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Senza fissa dimora: porto di coltello è reato? (Cass. 578/20)

20 gennaio 2020, Cassazione penale

Stabilire in quale misura il soggetto senza fissa dimora possa o meno rispondere, nei singoli casi, del reato di porot ingiusificato di oggetti atti ad offender (tagierini, coltelli, caciaviti, forchette, ..)  si profila questione che non può decidersi in via generale e astratta.

La situazione situazione di vita di una persona senza fissa diroma può far ritenere giustificato che egli abbia con sè gli strumenti di prima necessità, per lui indispensabili al fine di soddisfare i suoi bisogni quotidiani nelle condizioni date.

Chi è senza fissa dimnora non può far leva sulla sua condizione per portare ovunque e senza adeguata giustificazione ogni tipo di coltello o strumento volto all'offesa.

Se un provvedimento giurisdizionale è impugnato dalla parte interessata con un mezzo diverso dal tipo (unico) normativamente prescritto e/o proposto dinanzi a giudice incompetente, il giudice adito - prescindendo da qualunque analisi valutativa in ordine alla indicazione di parte, se frutto cioè di errore-ostativo o di scelta deliberata - deve limitarsi semplicemente a prendere atto della voluntas impugnationis e a trasmettere gli atti al giudice competente, con atto da inquadrarsi nella categoria della qualificazione giuridica dell'atto (diverso dalla conversione della impugnazione: istituto del quale costituiscono ipotesi specificamente disciplinate quelle di cui all'art. 569 c.p.p., commi 2 e 3 e art. 580 c.p.p.), essendo poi riservato in via esclusiva al giudice competente a conoscere, secondo la previsione del sistema normativo, sia dell'ammissibilità che della fondatezza dell'impugnazione, il potere di procedere alla definitiva qualificazione e di accertare l'esistenza dei requisiti di validità dell'atto.

Ciò, con l'ulteriore effetto che la trasmissione degli atti al giudice competente non richiede necessariamente un provvedimento giurisdizionale, ma può avvenire anche con un atto di natura meramente amministrativa, unico limite all'operatività dell'art. 568 cit., comma 5, essendo costituito dall'accertamento di non impugnabilità del provvedimento, che esclude concettualmente qualunque possibilità di diversa qualificazione del mezzo eventualmente proposto.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

(ud. 30/09/2019) 10-01-2020, n. 578

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI TOMASSI Maria Stefania - Presidente -

Dott. SIANI Vincenzo - rel. Consigliere -

Dott. MANCUSO Luigi Fabrizio - Consigliere -

Dott. SANTALUCIA Giuseppe - Consigliere -

Dott. CAIRO Antonio - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

B.M., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 07/03/2019 della CORTE APPELLO SEZ.DIST. di BOLZANO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. VINCENZO SIANI;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. TOCCI STEFANO, che ha concluso chiedendo quanto segue:

Il P.G. conclude chiedendo l'inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza emessa il 17 maggio 2017, il Tribunale di Bolzano aveva dichiarato B.M. - imputato di aver portato fuori della propria abitazione, senza giustificato motivo, un taglierino con lama di 15 cm e un coltello con lama di 6,50 cm, fatto commesso in (OMISSIS) responsabile del reato di cui alla L. 18 aprile 1975, n. 110, art. 4, comma 2, e, riconosciuta l'ipotesi di lieve entità di cui all'art. 4, comma 3, secondo periodo, legge cit., lo ha condannato alla pena di Euro 1.500,00 di ammenda, confiscando quanto in giudiziale sequestro.

Il primo giudice aveva rilevato che, all'atto della perquisizione compiuta nei suoi confronti in prossimità di un parcheggio dove B. si aggirava in modo sospetto con altra persona che era fuggita all'arrivo degli operanti, si era registrato il rinvenimento nel suo zaino dei due strumenti muniti di lama sopra descritti, utilizzabili per l'offesa della persona, senza che l'imputato avesse giustificato in alcun modo - nè in quel momento, nè in tempo successivo, durante il processo - il porto di quegli oggetti nello zaino, nelle ricordate circostanze di tempo e di luogo. Ritenuta l'evenienza degli elementi, oggettivo e soggettivo, del reato contestato, il Tribunale, considerando le caratteristiche delle armi in questione e il fatto che, comunque, l'imputato non risultava averne fatto uso per recare offesa alle persone, aveva ritenuto l'ipotesi lieve di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 4, comma 3, secondo periodo, con la susseguente specificazione che, per i numerosi precedenti penali da cui era gravato, l'imputato non poteva vedersi riconoscere la sospensione condizionale. Infine, nella motivazione, si era giustificata la confisca di taglierino e coltello, ex art. 4 cit., precisandosi che per il restante compendio sequestrato era da disporsi il dissequestro e la restituzione.

1.1. Avverso questa sentenza B. aveva interposto appello formulando tre doglianze.

1.1.1. Con la prima doglianza, si era dedotta l'insussistenza del reato: rilevava, secondo la difesa, che l'imputato era soggetto senza fissa dimora, per cui non aveva un'abitazione dove custodire gli effetti personali, ivi incluse le posate; e la norma, sanzionando il comportamento di chi porta gli oggetti atti all'offesa al di fuori della propria abitazione, non avrebbe dovuto trovare applicazione nei riguardi di chi un'abitazione non l'aveva, dormendo per strada, in questo caso sussistendo, quanto meno, un'idonea giustificazione determinata dalla mancanza di disponibilità del soggetto di custodire in un'abitazione i propri effetti.

1.1.2. Con il secondo motivo, si censurava il fatto che - pur avendo spiegato in motivazione che soltanto il coltello e il taglierino oggetto di imputazione erano da confiscarsi, con restituzione del restante compendio - in dispositivo il Tribunale aveva disposto la confisca di quanto era in giudiziale sequestro, ivi inclusi, quindi, i suoi effetti ulteriori, pure vincolati dalla cautela reale.

1.1.3. Con la terza doglianza, si segnalava che nel caso di specie ben poteva trovare applicazione l'art. 131-bis c.p., trattandosi sicuramente di un fatto tenue.

1.2. La Corte di appello di Trento, Sezione distaccata di Bolzano, con sentenza del 7 marzo 2019, ha dichiarato inammissibile l'appello.

I giudici di secondo grado hanno osservato che, ai sensi dell'art. 593 c.p.p., le sentenze di condanna alla sola pena dell'ammenda - qual è quella appellata - non sono suscettibili di appello.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il difensore di B. chiedendone l'annullamento sulla base di cinque motivi.

2.1. Con il primo motivo si lamenta l'erronea applicazione degli artt. 593 e 579 c.p.p..

Ad avviso del ricorrente, la Corte territoriale non ha considerato che l'inappellabilità delle sentenze di condanna con cui è stata irrogata la sola pena pecuniaria non si applica quando, come nel caso di specie, la decisione contenga anche la statuizione della confisca dei beni in sequestro, punto oggetto di impugnazione, essendo stato chiarito che è la corte di appello il giudice funzionalmente deputato a conoscere dell'applicazione della misura di sicurezza della confisca disposta con la sentenza di condanna di primo grado.

2.2. Con il secondo motivo, in subordine, si deduce la violazione dell'art. 568 c.p.p., comma 5.

Anche nell'ipotesi in cui la sentenza fosse stata inappellabile, la Corte di appello avrebbe dovuto qualificare correttamente l'atto di impugnazione e trasmettere gli atti alla Corte di cassazione, in osservanza del principio generale espresso dalla norma suindicata, valutando l'atto al di là del suo nomen iuris.

2.3. Con il terzo motivo, la difesa ripropone la doglianza articolata come prima nel pregresso atto di impugnazione: B. era, al momento del fatto, soggetto senza fissa dimora, secondo quanto era risultato dalla deposizione dell'agente di Polizia L.M.: e su questo punto il giudice di merito non ha espresso alcuna considerazione.

2.4. Con il quarto motivo, si richiama la seconda censura dell'atto di impugnazione, relativa all'omesso dissequestro invece affermato in motivazione.

2.5. Con il quinto motivo, si ripropone la terza doglianza dell'impugnazione pregressa in merito alla mancata applicazione dell'art. 131-bis c.p..

Al riguardo, si prospetta la questione di legittimità costituzionale dell'art. 131-bis c.p. e art. 593 c.p.p., per violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui tali norme non prevedono la possibilità di dedurre per la prima volta in cassazione la particolare tenuità del fatto: il fatto di non aver dedotto la questione nell'unico grado di merito va coniugato, per il ricorrente, con il rilievo che non è sussistita la concreta possibilità di introdurla nel secondo grado di merito, sicchè, quando si verte in casi che eliminano un grado di giudizio, la disciplina processuale dovrebbe necessariamente contemplare, per evitare il vulnus al diritto di difesa, la giuridica possibilità di inquadrare il fatto oggetto di contestazione fra quelli di particolare tenuità innanzi alla Corte di cassazione.

3. Il Procuratore generale ha chiesto dichiararsi la inammissibilità del ricorso, in quanto le doglianze che lo compongono sono generiche, a fronte di una soluzione di merito correttamente sortita dai gradi di merito.

Motivi della decisione

1. Il ricorso proposto deve accolto per quanto di ragione nella parte in cui ha censurato la sentenza della Corte di appello per essersi pronunciata nel senso dell'inammissibilità dell'appello senza altro provvedimento.

1.1. Non è fondato il primo motivo con cui si sostiene la proponibilità dell'appello avverso la sentenza di primo grado che ha condannato l'imputato alla sola pena dell'ammenda.

Proprio il principio fissato dall'art. 579 c.p.p., comma 3, (a mente del quale l'impugnazione contro la sola disposizione che riguarda la confisca è proposta con gli stessi mezzi previsti per i capi penali, combinato con la norma di cui all'art. 593 c.p.p., comma 3, (nella parte in cui stabilisce l'inappellabilità delle sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell'ammenda), porta a ritenere che anche l'impugnazione della statuizione relativa alla confisca debba seguire quella relativa al capo penale: e, nella specie, l'impugnazione data dall'ordinamento è il ricorso per cassazione.

D'altro canto, della locuzione "disposizione che riguarda la confisca", dettata dall'art. 579 cit. in tema di sentenze che dispongono una misura di sicurezza, si è data già una condivisibile interpretazione omnicomprensiva, nel senso che essa si riferisce tanto alle statuizioni accessorie della sentenza penale che decidono positivamente sulla confisca quanto a quelle che la negano (Sez. 6, n. 3596 del 26/01/1995, Ruffinato, Rv. 201806), ritenendosi peraltro dovuto il controllo di legittimità sulla disposta confisca anche in relazione a statuizioni, emesse in riti speciali, avverso le quali l'impugnazione prevista è il solo ricorso per cassazione (in particolare quello di cui all'art. 444 c.p.p. e ss.: Sez. 3, n. 30133 del 05/04/2017, S., Rv. 270324; Sez. 6, n. 9930 del 13/02/2014, Scivoli Di Domenico, Rv. 261533).

1.2. E', invece, fondato il secondo motivo.

Invero, pur avendo adottato il nomen dell'appello, la difesa dell'imputato ha articolato censure almeno in parte delibabili come motivi di ricorso per cassazione.

A tale soluzione dovrebbe giungersi anche se si accedesse al, più risalente e restrittivo, indirizzo secondo cui il suddetto precetto va inteso nel senso che solo l'erronea attribuzione del nomen iuris è inidonea a pregiudicare l'ammissibilità di quel mezzo di impugnazione di cui l'interessato, nonostante l'inesatta indicazione, abbia effettivamente inteso avvalersi, con l'effetto che il giudice ha il potere-dovere di provvedere all'appropriata qualificazione del mezzo impugnatorio, privilegiando rispetto alla formale apparenza la volontà della parte di attivare il rimedio all'uopo predisposto dall'ordinamento giuridico, ma con l'ulteriore specificazione che - proprio perchè la disposizione indicata è finalizzata alla salvezza, non alla modifica, dell'effettiva volontà dell'interessato - al giudice non è consentito sostituire il mezzo effettivamente voluto e propriamente denominato, ma inammissibilmente proposto, dalla parte, con quello, diverso, che sarebbe stato astrattamente ammissibile, giacchè, in tale ultima ipotesi, non si tratta di inesatta qualificazione dell'impugnazione, suscettibile di rettifica ope iudicis, bensì di un'infondata pretesa da sanzionare con l'inammissibilità (Sez. U, n. 16 del 26/11/1997, dep. 1998, Nexhi, Rv. 209336).

In effetti, nel caso in esame, nell'originario atto di impugnazione sussistevano (e dunque persistono) censure legittimamente deducibili con il ricorso per cassazione.

Tuttavia, il suindicato rilievo avrebbe dovuto imporre in ogni caso alla Corte di appello, innanzi a cui erroneamente era stata proposta l'impugnazione, di applicare la regola fissata dall'art. 568 c.p.p., comma 5, in virtù della quale l'impugnazione è ammissibile indipendentemente dalla qualificazione datale dalla parte che l'ha proposta e, quindi, se l'impugnazione è proposta a un giudice incompetente, questi trasmette gli atti al giudice competente.

Si condivide, al riguardo, il principio di diritto secondo cui, se un provvedimento giurisdizionale è impugnato dalla parte interessata con un mezzo diverso dal tipo (unico) normativamente prescritto e/o proposto dinanzi a giudice incompetente, il giudice adito - prescindendo da qualunque analisi valutativa in ordine alla indicazione di parte, se frutto cioè di errore-ostativo o di scelta deliberata - deve limitarsi semplicemente, a norma dell'art. 568 c.p.p., comma 5, a prendere atto della voluntas impugnationis (elemento che determina l'esistenza giuridica dell'atto proposto e lascia impregiudicata la sua validità) e a trasmettere gli atti al giudice competente, con atto da inquadrarsi nella categoria della qualificazione giuridica dell'atto (diverso dalla conversione della impugnazione: istituto del quale costituiscono ipotesi specificamente disciplinate quelle di cui all'art. 569 c.p.p., commi 2 e 3 e art. 580 c.p.p.), essendo poi riservato in via esclusiva al giudice competente a conoscere, secondo la previsione del sistema normativo, sia dell'ammissibilità che della fondatezza dell'impugnazione, il potere di procedere alla definitiva qualificazione e di accertare l'esistenza dei requisiti di validità dell'atto.

Ciò, con l'ulteriore effetto che la trasmissione degli atti al giudice competente non richiede necessariamente un provvedimento giurisdizionale, ma può avvenire anche con un atto di natura meramente amministrativa, unico limite all'operatività dell'art. 568 cit., comma 5, essendo costituito dall'accertamento di non impugnabilità del provvedimento, che esclude concettualmente qualunque possibilità di diversa qualificazione del mezzo eventualmente proposto (Sez. U, ord., n. 45371 del 31/10/2001, Bonaventura, Rv. 220221; fra le successive, Sez. 6, n. 38253 del 05/06/2018, Borile, Rv. 273738).

Ha, pertanto, errato la Corte di appello a delibare funditus l'impugnazione e a dichiarare inammissibile l'appello, invece di qualificarlo come ricorso per cassazione, con la conseguente trasmissione degli atti.

Si versa, dunque, nell'ipotesi in cui deve provvedersi necessariamente all'annullamento senza rinvio della sentenza del giudice di appello che si è erroneamente pronunciato sull'impugnazione avverso una sentenza inappellabile, con conseguente necessità di una pronuncia della Corte di cassazione sull'originaria impugnazione, da qualificarsi come ricorso, dopo aver ritenuto il giudizio (Sez. 5, n. 13905 del 08/02/2017, B., Rv. 269597; Sez. 7, n. 15321 del 06/06/2016, dep. 2017, Boggione Rv. 269696).

3. Trascorrendo, in via di ulteriore conseguenza, all'esame dell'originaria impugnazione, come ora qualificata, la prima doglianza dell'appello (riproposta come terzo motivo nell'atto di impugnazione formulato per l'accesso al presente vaglio) si profila inammissibile.

Essa, invero, propone una valutazione di merito alternativa: in modo dirimente, si osserva che la sentenza resa dal Tribunale non ha accertato che l'imputato fosse un soggetto senza fissa dimora, al livello tale da non avere alcuno spazio a lui riservato per depositarvi gli oggetti destinati all'offesa della persona, sicchè egli è stato correttamente ritenuto obbligato al rispetto della L. n. 110 del 1075, art. 4 che vieta di portare fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, senza giustificato motivo, strumenti, pur non considerati espressamente come arma da punta o da taglio, ma chiaramente utilizzabili, per le circostanze di tempo e di luogo, per l'offesa alla persona, quali sono stati ritenuti - con valutazione congrua e incensurabile - i due oggetti di cui in rubrica.

La decisione di merito ha spiegato - in modo adeguato e logico - che non sono emerse giustificazioni, nemmeno nel corso del processo, del porto, rimasto ingiustificato, del coltello e del taglierino da parte dell'imputato.

Il rilievo è già decisivo: invero, è da sottolinearsi che il giustificato motivo rilevante ai sensi della L. n. 110 del 1975, art. 4 non è quello dedotto a posteriori dall'imputato o dalla sua difesa, ma quello espresso immediatamente, in quanto riferibile all'attualità e suscettibile di una immediata verifica da parte dei verbalizzanti (Sez. 1, n. 19307 del 30/01/2019, Naimi, Rv. 276187).

Nè - va, in ogni caso, soggiunto - al soggetto senza fissa dimora può ritenersi consentito il porto indiscriminato e ingiustificato di oggetti del tipo suindicato sol perchè egli si trova a non godere di un'abitazione stabile, dal momento che anche tale soggetto fa ordinariamente riferimento a un luogo a lui riservato dove depositare gli oggetti che, se portati al di fuori di esso, sono tali da determinare l'integrazione della succitata fattispecie incriminatrice.

Per questa ragione, stabilire in quale misura il soggetto senza fissa dimora possa o meno rispondere, nei singoli casi, del reato di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 4 si profila questione che non può decidersi in via generale e astratta, potendo la sua situazione di vita far ritenere giustificato che egli abbia con sè gli strumenti di prima necessità, per lui indispensabili al fine di soddisfare i suoi bisogni quotidiani nelle condizioni date, condizioni che vanno considerate per valutare la giustificazione in merito al porto dello strumento, in relazione alla connessione eventualmente individuabile fra le condizioni stesse e le utilità immediate che lo strumento possa determinare per il suo portatore che si trova senza fissa dimora. Certamente, però, il suddetto soggetto non potrebbe far leva sulla sua condizione per portare ovunque e senza adeguata giustificazione ogni tipo di coltello o strumento volto all'offesa, basandosi sulla deduzione - la quale si risolverebbe in una petizione di principio - che, altrimenti, egli non avrebbe dove custodirlo.

Invero, la ratio della norma incriminatrice induce a identificare il motivo giustificativo del porto di tali strumenti soltanto nello scopo determinato da particolari esigenze del portatore perfettamente corrispondenti a regole comportamentali lecite e correntemente seguite ed accettate: in mancanza della sussistenza di tale giustificato motivo, il destinatario di essa, se intende possedere siffatti strumenti, deve necessariamente provvedere a custodirli nell'abitazione o nelle sue appartenenze.

Anche sotto il peculiare aspetto ora analizzato viene, dunque, in rilievo il condiviso principio di diritto in base al quale il giustificato motivo del porto degli oggetti di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 4, comma 2, ricorre soltanto quando particolari esigenze dell'agente siano perfettamente corrispondenti a regole comportamentali lecite relazionate alla natura dell'oggetto, alle modalità di verificazione del fatto, alle condizioni soggettive del portatore, ai luoghi dell'accadimento e alla normale funzione dell'oggetto (Sez. 1, n. 9662 del 03/10/2013, dep. 2014, Dibra, Rv. 259787; Sez. 1, n. 4498 del 14/01/2008, Genepro, Rv. 238946).

4. Parimenti inammissibile, per manifesta infondatezza, deve considerarsi il terzo motivo di impugnazione, di cui all'atto di appello, come poi qualificato, motivo richiamato e specificato nella quinta doglianza del susseguente ricorso.

Esso inerisce alla doglianza del mancato rilievo della causa di esclusione della punibilità di cui all'art. 131-bis c.p., per la particolare tenuità del fatto.

E' pacifico che, pur potendo farlo, l'imputato non ha allegato l'evenienza della succitata causa di non punibilità del fatto innanzi al giudice di merito, ma l'ha dedotta per la prima volta con l'impugnazione, peraltro configurandola in modo del tutto aspecifico nell'appello, costituente l'atto che ha introdotto il mezzo (poi qualificato) da valutarsi in questa sede, soltanto nel susseguente ricorso adducendo la lesione del diritto di difesa per aver proposto per la prima volta la questione in sede di legittimità, senza possibilità di vedersela delibare, e ritenendo l'assetto sistematico che presiede a tale regime sospetto di illegittimità costituzionale.

Va, in primo luogo, ricordato che la causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p. non può essere dedotta per la prima volta in cassazione, se tale disposizione era già in vigore alla data della deliberazione della sentenza di merito, ostandovi la previsione di cui all'art. 606 c.p.p., comma 3, (Sez. 2, n. 21465 del 20/03/2019, Semmah Ayoub, Rv. 275782; Sez. 1, n. 49733 del 19/06/2018, Muscolino, n. m.; Sez. 3, n. 23174 del 21/03/2018, Sarr, Rv. 272789).

Anche le Sezioni Unite, nella trattazione dedicata all'istituto - se hanno ritenuto che, laddove non sia stato possibile, stante la sopravvenienza normativa, proporre in grado di appello il tema afferente all'applicazione dell'art. 131-bis c.p., esso possa essere dedotto davanti alla Corte di cassazione ed essere altresì rilevato di ufficio ai sensi dell'art. 609 c.p.p., comma 2, essendosi in presenza di innovazione di diritto penale sostanziale, che disciplina l'esclusione della punibilità e che reca senza dubbio una disciplina più favorevole, e trovando, il novum, applicazione retroattiva ai sensi dell'art. 2 c.p., comma 4, in quanto il principio espresso da tale ultima norma impone la sua applicazione ex officio, anche in caso di ricorso inammissibile - hanno contestualmente precisato che, laddove invece non venga in questione l'applicazione della sopravvenuta legge più favorevole ai sensi dell'art. 609 c.p.p., comma 2, l'inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la deducibilità e la rilevabilità di ufficio della causa di non punibilità (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266594).

E' pur vero che, in questo caso, manca la delibazione di merito in grado di appello, non prevista dal rito. Ma è parimenti certo che la deduzione dell'art. 131-bis c.p. involge innanzi tutto una questione di accertamento del fatto che il giudice di merito, nell'unico grado svolto, ha vagliato negativamente, non avendo ravvisato l'evenienza della già operante causa di non punibilità.

In prospettiva in certo modo assonante, d'altro canto, si è da parte delle Sezioni Unite chiarito che il giudice di appello non ha il potere di applicare di ufficio le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, se nell'atto di impugnazione non risulta formulata alcuna specifica e motivata richiesta con riguardo a tale punto della decisione (Sez. U, n. 12872 del 19/01/2017, Punzo, Rv. 269125, dove viene evidenziato, poi, che l'ambito di tale potere è circoscritto alle ipotesi tassativamente indicate dall'art. 597 c.p.p., comma 5, che costituisce una eccezione alla regola generale del principio devolutivo dell'appello e che segna anche il limite del potere discrezionale del giudice di sostituire la pena detentiva previsto dalla L. n. 689 del 1981, art. 58). In senso non estraneo a tale linea, sempre il più autorevole consesso di legittimità si è attestato, in tema di sospensione condizionale della pena, quando ha sottolineato che l'imputato non può dolersi, con ricorso per cassazione, della mancata concessione della sospensione condizionale, qualora non ne abbia fatto richiesta nel corso del giudizio di merito, impregiudicato l'obbligo del giudice d'appello di motivare circa il mancato esercizio del potere-dovere di applicazione di detto beneficio in presenza delle condizioni che ne consentono il riconoscimento (Sez. U, n. 22533 del 25/10/2018, dep. 2019, Salerno, Rv. 275376).

Nè pare potersi individuare in modo non manifestamente infondato il sospetto di illegittimità costituzionale del regime normativo così precisato, non apparendo conforme a logica ermeneutica impostare la relativa questione con isolato riferimento alla causa di non punibilità in esame, considerata in modo avulso dalla dialettica procedimentale in cui essa, nel caso di specie, si innesta.

Sul tema generale, si è affermata la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 593 c.p.p., comma 3, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui dispone l'inappellabilità delle sentenze di condanna per le contravvenzioni per le quali è stata applicata la sola pena dell'ammenda nelle fattispecie in cui è prevista la pena alternativa, in quanto il diritto all'appello non è stato costituzionalizzato, sicchè esso non può ritenersi imposto dall'art. 24 Cost., nè la suddetta limitazione confligge con il principio di ragionevolezza desunto dall'art. 3 Cost., giacchè il legislatore può ragionevolmente escludere l'appello per il caso in cui il giudice abbia condannato il contravventore alla sola pena dell'ammenda e conservarlo per il caso in cui il giudice abbia irrogato la pena dell'arresto, la diversità di trattamento essendo giustificata dalla diversa valutazione giudiziaria della gravità del reato (Sez. 3, n. 1552 del 14/11/2002, dep. 2003, Pestarino, Rv. 223271; Sez. 3, n. 8340 del 18/12/2000, dep. 2001, Rv. 218194).

E, poi, sulla verifica di costituzionalità dell'art. 593 c.p.p., all'esito della riscrittura della norma introdotta dalla L. n. 46 del 2006, in sede di declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge ora indicata, nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 c.p.p., esclude che l'imputato possa appellare contro le sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, fatta eccezione per le ipotesi previste dall'art. 603 c.p.p., comma 2, se la nuova prova è decisiva, e di illegittimità costituzionale della citata Legge, art. 10, comma 2, nella parte in cui prevede che l'appello proposto prima dell'entrata in vigore della medesima legge dall'imputato, a norma dell'art. 593 c.p.p., contro una sentenza di proscioglimento, relativa a reato diverso dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, sia dichiarato inammissibile (Corte Cost. n. 85 del 2008), si è espressamente chiarito, da parte del Giudice delle leggi, come debba evitarsi che la rimozione della condizione posta dalla L. n. 46 del 2006 all'appellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte dell'imputato - condizione legata alle nuove prove decisive - generalizzi detta incongruenza, senza che a ciò possa farsi fronte tramite lo strumento della declaratoria di illegittimità consequenziale dell'art. 593 c.p.p., comma 3, consentendo all'imputato di appellare contro le sentenze di condanna alla sola ammenda, in quanto questa soluzione, di natura creativa, determinerebbe un risultato - la caduta di ogni limite oggettivo all'appello - privo di riscontro nel pregresso assetto dell'istituto ed estraneo alla stessa voluntas legis.

Conclusivamente, se l'eliminazione di un grado di merito, quello di appello, stabilita dall'art. 593 c.p.p., comma 3, per le sentenze di condanna comportanti la sola pena dell'ammenda, non desta questioni di costituzionalità non manifestamente infondate, deve concludersi allo stesso modo per gli effetti relativi al limite di deducibilità della particolare tenuità del fatto, in quanto trattasi di istituto innestato in quella specifica dialettica processuale, depurata di un grado di merito per insindacabile scelta legislativa.

5. Evidentemente fondato si appalesa invece il secondo motivo dell'originaria impugnazione (riproposto come quarto nel ricorso).

La confisca è stata pronunciata dal Tribunale, con riferimento al dispositivo della sentenza, in modo indiscriminato, ossia ricomprendendo tutti gli oggetti sequestrati a B. (la stessa decisione avendo dato atto che, oltre ai due strumenti inseriti nell'imputazione, il vincolo cautelare ha riguardato altri beni in possesso dell'imputato, citando espressamente un chiavistello in metallo multifunzioni, un set di chiavi e un giravite).

Nella motivazione della sentenza - in contrasto con il suddetto dispositivo, ma in accordo con la statuizione condannatoria che ha attinto l'imputato - il Tribunale ha osservato che la confisca deve essere disposta, ai sensi della L. n. 110 del 1975, art. 4 per i soli taglierino e coltello, prefigurando il dissequestro e la restituzione all'avente diritto delle restanti cose in giudiziale sequestro, sull'espresso rilievo dell'assenza di collegamento tra il reato accertato e gli ulteriori oggetti, di cui non si è ravvisata l'assoggettabilità a confisca obbligatoria.

La contraddizione è evidente: e non può dubitarsi che è il dispositivo della sentenza, con la portata decisoria che ne è discesa, ad avere ecceduto nell'individuazione dell'oggetto della confisca disposta ai sensi dell'art. 4 cit..

6. Di conseguenza, una volta annullata senza rinvio la sentenza emessa dalla Corte di appello di Trento, Sezione distaccata di Bolzano, all'esito dello scrutinio dell'impugnazione, come qualificata, anche la decisione del Tribunale di Bolzano va annullata senza rinvio, ma soltanto nella parte in cui ha disposto tale eccedente confisca, le cose diverse dal taglierino e dal coltello oggetto di imputazione dovendo, invece, essere dissequestrate e restituite all'avente diritto, mentre nel resto il ricorso va dichiarato inammissibile.

P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza della Corte di appello di Bolzano in data 07/03/2019, e, qualificato l'appello come ricorso, ritenuto il giudizio, annulla senza rinvio la sentenza del Tribunale di Bolzano in data 17/05/2017 limitatamente alla confisca degli oggetti diversi dal taglierino e dal coltello, confisca che per tali restanti cose elimina, disponendone la restituzione all'avente diritto.

Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.

Così deciso in Roma, il 30 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2020