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Segreto professionale violato se moglie viene informata della infertilità del marito? (Cass. 318/21)

7 gennaio 2021, Cassazione penale

Non si ha rivelazione, e quindi violazione del segreto professionale, nel caso di comunicazione della notizia a chi già la conosceva.

Corte di Cassazione

sez. V Penale, sentenza 26 novembre 2020 – 7 gennaio 2021, n. 318
Presidente Pezzullo – Relatore Morosini

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Torino, in parziale riforma della sentenza di condanna pronunciata dal Tribunale della stessa città, ha prosciolto V.R. dai reati di rivelazione di segreto professionale (capo 1) e di diffamazione aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato (capo 2), commessi ai danni di B.R. , perché estinti per prescrizione; mentre, ai sensi dell’art. 578 c.p.p., ha confermato le statuizioni civili.
L’affermazione di responsabilità, rilevante ai soli effetti civili, trova fondamento nel fatto che:
- l’imputato, ginecologo, psicoterapeuta e sessuologo, nel rilasciare, in data 14 febbraio 2007, un certificato medico a C.B. aveva rivelato, senza giusta causa, circostanze riservate inerenti alla sfera sessuale e procreativa del marito della donna, B.R. , fornendo, in particolare, un resoconto della scarsa fertilità dell’uomo, del ricorso dei due coniugi alla inseminazione artificiale e del percorso di fecondazione assistita seguito dalla coppia (capo 1);
- l’imputato, inoltre, aveva leso la reputazione di B.R. , di professione notaio, trasmettendo, per conoscenza, al Consiglio Notarile di Torino e al Presidente del Consiglio Nazionale del Notariato, la nota di replica depositata presso l’ordine dei medici di Torino, nella quale l’imputato attaccava la persona offesa stigmatizzando che l’esposto presentato da B. "sa di vendetta, ha lo scopo di sminuire denigrare e smantellare quanto da me dichiarato e sottoscritto" che "risuona come una minaccia inaccettabile la possibilità di portarmi in giudizio ed ha solo l’intento di intimorire e screditare un teste importante per le cause in atto", che la bambina (concepita attraverso la fecondazione eterologa) "è nata dalla consapevolezza di due persone adulte e non può essere defraudata dei suoi diritti, cancellata dal libro paga del notaio perché prova vivente del fallimento del suo progetto di coppia"; che "non si cancellano sette anni di vita e quanto si è costruito addossando la parte della propria responsabilità alla ex moglie, ad amici e conoscenti; che egli era preoccupato "per la salute psicofisica del notaio B. , il quale in questa guerra, dai risvolti ossessivi e mediatici, sta sprecando nel rancore, nel desiderio di vendetta e di rivalsa quella splendida opportunità della vita di imparare, anche attraverso le prove che portano sofferenza e di capire il significato del proprio cammino, anche con l’ausilio dell’amore di una figlia; l’imputato forniva, poi, ai destinatari un elenco delle cause civili pendenti tra i coniugi, affermava la pendenza a carico dell’uomo di una causa per percosse e minacce di morte ai danni della moglie, formulava commenti moralistici sulla vita intima e sullo stile di vita del B. , che definiva, tra l’altro "un accanito giocatore" (capo 2).
2. Avverso la sentenza ricorre l’imputato, tramite il difensore, articolando due motivi, preceduti da una premessa fattuale: l’imputato era il ginecologo di C.B. ; falliti i numerosi tentativi di inseminazione omologa, la donna e il marito avevano deciso di intraprendere il percorso di inseminazione artificiale, come attestato nel certificato del 21 settembre 2001 rilasciato dall’imputato alla coppia; eseguito l’intervento, il (omissis) era nata la figlia G. ; il 15 novembre 2004 i coniugi si erano separati; il marito aveva intentato una causa per il disconoscimento della paternità negando di essere ricorso alla inseminazione eterologa e ponendo alla base dell’azione civile un certificato a firma del prof. C. che attestava "una severissima in fertilità" e che riteneva perciò "improbabile che la bambina fosse figlia di B.R. ". La resistente non era riuscita ad entrare in possesso della documentazione concernente l’esecuzione dell’intervento di fecondazione eterologa nè dalla clinica, nè dal medico che l’aveva eseguita perché nelle more deceduto; in tale contesto, su richiesta della donna, l’imputato aveva rilasciato il certificato in contestazione, all’esclusivo fine di consentirne la produzione nel procedimento civile a tutela degli interessi superiori della figlia minore della coppia; B. aveva presentato un esposto contro l’imputato presso l’ordine dei medici, in quella sede l’imputato si era difeso e, a sua volta, aveva denunciato il grave comportamento del notalo all’ordine di appartenenza.
2.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per il reato di rilevazione di segreto professionale.
L’imputato aveva avuto notizia della infertilità del marito dalla propria paziente, C.B. , che lo aveva portato a conoscenza dell’intenzione, comune alla coppia, di sottoporsi a inseminazione eterologa; solo successivamente l’imputato entrò in contatto con il B. e rilasciò il certificato del 21 settembre 2001 di idoneità della coppia all’inseminazione artificiale; la relazione professionale proseguì solo con la donna che venne assistita dall’imputato fino al parto. Dunque le informazioni provenivano solo dalla donna e da questa doveva pervenire il consenso alla rivelazione.
Il B. aveva promosso la causa di disconoscimento della paternità, rivelando, lui per primo, la propria infertilità con la certificazione posta a sostegno della domanda.
L’imputato ha rilasciato il certificato medico oggetto di addebito solo ai fini della utilizzazione nella suddetta controversia civile a tutela del diritto costituzionale della figlia minorenne, rispetto al quale il diritto al segreto del B. è destinato a soccombere.
In tale situazione dovrebbe ravvisarsi una giusta causa che scrimina il comportamento punito dall’art. 622 c.p..
Secondo il ricorrente la motivazione fornita sul punto della Corte di appello si fonderebbe su valutazioni astratte (compiute "in linea di principio"), senza tenere conto delle caratteristiche del caso concreto, del bilanciamento tra contrapposti interessi che farebbe venir meno l’ingiustizia del nocumento in ragione della prevalenza del diritto della minore, della sussistenza di una giusta causa, della circostanza che la notizia sulla infertilità del B. non era più segreta poiché era stato lui stesso a divulgarla allorché intraprese l’azione di disconoscimento della paternità.
Inoltre la sentenza presenterebbe una evidente lacuna motivazionale sull’elemento soggettivo del reato, anche in relazione al convincimento dell’imputato di agire a tutela della minore e dunque di non arrecare un danno ingiusto.
2.2. Con il secondo motivo deduce analoghi vizi sulla affermazione di colpevolezza in ordine al reato di diffamazione di cui al capo 2.
La Corte di appello sostiene che l’imputato avrebbe leso la reputazione di B. per difendersi dalle accuse che gli venivano mosse nel procedimento disciplinare a suo carico.
Sostiene il ricorrente che l’argomento non inquadra la realtà: l’imputato ha "denunciato" fatti di rilievo penale e disciplinare commessi da B. e che dovevano essere portati a conoscenza dell’ordine di appartenenza in quanto B. ha promosso una causa contro sua figlia, dichiarando il falso, comportamento contrastante con il ruolo e la funzione di un notaio, che è un pubblico ufficiale investito del compito di attestare la veridicità degli atti.
Lamenta inoltre che la Corte di appello avrebbe individuato espressioni lesive della altrui reputazione non contestate e neppure denunciate dalla persona offesa ed inoltre non avrebbe compreso la natura della comunicazione al consiglio notarile, che non è una nota difensiva propalata a terzi ma un vero e proprio esposto diretto ad interessare dei comportamenti del notaio l’ordine di appartenenza.
Infine i giudici di merito non hanno fatto corretta applicazione del principio per cui non integra il reato di diffamazione la condotta di chi invii un esposto (nella specie consiglio dell’ordine degli avvocati) quando le accuse abbiano un fondamento di verità o almeno l’accusatore sia fermamente e incolpevolmente, ancorché erroneamente, convinto della loro veridicità (Sez. 5 n. 339486 del 06/07/2018).
3. Nessuna delle parti ha avanzato richiesta di discussione orale, dunque il processo segue il cd. "rito scritto" ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8.
4. Il Procuratore generale ha trasmesso, tramite posta elettronica certificata, la propria requisitoria scritta con la quale ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso. Con lo stesso mezzo il difensore della parte civile ha trasmesso una memoria con la quale ha difeso la correttezza della decisione della Corte di appello, smontando le censure del ricorrente; mentre il difensore dell’imputato ha ulteriormente illustrato le ragioni già esposte in ricorso.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è fondato.
Va premesso che gli effetti penali si sono esauriti con la declaratoria di estinzione dei reati per prescrizione.
Il tenore complessivo del ricorso lascia intendere che la Corte di cassazione non viene investita di una pronuncia ex art. 129 c.p.p., comma 1 e che il profilo della responsabilità risulta contestato ai soli effetti civili.
2. Il primo motivo è fondato.
2.1. L’art. 622 c.p., punisce chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, se dal fatto può derivare nocumento.
Nel caso di specie si contesta all’imputato, ginecologo, psicoterapeuta e sessuologo, di avere rivelato, senza giusta causa, circostanze riservate inerenti alla sfera sessuale e procreativa di B.R. ; in particolare l’imputato, su richiesta di una sua paziente, C.B. , in assenza di consenso di B. , ha rilasciato alla stessa un certificato medico in data 14 febbraio 2007 con il quale "forniva un resoconto della scarsa fertilità del B. , del ricorso suo e della allora moglie convivente C.B. alla inseminazione artificiale e del percorso di fecondazione assistita praticato dal B. e dalla moglie".
Secondo l’editto accusatorio il segreto rivelato illecitamente cade sulla "scarsa fertilità del B. " e sul ricorso concordato della coppia alla inseminazione artificiale eterologa, avvenuta in epoca anteriore alla regolamentazione della fecondazione medicalmente assistita di cui alla L. n. 40 del 2004.
2.2. Il quadro nel quale la vicenda si inserisce risulta tracciato in maniera chiara (più che nella sentenza impugnata) nella pronuncia della prima sezione civile della Corte di cassazione n. 11644 del 2012, versata in atti.
2.2.1 Con atto di citazione notificato in data 16 gennaio 2007 B.R. promoveva azione di disconoscimento della figlia G. , nata il (omissis) , in costanza di matrimonio, dalla moglie C.B. .
L’attore, premesso che la coppia, non riuscendo inizialmente a concepire prole, si era inutilmente sottoposta a tentativi di inseminazione artificiale omologa, assumeva che, essendosi smesso di provare di ricorrere alla fecondazione assistita una volta sopravvenuta la scoperta che la moglie (evidentemente per ragioni naturali) era incinta, successivamente alla nascita della bambina si erano verificati una serie di episodi che lo avevano indotto a sospettare, in misura sempre maggiore, di non essere il padre della stessa.
Ed invero la signora dopo che, nell’anno 2004, era intervenuta la separazione personale, gli aveva rappresentato - nella comparsa di risposta di un giudizio civile - di essersi sottoposta a cure ormonali per concepire la figlia, la quale, d’altra parte, aveva cominciato ad assumere nei confronti del convivente della madre, già amico di famiglia, un atteggiamento filiale che determinava nell’attore una situazione di disagio.
Aggiungeva l’esponente che, dopo aver partorito un figlio nell’ambito della sua nuova relazione affettiva, la signora C. , nel dicembre del 2005, aveva cominciato a propalare la notizia che la bambina era nata a seguito di inseminazione artificiale eterologa. B. , essendosi quindi sottoposto nell’ottobre del 2006 ad accurati accertamenti sanitari, aveva ottenuto un responso di "severissima infertilità".
2.2.2. C.B. , costituitasi, chiedeva il rigetto della domanda e comunque eccepiva l’intervenuta decadenza dell’attore dalla proposizione dell’azione di disconoscimento, assumendo che egli da tempo era consapevole della propria infertilità, tanto che entrambi i coniugi avevano eseguito un programma di fecondazione assistita, al cui esito negativo aveva fatto seguito un tentativo, andato a buon fine, di inseminazione artificiale eterologa.
2.2.3. Il giudizio si è concluso con la declaratoria di inammissibilità dell’azione per intervenuta decadenza, rilevata dai giudici di merito e confermata dalla Corte di cassazione.
Il giudice civile di legittimità ha ritenuto che, pur in difetto di prova del consenso del B. alla inseminazione artificiale eterologa, tuttavia era stato dimostrato che l’attore avesse avuto piena conoscenza del ricorso a tale pratica, da parte della moglie, almeno dal 2005, sicché era decorso l’anno entro cui poteva promuovere l’azione di disconoscimento.
2.3. Nel presente processo penale, è stato accertato che il rilascio del certificato del 14 febbraio 2007 da parte dell’imputato, su richiesta della propria paziente, C.B. , era finalizzato alla produzione nel predetto giudizio di disconoscimento della paternità, incardinato dal B. nel precedente mese di gennaio.
2.4. Il reato di rivelazione del segreto professionale postula tra l’altro la sussistenza di una "una rivelazione" del segreto e l’assenza di giusta causa.
Dunque non si ha rivelazione, e quindi violazione del segreto, nel caso di comunicazione della notizia a chi già la conosceva.
Sul tema della "giusta causa", occorre ricordare che secondo quanto indicato dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 5 del 2004), la formula "senza giusta causa" e formule ad essa equivalenti od omologhe - "senza giustificato motivo" "senza giusto motivo", "senza necessità", "arbitrariamente", ecc. - compaiono con particolare frequenza nel corpo di norme incriminatrici, ubicate all’interno dei codici e delle leggi speciali (cfr. per artt. 616, 618, 619, 620, 621, 622, 633, 652, 727 e 731 c.p.).
"Dette clausole sono destinate in linea di massima a fungere da "valvola di sicurezza" del meccanismo repressivo, evitando che la sanzione penale scatti allorché - anche al di fuori della presenza di vere e proprie cause di giustificazione - l’osservanza del precetto appaia concretamente "inesigibile" in ragione, a seconda dei casi, di situazioni ostative a carattere soggettivo od oggettivo, di obblighi di segno contrario, ovvero della necessità di tutelare interessi confliggenti, con rango pari o superiore rispetto a quello protetto dalla norma incriminatrice, in un ragionevole bilanciamento di valori".
"Il carattere "elastico" della clausola si connette, nella valutazione legislativa, alla impossibilità pratica di elencare analiticamente tutte le situazioni astrattamente idonee a "giustificare" l’inosservanza del precetto. Una simile elencazione sconterebbe immancabilmente - a fronte della varietà delle contingenze di vita e della complessità delle interferenze dei sistemi normativi -il rischio di lacune: lacune che, peraltro, tornerebbero non a vantaggio, ma a danno del reo, posto che la clausola in parola assolve al ruolo, negativo, di escludere la punibilità di condotte per il resto corrispondenti al tipo legale" (così in motivazione Corte Cost. sent. n. 5 del 2004, cit.).
La Corte di cassazione ha ritenuto che la nozione di "giusta causa" vada affidata al concetto generico di giustizia, che la locuzione stessa presuppone, e che il giudice sia tenuto a determinare di volta in volta con riguardo alla liceità sotto il profilo etico e sociale - dei motivi che determinano il soggetto ad un certo atto o comportamento (si veda in tema di reato ex art. 616 c.p. Sez. 5, n. 52075 del 29/10/2014, Lazzarinetti, Rv. 263226 e Sez. 5, n. 8838 del 10/07/1997, Reali, Rv. 208613, che ha ritenuto sussistere la giusta causa relativamente alla rivelazione del contenuto della corrispondenza del coniuge in un giudizio civile di separazione).
Secondo la dottrina, con l’espressione "senza giusta causa", il legislatore ha inteso riferirsi, oltre che alle cause di giustificazione previste dagli artt. 50 e seguenti c.p., anche a tutte le altre cause suscettibili di escludere l’illiceità della rivelazione in base a principi del bilanciamento degli interessi o dell’adeguatezza del mezzo rispetto ad uno scopo lecito non altrimenti realizzabile. In tal modo l’ordinamento penale recepisce più vasti apprezzamenti etico-sociali alla cui stregua la rivelazione del segreto, se pur non avvenuta iure, è tuttavia da considerare come "giusta".
2.5. Su questi elementi, cardine della fattispecie tipica, la Corte di appello non fornisce alcuna motivazione.
2.5.1. La questione sulla "rivelazione" del segreto viene completamente pretermessa.
A fondamento della domanda giudiziale di disconoscimento della paternità B. aveva posto la sua "severissima in fertilità" e aveva fatto riferimento al ricorso della moglie alla fecondazione artificiale eterologa.
Dunque sembra arduo addebitare all’imputato di aver rivelato, con il certificato del 14 febbraio 2007 destinato ad essere prodotto in quella causa civile, "circostanze riservate inerenti alla sfera sessuale e procreativa" del B. , quando quest’ultimo aveva esercitato azione di disconoscimento della paternità nel precedente mese di gennaio, deducendo, lui per primo, a fondamento della domanda quelle medesime circostanze.
2.5.2. Lo scrutino sulla "giusta causa" viene condotto in maniera eccentrica rispetto al senso e al significato della menzionata "valvola di sicurezza" come sopra delineato al paragrafo 2.4..
La Corte di appello esclude la ricorrenza della "giusta causa" in quanto:
- all’interesse della minore "ben poteva contrapporsi l’interesse del genitore al disconoscimento" (pag. 5 sentenza impugnata);
- nell’agire dell’imputato si coglie "la sua intenzione di certificare fatti che egli all’evidenza riteneva risolutivi ai fini della definizione del giudizio civile appena avviati, senza tenere conto che esso doveva svolgersi nel rispetto delle regole procedurali che ne avrebbe visto la partecipazione solo se dedotto come testimone sui fatti che, in ipotesi, solo il giudice della causa poteva ritenere rilevanti" (pag. 5 sentenza impugnata).
Simili argomenti non sono calibrati sulla nozione di "giusta causa".
Non si comprende che senso abbia la contrapposizione tra "interesse della minore" e "interesse del padre al disconoscimento". Ricordato che, nel resistere all’azione di disconoscimento, la minore è assistita dalle garanzie costituzionali sancite dagli artt. 2, 30 e 31 Cost. (cfr. sentenza Corte Cost. n. 347 del 1998), il valore da porre in bilanciamento rispetto alla sfera della minore è quello protetto dalla norma incriminatrice non certo "l’interesse del padre al disconoscimento".
E ancora, a fronte di un certificato rilasciato da un medico alla propria paziente - ai fini della produzione in giudizio come prova documentale di un certo svolgersi dei fatti (al di là della valenza che poi alla stessa, in concreto, sia stata riconosciuta dal giudice civile) - rimane imperscrutabile, nell’ottica della "giusta causa", il riferimento all’intento di attestare fatti risolutivi e al rispetto delle regole procedurali.
3. È fondato anche il secondo motivo.
Il capo 2 dell’imputazione, prolisso e ridondante (riportato per esteso al paragrafo 1 del "ritenuto in fatto"), non consente di cogliere, nella congerie delle proposizioni trascritte, quale specifica parte della comunicazione dell’imputato debba ritenersi offensiva dell’altrui reputazione.
La sentenza impugnata non colma questa lacuna, poiché si risolve in affermazioni tautologiche che non chiariscono mai in cosa riposi realmente l’offesa, nè spiega per quale ragione le espressioni citate (tutte o alcune) vadano qualificate come lesive della reputazione del notaio B. , dato che tale lesività non è "autoevidente".
Neppure sembra adeguatamente assolto l’onere di valutare il contesto complessivo in cui si colloca la condotta, il livello cui il conflitto tra le parti è giunto per scelta di chi l’ha innescato; la reale natura delle comunicazioni incriminate, volte a denunciare, in tesi, comportamenti del notaio percepiti dall’imputato come scorretti, ingiusti, persecutori, lesivi dei diritti propri e altrui.
Invero la valenza offensiva di una determinata espressione deve essere riferita al contesto sia ambientale sia relazionale in cui la stessa viene profferita.
Non è ammessa una risposta giudiziaria repressiva che estenda la tutela prevista contro la lesione dell’onore o del decoro anche a casi di contestazione dell’operato altrui (così Sez. 5, n. 32907 del 30/06/2011, Di Coste, in motivazione).
4. Gli evidenziati vizi motivazionali impongono l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, cui deve essere rimessa anche la liquidazione delle spese tra le parti per il presente grado di giudizio.
Non viene in rilievo la questione attualmente pendente alle Sezioni Unite (udienza fissata al 28/01/21) in merito alla portata dell’art. 622 c.p.p. e alla individuazione del giudice del rinvio (civile o penale), poiché in questo caso la estinzione del reato per prescrizione è già stata dichiarata dalla sentenza di appello, l’annullamento concerne solamente i capi che riguardano l’azione civile e non si discute della mancata rinnovazione in appello di prova dichiarativa ritenuta decisiva.
L’inerenza della vicenda a rapporti familiari impone, in caso di diffusione della presente sentenza, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente agli effetti civili, con rinvio per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello, cui rimette anche la liquidazione delle spese tra le parti per questo grado di legittimità.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.