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Tutore di un interdetto è pubblico ufficiale (Cass. 39981/18)

5 settembre 2018, Cassazione penale

Il tutore è pubblico ufficiale ed ha a una funzione che ha natura pubblica: l’appropriazione di somme spettanti all’interdetto, ricevute dal tutore in ragione del suo ufficio, integra il delitto di peculato.

 

CORTE DI CASSAZIONE

SEZ. VI PENALE - SENTENZA 5 settembre 2018, n.39982 - Pres. Paoloni – est. Silvestri

Ritenuto in fatto

La Corte di appello di Reggio Calabria ha confermato il giudizio di responsabilità penale formulato nei riguardi di R.F. e P.G. per il reato di peculato.

Agli imputati è contestato di essersi appropriati, il primo, nella qualità di tutore, e la seconda in quella di protutore dell’interdetto P.D. , di Euro 28.000, riscuotendo tale somma, nell’ambito della gestione del patrimonio di quest’ultimo, in esecuzione di una sentenza emessa dal Tribunale di Palmi all’esito di un giudizio civile relativo ad un’azione risarcitoria nei confronti dell’INPS, omettendo di predisporre rendiconto della gestione al giudice tutelare.

Hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati deducendo violazione di legge in relazione all’art. 314 cod. pen.; la sentenza sarebbe viziata perché non sarebbe stato dimostrato la 'effettiva distrazione' delle somme, non potendo l’appropriazione farsi discendere dalla mancata rendicontazione al giudice tutelare.

Considerato in diritto

Il ricorso è inammissibile perché aspecifico e manifestamente infondato.

Dalla sentenza impugnata emerge in punto di fatto che: a) gli imputati furono nominati tutore e protutore di P.D. con decreto del 10/03/2004; 2) nell’ambito di un altro procedimento penale nei riguardi di R.F. era emerso che questi aveva incassato la somma di Euro 28.000, di cui si è detto; 3) il Giudice tutelare del Tribunale di Palmi, presso il quale era in corso il procedimento per la gestione del patrimonio dell’interdetto, fece rilevare come R. e la di lui coniuge, P. , non avessero presentato il rendiconto previsto dall’art. 380 cod. civ.; 4) gli imputati avevano sostenuto che la somma in questione fosse stata incassata ma utilizzata per acquistare un’autovettura 'funzionale al trasporto dell’interdetto e per la ristrutturazione della stanzetta dove il parente viveva' (così la sentenza); 5) il 19/07/2012, sentiti gli interessati, il Giudice tutelare rimosse gli imputati dagli incarichi, evidenziando come gli stessi non avessero mai fornito documentazione giustificativa degli esborsi; 6) nessuna giustificazione è stata fornita nel corso del processo dell’uso della somma per la quale si procede.

La Corte di merito, con motivazione adeguata e non manifestamente illogica, ha chiarito come l’insieme delle circostanze indicate e l’assenza di giustificazioni, anche solo postume, consenta di ritenere raggiunta la prova dell’appropriazione della somma.

A fronte di tale quadro di riferimento, il ricorrente non ha esplicitato in nessun modo perché, nel caso di specie, non sarebbe stata raggiunta la prova dell’appropriazione, quale sarebbe l’elemento fattuale esistente e non considerato, quale la giustificazione lecita della destinazione di quelle somme che gli imputati avrebbero fornito.

L’art. 357 cod. pen., nel testo sostituito dalla L. 26 aprile, 1990, n. 86, art. 17, e L. 2 febbraio 1992, n. 181, art. 4, ricollega la qualifica di pubblico ufficiale non tanto al rapporto di dipendenza tra il soggetto e la pubblica amministrazione, quanto, piuttosto, ai caratteri propri dell’attività in concreto esercitata dal soggetto agente e oggettivamente considerata.

Di tale attività devono essere presi in esame i singoli momenti in cui essa si attua, disgiuntamente previsti dal legislatore nel secondo comma della norma citata, con riferimento all’esistenza di un contributo determinante dell’agente alla formazione ed alla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione nonché all’esistenza di poteri autoritativi o certificativi (Sez. U, n. 7985 del 27/03/1992, Delogu).

L’attività del tutore dell’interdetto, cui si applicano le disposizione della tutela dei minori (art. 424 cod. civ.) attiene alla cura della persona dell’incapace ed all’amministrazione dei suoi beni.

L’incarico è conferito dal giudice per svolgere un’attività 'ausiliaria' all’esercizio di una funzione giudiziaria; il tutore, sotto giuramento, ha il compito di compilare un inventario dei beni dell’incapace (artt. 362 e 363 cod. civ.), di tenere una contabilità che va sottoposta annualmente al giudice tutelare (art. 380): deve dichiarare l’esistenza di rapporti di debito e credito con l’incapace (artt. 367 e 368 cod. civ.) e rendere un conto finale quando cessa dalle proprie funzioni (art. 385 e segg. cod. civ.).

Si tratta di un attività regolamentata da norme obiettive di diritto pubblico, funzionali a perseguire un interesse pubblico, quale quello di garantire la tutela delle persone che non sono capaci di gestire i propri affari.

Ciò giustifica i poteri certificativi del tutore nella redazione dei rendiconti periodici al giudice tutelare e i poteri autoritativi che la legge gli conferisce.

Il minore, a sua volta, deve 'rispetto e obbedienza' al tutore, ed in ogni caso è soggetto alla sua autorizzazione per lasciare la casa in cui è stabilito debba vivere, con possibilità per lo stesso tutore di 'richiamarvelo', anche a mezzo dell’autorità pubblica (art. 358 cod. civ.); il minore è inoltre necessariamente rappresentato dal tutore (art. 357 cod. civ.).

Le potestà che l’ordinamento attribuisce al tutore consistono dunque in un complesso di poteri-doveri ricondotti alla funzione che egli è tenuto a esercitare nell’interesse dell’interdetto.

È pertanto condivisibile il principio più volte affermato dalla Corte di cassazione secondo cui il tutore è investito di una pubblica funzione (Sez.6, n. 23353 del 04/02/2014, Mameli, Rv. 29910; Sez. 6, n. 27570 del 16/04/2007, Villa, Rv. 237604; quanto al protutore, nello stesso senso, Sez. 5, n. 41004 del 05/05/2015, Mameli, Rv. 264874).

Affermata la natura pubblica della tutela e la qualità di pubblico ufficiale del tutore dell’interdetto, ne deriva che l’appropriazione di somme spettanti all’interdetto, ricevute dal tutore in ragione del suo ufficio, integra il delitto di peculato.

Si tratta di somme che non appartengono né alla pubblica amministrazione, né, tantomeno, al tutore; questi le riceve in ragione del suo ufficio e deve destinarle all’interdetto, i cui interessi deve amministrare e garantire.

A fini dell’integrazione del reato di peculato, assume rilievo l’appropriazione di una cosa mobile appartenente ad un qualunque soggetto, purché l’agente pubblico ne abbia conseguito il possesso o la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio. Va dunque verificata non l’appartenenza del bene, ma la ragione funzionale della disponibilità in proposito acquisita dall’agente e l’utilizzo della 'res'.

La Corte di cassazione ha chiarito in maniera condivisibile che il reato di peculato non è ravvisabile a seguito del mero mancato rispetto delle procedure previste per l’effettuazione delle spese nell’interesse dell’amministrato, ma solo in presenza di una condotta appropriativa o, comunque, che si risolva nell’uso dei fondi o dei beni per finalità estranee all’amministrato, (Cfr., sez. 6, n. 29617 del 19/05/2016, Piermarini, Rv. 267795)

Nel caso di specie, diversamente dagli assunti difensivi, la condotta di appropriazione non deriva dal mero dato formale della violazione dell’obbligo di rendiconto, ma dal fatto che gli imputati ricevettero obiettivamente la somma di Euro 28.000 del cui uso, della cui destinazione, della cui gestione, tuttavia, nessuna giustificazione è stata fornita, né nel corso del procedimento civile, né in quello penale.

Gli imputati avevano l’obbligo di 'consegnare' giuridicamente quelle somme al legittimo avente diritto; essi, invece, gestirono quelle somme come fossero 'proprie', senza fornire alcuna giustificazione e sottraendole all’amministrato, in tal modo non solo violando le procedure formali previste in tema di tutela dell’interdetti, ma realizzando un’inversione del titolo del possesso uti dominus, con la conseguente appropriazione sanzionata dall’art. 314 cod. pen..

All’inammissibilità del ricorso, consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.