitiva, con la missiva di cui si discute, sono state manifestate critiche legittime all’operato professionale di un collega del mittente, che aveva compiuto un’attività con modalità errate - a parere dell’imputato - tali da integrare, non implausibilmente, ipotesi di responsabilità civile per negligenza inescusabile.

Nel contesto comunicativo emergente dal testo della lettera non possono assumere significato di offesa alla reputazione i passaggi di cui si è dato conto, non qualificabili come inutilmente umilianti, nè ingiustificatamente aggressivi, apparendo, al contrario, funzionali alla esplicita finalità di disapprovazione che si voleva esprimere, e, perciò, collocandosi senza dubbio nel perimetro della continenza espressiva.

Trattandosi di espressioni esclusivamente dirette alle modalità di esercizio dell’attività professionale che si aveva di mira, non è ravvisabile la gratuità delle espressioni nè la loro idoneità a esporre allo scherno e al ludibrio pubblico il destinatario. Le parole incriminate, infatti, pur dotate di accento fortemente critico rispetto alle modalità con le quali era stato gestito dalla controparte il mandato professionale, sono, tuttavia, pertinenti al tema della polemica e pienamente funzionali alla critica stessa, contenendo lo scritto un dissenso ragionevolmente motivato.

3.1. Ciò che determina l’abuso del diritto, infatti, è la gratuità delle modalità del suo esercizio, non inerenti al tema apparentemente in discussione, che risultano finalizzate a ledere esclusivamente la reputazione del soggetto interessato, postulando il requisito della continenza una forma espositiva corretta della critica rivolta - e cioè strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione - e non può ritenersi superato per il solo fatto dell’utilizzo di termini che, pur avendo accezioni indubitabilmente offensive, hanno però anche significati di mero giudizio critico negativo di cui deve tenersi conto anche alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato. (Sez. 5, n. 37397 del 24/06/2016 Rv. 267866; Sez. 5 - n. 19960 del 30/01/2019 Rv. 276891).

3.2. È quanto avvenuto nel caso di specie, dove il ricorrente, un avvocato del foro locale, si è limitato a criticare l’operato di un collega, contestandone la legittimità con un linguaggio tecnicamente corretto e non trasmodando in un attacco "alla persona", mediante l’utilizzo di non pertinenti argumenta ad hominem (tra moltissime: Sez. 5, n. 3477 del 8/02/2000, Rv. 215577; Sez. 5 n. 38448 del 26/10/2001, Rv. 219998; Sez. 5, sent. n. 10135 del 12/03/2002, Rv. 221684; Sez. 5, n. 13264 del 2005; Sez. 5, n. 4938 del 28/10/2010, Rv. 249239).

È ius receptum, infatti, che, in tema di diffamazione, non può trovare applicazione la scriminante del diritto di critica quando la condotta dell’agente trasmodi in aggressioni gratuite, non pertinenti ai temi in discussione ed integranti l’utilizzo di "argumenta ad hominem", intesi a screditare l’avversario mediante la evocazione di una sua presunta indegnità o inadeguatezza personale, piuttosto che a criticarne le azioni (Sez. 5, n. 4938 del 28/10/2010 - dep. 10/02/2011, P.M. in proc. Simeone e altri, Rv. 249239; Sez. 5, n. 38448 del 25/09/2001, Uccellobruno, Rv. 219998).

Nessuna delle espressioni, ascritte all’imputato e reputate come offensive, si rivolge al denunciato in quanto persona, attaccandolo nella sua dimensione privata, tutte concernendo, piuttosto, le modalità di espletamento del mandato difensivo (Sez. 5, n. 18799 del 06/02/2008, Santillo, Rv. 239824; Sez. 5, n. 36077 del 09/07/2007, Mazzucco, Rv. 237726).

4. La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei richiamati principi di diritto. Alla declaratoria di inammissibilità segue per legge (art. 616 c.p.p.) la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché, trattandosi di causa di inammissibilità determinata da profili di colpa emergenti dal ricorso (Corte Costituzionale n. 186 del 7-13 giugno 2000), al versamento, in favore della Cassa delle Ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo fissare in Euro 3000,00.

5. Non può, invece, trovare accoglimento la richiesta di liquidazione formulata dalla difesa dell’imputato, in carenza di qualsivolgia attività difensiva svolta nel presente giudizio di legittimità. Il Collegio aderisce, infatti, all’opzione ermeneutica, rinvenibile nella giurisprudenza di questa Corte, che - privilegiando l’aspetto sostanziale del giudizio in questione – ricollega la possibilità di ottenere il pagamento delle spese sostenute nel giudizio alla natura dell’attività svolta dalla parte, nel senso dell’entità della attività diretta a contrastare la avversa pretesa a tutela dei propri interessi (Sez. 7, n. 7425 del 28/1/2016, Botta, Rv. 265974; Sez. 7, ord. n. 44280 del 13/9/2016, Rv. 268139). L’orientamento trova l’autorevole avallo delle Sezioni Unite (Sez. U., ord. n. 5466 del 28/1/2004, Gallo, Rv. 226716) che, pronunciandosi in ordine alla ammissibilità della condanna dell’imputato alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel giudizio di legittimità svoltosi con le forme di cui all’art. 610 c.p.p., comma 1, hanno fatto riferimento, ai fini dell’entità della liquidazione, ammissibile anche in quella sede, a "un ragionevole ristoro, commisurato alla congruenza ed entità dell’impegno. Il quale - è quasi superfluo sottolinearlo - non può esaurirsi nella pura e semplice presentazione delle richieste finali e della nota spese, ma deve consistere nella prospettazione, a sostegno delle medesime, degli argomenti ritenuti idonei allo scopo di contrastare l’iniziativa dell’imputato, in guisa che risulti evidente la "partecipazione" non meramente formale, ma effettiva e feconda dell’interessato al processo dialettico in cui si articola anche il particolare rito in considerazione". Come precisato dalla medesima pronuncia, trattasi di indagine che va fatta caso per caso, anche al fine di escludere i possibili intenti emulativi (nel senso accolto dall’art. 833 c.c.), i quali, tuttavia, in quanto espressione di moti interiori, ove non si traducano in atti palesemente incoerenti o impertinenti sono giuridicamente irrilevanti. Consegue a tali premesse, il mancato accoglimento dell’istanza del difensore dell’imputato, che si è limitato a formulare conclusioni generiche, prive di confronto dialettico con le tematiche prospettate dal ricorso.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Nulla per le spese richieste dal difensore dell’imputato.