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Segreto professionale non può essere aggirato (Cass. 29495/18)

27 giugno 2018, Cassazione penale

la facoltà di astensione dell’avvocato non costituisce un’eccezione alla regola generale dell’obbligo di rendere testimonianza, ma è essa stessa espressione del diverso principio di tutela del segreto professionale.

E' indubbio che l’avvocato possa astenersi dal testimoniare, opponendo il segreto professionale, in merito ai fatti di cui ha preso conoscenza relazionandosi con altri difensori nell’espletamento del proprio mandato. Parimenti non può dubitarsi che il recepimento di un’offerta risarcitoria riportata dal collega che difende l’indagato e comunicare la stessa al proprio assistito siano attività che rientrano nel mandato, formalizzato o meno che sia stato in atti, del difensore della persona offesa.

Nel giudizio d’appello cautelare è sempre consentito alle parti - al fine di garantire la corrispondenza della piattaforma cognitiva del giudice (e dunque lo status libertatis) alle reali risultanze del procedimento - la produzione di documentazione relativa ad elementi probatori nuovi, preesistenti o sopravvenuti, purché in ordine ad essi sia assicurato nel procedimento camerale il contraddittorio delle parti, anche mediante la concessione di un congruo termine per esaminarle e predisporre le proprie eventuali controdeduzoni.

Qualora il pubblico ministero, nelle more della decisione su una impugnazione incidentale de libertate, intenda utilizzare, nei confronti dello stesso indagato e per lo stesso fatto, elementi probatori "nuovi" può scegliere se riversarli nel procedimento impugnatorio ovvero porli a fondamento di una nuova richiesta cautelare, ma, una volta effettuata, la scelta gli preclude di coltivare l’altra iniziativa cautelare.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 14 maggio – 27 giugno 2018, n. 29495
Presidente Fumo – Relatore Pistorelli

Ritenuto in fatto

1. Con l’ordinanza impugnata il Tribunale di Torino, in accoglimento dell’appello proposto ai sensi dell’art. 310 c.p.p. dal pubblico ministero avverso il provvedimento di revoca della misura cautelare precedentemente disposta adottato dal G.i.p. dello stesso Tribunale il 14 dicembre 2017, ha applicato a B.F. la custodia cautelare in carcere per i reati di sequestro di persona a scopo di estorsione e rapina aggravata commessi ai danni di N.I. . Secondo l’impostazione accusatoria recepita dai giudici del merito, il suddetto N. veniva prelevato da due uomini insieme ad un amico (tale C. , che è stato a sua volta sottoposto a cautela in quanto indiziato di essere stato complice dei sequestratori) nel primo pomeriggio del (omissis) e trasportato, dopo essere stato incappucciato, in un garage sito in (omissis) , affittato da uno di essi (identificato successivamente per A.A. ), dove, una volta legato, veniva percosso e minacciato di morte con un coltello alla presenza anche di altri individui nel frattempo sopraggiunti. Cedendo alle richieste dei sequestratori, il N. acconsentiva di contattare persona di sua fiducia che avrebbe potuto consegnare parte della somma richiesta per il riscatto(tre milioni di Euro) al C. , mentre lui sarebbe rimasto in ostaggio nel garage in attesa del ritorno di quest’ultimo. Il piano subiva però un repentino cambiamento perché, nel tagliare le fascette di plastica che lo legavano, uno dei rapitori feriva il N. ad un piede, causandogli un copioso sanguinamento. Pertanto i rapitori decidevano che il citato C. avrebbe accompagnato la vittima al pronto soccorso e poi a prelevare il danaro, dovendo però fare ritorno successivamente al garage, minacciando in caso contrario di uccidere i familiari del N. . Prima di lasciarli andare, i sequestratori si impossessavano peraltro di alcuni oggetti di valore indossati dai due (orologi, bracciali, anelli ecc.). La persona offesa, intimorita dalle minacce non denunciava l’accaduto, confidandosi però il giorno successivo con un amico che avvertiva le forze dell’ordine dando l’impulso alle indagini a seguito delle quali veniva identificato il B. come uno dei due uomini che avevano sequestrato il N. e lo avevano portato nella rimessa teatro dei successivi avvenimenti. Sulla base dei tabulati telefonici relativi alle utenze in uso a tutti i protagonisti della vicenda di cui era conosciuta l’identità, delle dichiarazioni del N. e del riconoscimento fotografico da lui effettuato, nonché di ulteriori indizi, il G.i.p. di Torino applicava all’odierno indagato la misura cautelare della custodia in carcere per i reati sopra ricordati (misura invero mai eseguita in quanto il B. si era nel frattempo allontanato dall’Italia per recarsi a Dubai). Misura che lo stesso giudice revocava su istanza della difesa con il provvedimento poi appellato dal pubblico ministero ritenendo non più sussistenti i gravi indizi di colpevolezza. Nelle more del giudizio di appello, quest’ultimo presentava una nuova richiesta cautelare, fondata anche su ulteriori emergenze investigative, peraltro riversate a più riprese anche nel procedimento pendenti dinanzi al Tribunale. Il G.i.p., con ordinanza del 5 febbraio 2018, accoglieva la richiesta, salvo poi revocare anche la nuova misura all’esito dell’interrogatorio di garanzia, recependo in tal senso l’eccezione formulata in quella sede dalla difesa in merito alla preclusione determinata dalla pregressa proposizione dell’appello cautelare.

2. Avverso l’ordinanza ricorre l’indagato a mezzo dei propri difensori articolando dodici motivi.

2.1 Con il primo motivo viene eccepita l’illegittimità del provvedimento impugnato stante la sopravvenuta inammissibilità dell’appello del pubblico ministero, atteso che la pregressa utilizzazione ai fini dell’adozione della nuova misura cautelare dei nova probatori prodotti anche nel giudizio d’appello, comportava, in ossequio al divieto di ne bis in idem, l’improcedibilità dell’impugnazione. In tale ottica, errata deve ritenersi per il ricorrente la risposta fornita dal Tribunale all’analoga eccezione sollevata nel giudizio d’appello, per cui non sussisterebbe alcuna sopravvenuta preclusione alla coltivazione dell’impugnazione per difetto di litispendenza, posto che la misura adottata il 5 febbraio 2018 è stata successivamente revocata in data anteriore a quella di decisione dell’appello del pubblico ministero. Infatti il succitato divieto, che opera per conforme giurisprudenza anche nella fase cautelare, implica la preclusione al contestuale utilizzo di strumenti processuali diversi in relazione al medesimo fatto. Nulla impediva infatti all’accusa di esercitare una nuova azione cautelare, ma tale iniziativa era inevitabilmente alternativa a quella precedentemente attivata e ne precludeva la coltivazione, posto che entrambe si fondavano sugli stessi elementi. Né varrebbero le ulteriori osservazioni del Tribunale, per cui nel giudizio d’appello i nova sarebbero stati riversati solo su sollecitazione della difesa, che dunque non potrebbe lamentare una preclusione conseguente al soddisfacimento di una propria richiesta. Infatti l’indagato si sarebbe in tal senso limitato ad esercitare il proprio diritto a conoscere tutti gli atti posti a fondamento dell’appello in quanto direttamente o indirettamente richiamati dall’atto di impugnazione. In ogni caso la sollecitazione avrebbe riguardato solo una parte degli atti oggetto della produzione integrativa della pubblica accusa, che per il resto è stata frutto dell’autonoma iniziativa di quest’ultima.
2.2 Con il secondo motivo il ricorrente deduce ulteriore violazione di legge in merito alla dichiarata inammissibilità della memoria difensiva e dei documenti ad essa allegati, depositati all’udienza del 16 febbraio 2018. Premesso che solo alcuni dei suddetti documenti erano inediti, essendo gli altri già presenti in atti, Il Tribunale ha erroneamente dichiarato inammissibili le produzioni della difesa ritenendole intempestive ai sensi del secondo comma dell’art. 127 c.p.p., ignorando la costante elaborazione giurisprudenziale per cui, nel giudizio d’appello cautelare, alla parte è consentito documentare elementi probatori nuovi, preesistenti o sopravvenuti, al fine di garantire che la decisione rifletta il costante adeguamento dello status libertatis dell’indagato alle effettive risultanze del procedimento, purché ciò avvenga nel rispetto del contraddittorio camerale, assicurato anche dalla concessione di un congruo termine all’altra parte per prendere cognizione dei nova prodotti. L’illegittima espunzione di quelli prodotti dalla difesa nel caso di specie si riverbera poi, secondo il ricorrente, sulla tenuta argomentativa del provvedimento impugnato che ha omesso di valutarne l’idoneità a dimostrare l’insussistenza delle condizioni per l’applicazione della misura cautelare.
2.3 Ulteriore violazione di legge viene eccepita con il terzo motivo. In tal senso il ricorrente lamenta come nell’avviso notificato al difensore relativo ad accertamenti tecnici irripetibili da eseguirsi all’interno del garage di (omissis) non si facesse menzione alcuna alla necessità di effettuare successive analisi biologiche di tracce ematiche eventualmente repertate. Ne, come risulta dal relativo verbale, all’atto di esecuzione di tali accertamenti gli operanti delegati hanno fatto riferimento agli stessi, limitandosi ad evocare l’attività di ricerca di tracce di sostanza ematica e di impronte papillari. Pertanto, contrariamente a quanto sostenuto nell’ordinanza impugnata, le analisi successivamente effettuate sulle tracce ematiche repertate all’interno della rimessa e tese all’estrapolazione del profilo genetico (poi risultato coincidente con quello estratto dai campioni prelevati sulla persona del N. ), pur costituendo un accertamento irripetibile, sono state eseguite senza che la difesa venisse avvisata, in palese violazione dei propri diritti per come enucleati dall’art. 360 c.p.p. e nonostante la stessa avesse presentato apposita richiesta in proposito il 6 luglio 2017. Parimenti all’insaputa della difesa è stato eseguito il prelievo sulla persona del N. dei campioni biologici necessari per la comparazione. Non solo dalla relazione relativa ai suddetti accertamenti risulta che l’attività di estrazione del DNA dai reperti è stata eseguita in giorni diversi e non senza soluzione di continuità, come invece originariamente indicato nel verbale del 29 giugno 2017. Conseguentemente i risultati di tali accertamenti devono ritenersi inutilizzabili e l’ordinanza impugnata deve ritenersi illegittima nella parte in cui ritiene raggiunta la prova in ordine alla presenza del sangue della persona offesa all’interno dei citato garage di (omissis) .
2.4 Con il quarto motivo viene eccepita l’inutilizzabilità ai sensi degli artt. 191, 195 comma 6 e 200 c.p.p. delle dichiarazioni rese de relato dal N. il 10 maggio 2017 in merito ad una presunta offerta risarcitoria formulata dall’indagato e comunicata dal suo difensore all’avv. Perga, legale della persona offesa. Lamenta il ricorrente come l’ordinanza impugnata abbia escluso l’opponibilità del segreto professionale da parte del succitato avv. Perga in relazione a quanto comunicatogli dal collega, sulla base dell’erroneo presupposto che le norme del Codice Deontologico Forense che impongono all’avvocato il segreto non potrebbero ampliare il perimetro di operatività dello stesso nel processo penale, il cui limite sarebbe segnato esclusivamente dalla garanzia del diritto di difesa. In tal senso il Tribunale avrebbe però omesso di considerare come le suddette disposizioni (e in particolare quelle di cui agli artt. 13, 28, 38 e 51 del summenzionato Codice) siano state emanate dal CNF sulla base di specifica delega legislativa e con la funzione di integrare il contenuto precettivo della fonte primaria. Pertanto l’avvocato è pienamente vincolato a rispettare gli obblighi di segretezza impostigli dalle norme deontologiche e conseguentemente dall’astenersi, salvo casi eccezionali, dal testimoniare, sulle informazioni acquisite nell’esercizio del proprio mandato defensionale opponendo il segreto professionale. Il segreto, oltre a costituire un dovere per l’avvocato, è anche un diritto del medesimo, così come del cittadino assistito, ma non può in tale accezione considerarsi disponibile, se non nei limiti dettati dall’art. 28 del CDF, in quanto attribuito ai fini di tutela del diritto di difesa in quanto tale. Conseguentemente, posto che l’avv. Perga già ha opposto il segreto professionale una volta convocato il 16 maggio 2017 per essere assunto a sommarie informazioni su quanto riferito al suo assistito, le dichiarazioni di quest’ultimo non potevano considerarsi utilizzabili ed il loro contenuto indiziario deve ritenersi illegittimamente posto a fondamento della decisione impugnata. Infatti, secondo il ricorrente, contrariamente a quanto indirettamente sostenuto nel provvedimento impugnato, l’inutilizzabilità delle suddette dichiarazioni deve ritenersi assoluta e dunque operante anche nell’incidente cautelare.
2.5 Con il quinto motivo vengono dedotti vizi di motivazione in merito alla ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza dei reati contestati. In particolare il ricorrente rileva come il Tribunale abbia in maniera apodittica ritenuto dimostrato, sulla base dei dati relativi alla geolocalizzazione della sua utenza cellulare, che il B. si trovasse al momento del rapimento del N. nei pressi dell’albergo dove quest’ultimo venne rapito e, successivamente, nel garage di via (...), senza tenere conto delle puntuali obiezioni sollevate sul significato dei suddetti dati nelle relazioni del consulente tecnico della difesa.
2.5.1 In particolare, sulla base dell’effettivo perimetro di irradiamento della cella agganciata (dato non considerato negli atti di p.g.), era stato contestato come fosse più probabile che il telefono dell’indagato si trovasse nei pressi del (...) di p.zza (omissis) - luogo dove egli ha riferito di essersi recato per consumare un panino con il coindagato Al. , come confermato da quest’ultimo - piuttosto che del citato albergo. Non solo, nel periodo di circa un’ora ritenuto di interesse investigativo, risulterebbe che l’utenza del B. avesse agganciato anche una cella più distante di quella servente (omissis) e la strada dell’hotel. In proposito, secondo il ricorrente, appare allora manifestamente illogica la considerazione dei giudici dell’appello circa la distanza in linea d’aria della relativa antenna, formulata in assenza di qualsiasi accertamento sul perimetro d’irradiazione della stessa. Accertamento invece eseguito dal consulente della difesa e dal quale risulta la modesta copertura fornita dalla medesima, nonché la sua maggior vicinanza alla summenzionata piazza. Ancora l’ipotesi accusatoria recepita dal Tribunale presuppone che il B. e il suo complice si siano appostati attendendo l’uscita della vittima dall’albergo, mentre risulta dagli atti che il pernottamento del N. nella struttura dopo la festa a sorpresa per i suo compleanno non fosse stato programmato e che per tutta la giornata del 24 aprile non siano stati registrati contatti telefonici tra l’indagato ed il C. (il presunto "basista" del rapimento) o tra quest’ultimo e l’Al. . Il ricorso eccepisce poi che, sulla base degli atti, il sequestro sarebbe avvenuto alle 15.15, orario però incompatibile con quanto dimostrato da consulente della difesa e non considerato nel provvedimento impugnato e cioè che nei minuti immediatamente precedenti l’utenza del B. ha agganciato in sequenza celle telefoniche in direzione Superga distanti alcuni chilometri dalla scena del delitto. Irrilevanti sarebbero infine le considerazioni del Tribunale circa il fatto che l’indagato non abbia risposto alle telefonate della madre e che l’utenza dell’Al. abbia agganciato la medesima cella cui era collegata quella del N. pressoché contestualmente, posto che non è dimostrato che questi fosse ancora in compagnia del B. .
2.5.2 Analoghi rilievi vengono svolti dal ricorrente con riguardo alla geolocalizzazione dell’utenza del B. nella zona del garage di (omissis) . In proposito si lamenta che il provvedimento impugnato abbia nuovamente omesso di confrontarsi con le osservazioni del consulente tecnico della difesa, il quale aveva dimostrato come l’irradiazione delle celle cui si è agganciato il telefono dell’indagato negli orari d’interesse in realtà si sviluppi nel senso opposto a quello della zona in cui si trova il suddetto garage. Il Tribunale avrebbe poi sostanzialmente travisato il senso della nota trasmessa dal gestore della rete nel riconoscere la possibilità statistica che l’utenza, pur presente in (omissis) , si fosse agganciata alle celle su cui è stata registrata, posto che dalla stessa si ricava soltanto la maggior probabilità che da quel sito venga agganciata la cella considerata la "best server" nell’area e - particolare trascurato dai giudici del merito - che le celle serventi nello specifico non sono quelle che ha agganciato il B. . Smentita dalle risultanze dei tabulati sarebbe anche l’affermazione per cui la zona dove è sito il box non sarebbe stato luogo abitualmente frequentato dall’indagato, posto che dalla mera lettura dei medesimi emerge come egli avesse agganciato le medesime celle in contestazione numerose altre volte tra il gennaio e l’aprile del 2017. Quanto infine alla telefonata intercorsa tra il B. e l’A. poco dopo le 18.30 del 24 aprile, sulla base della quale il Tribunale ha ipotizzato che egli nel tardo pomeriggio avesse fatto ritorno sul "luogo del delitto, il ricorrente osserva come ancora una volta la cella agganciata non sia quella servente (omissis) e come in ogni caso solo due minuti dopo la sua utenza agganciava altra cella, circostanza che dimostra come egli fosse in movimento e non certo presente nel garage, esattamente come egli ha dichiarato nel proprio scritto difensivo.
2.6 Con il sesto motivo ancora vizi della motivazione vengono dedotti con riguardo alla ritenuta falsità dell’alibi del B. , al più valutabile quale neutro, come aveva fatto il G.i.p. nel provvedimento di revoca. In realtà il Tribunale avrebbe omesso di considerare che la M. - la ex-compagna dell’indagato con il quale egli ha riferito di essersi incontrato il 24 aprile in (omissis) - quando ha reso le proprie dichiarazioni ancora non sapeva del coinvolgimento di quest’ultimo nel rapimento del N. , nonché il fatto che Al. abbia confermato racconto del B. e ciò ben prima che questi si incontrasse con la ex-compagna a Dubai. Infine i giudici dell’appello avrebbero sostanzialmente travisato il senso dei messaggi che lo stesso Al. e l’indagato si sono scambiati in proposito, estrapolandone fuori contesto solo una parte.
2.7 Ulteriori vizi della motivazione il ricorrente denunzia in merito al riconoscimento fotografico dell’A. effettuato dal N. , in relazione al quale il Tribunale avrebbe trascurato sia il progressivo aggiustamento della descrizione fisica del coindagato da parte della persona offesa nelle successive occasioni in cui è stato assunto a sommarie informazioni, sia le dichiarazioni dell’al. - la donna che aveva passato la notte con il N. nell’albergo teatro del rapimento e unica testimone "indipendente" dello stesso - che in parte contraddicono quelle della vittima e dalle quali, soprattutto, non emerge il particolare della zoppia di uno dei sequestratori invece riferito dal N. , peraltro solo dopo che tale circostanza era emersa nel corso dell’interrogatorio di A. . 2.8 Analoghi vizi di motivazione vengono prospettati con l’ottavo motivo in merito alla ritenuta attendibilità del riconoscimento fotografico dell’indagato effettuato dal N. .
2.8.1 Il Tribunale avrebbe in tal senso trascurato di considerare non solo come la descrizione operata da quest’ultimo dell’aspetto del sequestratore poi identificato con il B. non sia compatibile con quello reale, ma altresì che ben prima del "presunto" riconoscimento il N. aveva ricevuto da altri l’indicazione di voci circa l’ipotetico coinvolgimento del B. nel sequestro, che peraltro si era astenuto dal comunicare agli inquirenti. Peraltro egli avrebbe ammesso di non conoscerlo, risultando invece fantasiose le dichiarazioni relative al reperimento su Facebook di una sua fotografia, visto che l’indagato non ha mai pubblicato su alcun soda una propria immagine, ovvero quelle relative ad un loro possibile incontro, collocato in periodo in cui lo stesso era detenuto e comunque non gestiva la carrozzeria indicata dalla persona offesa. Questa peraltro avrebbe progressivamente aggiustato il proprio racconto nel corso delle diverse audizioni, cercando a posteriori di accreditare la versione per cui sin dall’inizio aveva avuto la sensazione di aver riconosciuto l’indagato, giustificando l’iniziale reticenza sulla base del timore nutrito per la propria incolumità, ancorché, come detto, prima del sequestro il N. non avesse invero mai incontrato il B. . E sul punto, rileva ancora il ricorso, anche l’affermazione per cui la persona offesa avrebbe immediatamente condiviso tale dubbio con i propri amici è stata smentita dalle dichiarazioni di questi ultimi, anch’esse non tenute in considerazione nell’articolazione del discorso giustificativo del provvedimento impugnato, con l’unica eccezione di quelle del Tropea, il quale peraltro non aveva riferito la circostanza nella prima occasione in cui è stato sentito dagli inquirenti, ma solo alcuni mesi più tardi.
2.8.2 Analogamente lo S. , alle cui dichiarazioni l’ordinanza impugnata attribuisce rilevante peso indiziario, la prima volta che venne sentito non avrebbe riferito di aver comunicato immediatamente dopo il sequestro al N. le confidenze del C. circa il fatto che un carrozziere "ce l’aveva" con il primo, ma nemmeno aveva poi precisato che costui si identificasse con il B. . Lo stesso S. , nelle successive audizioni, avrebbe più volte cambiato versione, mentre dagli atti, contrariamente a quanto sostenuto nell’ordinanza impugnata, emerge la smentita o comunque la mancata conferma delle circostanze indicate dal teste a riscontro del menzionato incontro con il N. nel corso del quale gli avrebbe comunicato il colloquio con il C. a pochi giorni dal rapimento. Smentita avrebbe trovato altresì l’affermazione del Tribunale per cui le dichiarazioni dello S. sarebbero riscontrate da quelle del Tropea, atteso che quest’ultimo ha riferito solo di alcuni messaggi inviati dal citato C. alla fidanzata (e di cui si parlerebbe significativamente anche in una conversazione intercettata tra l’O. e il P. , che i giudici dell’appello avrebbero omesso di considerare). Conseguentemente illogica è la conclusione cui perviene il provvedimento impugnato per cui proprio le dichiarazioni dello S. colmerebbero il deficit indiziario rilevato dal G.i.p. in merito all’individuazione del B. da parte del N. .
2.8.3 Il ricorrente lamenta ancora il travisamento delle dichiarazioni del Sa. e del Pa., che, secondo il Tribunale, risconterebbero il racconto del N. in merito alle modalità attraverso cui egli avrebbe saputo del coinvolgimento del B. nel rapimento, nonché delle telefonate intercettate il 3 maggio 2017, dalle quali si evince come i primi sospetti dello stesso N. e dei suoi amici caddero su Ce.Ma. e non sull’indagato, come invece ritenuto dal provvedimento impugnato. Sotto altro profilo viene contestata l’illogicità della valutazione dell’attendibilità dell’O. , le cui dichiarazioni non avrebbero trovato riscontro nei tabulati, mentre la effettiva sequenza temporale della sua audizione e di quella del C. dimostrerebbe come egli abbia mentito in merito a presunte confidenze ricevute dagli operanti sui dubbi nutriti sulla sincerità di quest’ultimo. Per contro, contrariamente a quanto sostenuto dal Tribunale, dalle telefonate tra il teste e il P. emergerebbe come egli abbia effettivamente condotto una sorta di indagine "privata" per conto del N. . 2.9 Con il nono motivo il ricorrente denunzia la manifesta illogicità dell’interpretazione svolta dal Tribunale dei messaggi scambiati dallo S. con il C. via chat, senza tenere peraltro conto come dagli stessi emerga l’inquietante dimostrazione che il primo avrebbe ingiustificatamente avuto accesso agli atti d’indagine. Analoghi vizi vengono dedotti con il decimo motivo, con il quale si censura il fatto che il Tribunale, per superare le contraddizioni e le omissioni registrate nelle dichiarazioni rilasciate a più riprese dalla persona offesa, abbia evocato il timore nutrito nei confronti del B. , senza spiegare perché l’indagato avrebbe dovuto incutere un tale timore e senza considerare il pur documentato profilo del N. (soggetto pregiudicato, coinvolto in una indagine sul narcotraffico, nonché legato ad ambienti ‘ndranghetisti), nonché le dichiarazioni di Ca.To..
2.10 Con l’undicesimo motivo il ricorrente deduce violazione di legge e correlati vizi della motivazione in merito al governo delle regole di valutazione degli elementi indiziari e di quella di giudizio propria dell’incidente cautelare, non avendo il Tribunale tenuto conto delle numerose aporie riscontrabili nello sviluppo delle varie dichiarazioni rese dal N. e delle smentite che queste hanno trovato negli atti d’indagine, con particolare riferimento alla telefonata che avrebbe effettuato al Tropea per procacciarsi il danaro da dare ai sequestratori ed ai messaggi scambiati con la fidanzata Pr.Ro. .
2.11 Con il dodicesimo e ultimo motivo vengono infine dedotti ulteriori vizi della motivazione in merito alla sussistenza di esigenze cautelari ed alla proporzionalità della misura applicata. Quanto all’ipotizzato pericolo di inquinamento probatorio, il ricorrente evidenzia come già sia stato notificato all’indagato l’avviso di conclusioni delle indagini, mentre, per quanto concerne le minacce ricevute dallo S. , come le stesse siano state formulate dal C. e non possano essere in alcun modo imputate anche al B. . Quanto invece al pericolo di recidivanza, la motivazione dell’ordinanza impugnata non avrebbe dimostrato la sua concretezza, mentre, con riferimento al pericolo di fuga, viene evidenziato come l’indagato sia volontariamente rientrato da Dubai dopo la revoca della misura pur nella consapevolezza della possibilità di una sua riedizione. Il Tribunale non avrebbe considerato altresì che lo stesso è titolare di un’attività ben avviata e comunque non ha spiegato le ragioni per cui anche una misura non custodiate come il divieto di espatrio non possa ritenersi sufficiente ad arginare tale pericolo.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è fondato nei limiti di seguito esposti.

2. Pregiudiziale è l’esame delle eccezioni processuali proposte con i primi quattro motivi di ricorso. In tal senso manifestamente infondata è peraltro quella sollevata con il primo motivo, ancorché per ragioni diverse da quelle con cui l’ordinanza impugnata ha dichiarato inammissibile l’analoga eccezione dedotta nel giudizio di merito.

2.1 La cessazione della litispendenza evocata dal Tribunale è circostanza affatto irrilevante ai fini dell’accertamento della eventuale sopravvenuta inammissibilità dell’appello cautelare proposta dal pubblico ministero, che deve essere valutata al momento in cui questi ha proposto, in pendenza dell’impugnazione, la nuova iniziativa cautelare, rimanendo irrilevanti le vicende che hanno successivamente riguardato quest’ultima. Parimenti irrilevante è che parte dei nova probatori siano stati prodotti dalla parte pubblica a seguito di sollecitazione della difesa, giacché la decisione di procedere alla produzione è comunque frutto di autonoma determinazione della stessa parte. Peraltro, trattandosi di quaestio iuris comunque correttamente risolta, sono irrilevanti le argomentazioni con le quali il Tribunale ha sostenuto la propria decisione e dunque la sua erroneità non vizia il provvedimento impugnato.

2.2 Come detto, è infatti infondata la pretesa del ricorrente di vedere dichiarata l’inammissibilità dell’appello del pubblico ministero. Per come risulta dagli atti di interesse - in parte allegati al ricorso e comunque ricostruiti nella loro integrale sequenza cronologica nel provvedimento impugnato - la parte pubblica ha comunque prodotto nel primo incidente cautelare - cioè quello per cui è ricorso - alcuni nova probatori che solo successivamente o al più contestualmente sono stati depositati anche al G.i.p. a sostegno della nuova richiesta di applicazione di misura cautelare. Deve allora trovare applicazione il principio per cui se, nelle more della decisione sull’appello proposto contro l’ordinanza reiettiva della richiesta di misura cautelare personale, il pubblico ministero rinnovi la domanda nei confronti dello stesso indagato e per lo stesso fatto, allegando elementi probatori "nuovi", preesistenti o sopravvenuti, è precluso al giudice, in pendenza del procedimento di appello, decidere in merito alla medesima domanda cautelare (Sez. Un., n. 18339 del 31 marzo 2004, Donelli e altro, Rv. 227358). Principio che, nei suoi esatti riflessi, è stato precisato dalle stesse Sezioni Unite nel senso che, qualora il pubblico ministero, nelle more della decisione su una impugnazione incidentale de libertate, intenda utilizzare, nei confronti dello stesso indagato e per lo stesso fatto, elementi probatori "nuovi" può scegliere se riversarli nel procedimento impugnatorio ovvero porli a fondamento di una nuova richiesta cautelare, ma, una volta effettuata, la scelta gli preclude di coltivare l’altra iniziativa cautelare (Sez. Un., n. 7931/11 del 16 dicembre 2010, Testini, Rv. 249001).

2.3 Come chiarito da quest’ultima pronunzia, infatti, il procedimento cautelare ha insita nella propria ratio la natura contingente dei provvedimenti e la necessità del loro tendenziale adeguamento al mutare delle situazioni. Ciò è evidente, e di forte significato garantistico, per le tutele poste a presidio dell’indagato, attivabili e reiterabili con grande facilità e adottabili in vari casi anche d’ufficio. Ma vale, seppure in termini non sovrapponibili, anche dalla parte dell’accusa. Ne consegue che l’"idem" il cui "bis" è precluso non può concretarsi ed esaurirsi, in ambito cautelare, come avviene invece nel processo cognitivo, nella mera identità del fatto, ma ricomprende necessariamente anche l’identità degli elementi posti (e valutati) a sostegno o a confutazione di esso e della sua rilevanza cautelare. Tale conclusione, pacificamente accolta dalla giurisprudenza per la determinazione dei limiti del giudicato cautelare, non può non valere simmetricamente, per comunanza di ratio, anche in tema di "giudicando" cautelare. Sarebbe, invero, oltremodo illogico, e contrario alle esigenze di tempestività tipiche del settore in discorso, negare, a causa di una pendenza in atto, l’immediato utilizzo dei nova utili a sostenere una determinata posizione, rinviandolo alla cessazione di quella pendenza. È del resto prassi corrente, della cui legittimità non si dubita, la proposizione, da parte dell’indagato, di istanze di revoca o sostituzione della misura, purché basate su elementi nuovi, mentre è in corso, non importa in quale fase, un procedimento cautelare relativo alla stessa contestazione; con quanto poi ne può conseguire, in termini di interesse, sulla sorte di quest’ultimo. La soluzione non può essere diversa quando i nova siano fatti valere dal pubblico ministero. Le esigenze di una pronta tutela della collettività, simmetriche a quelle che presidiano il favor libertatis (come ricordato dalla stessa sentenza Testini), sono parimenti incompatibili con improprie e inutili dilazioni, quali quelle che deriverebbero da intralci di tipo procedurale, a volte anche di lunga durata, e magari non nella disponibilità dell’accusa.

2.4 Il pubblico ministero resta dunque libero di scegliere il "veicolo" in cui utilizzare i nova ai fini del perseguimento del suo obiettivo, ma, una volta operata la scelta, non può più, per lo stesso utilizzo, fare ricorso al veicolo alternativo (con quanto di conseguenza, in termini di preclusione, sul suo avvio o prosieguo), scongiurandosi così anche il rischio del conseguimento di un duplice titolo per lo stesso fatto e sulla base degli stessi elementi. In tale chiarita ottica interpretativa la relazione di preclusione posta dalla sentenza Donelli rivela dunque il suo genuino carattere biunivoco, riassumibile nel brocardo electa una via non datur recursus ad alteram, e può ritenersi coerentemente estensibile a qualsiasi ipotesi di impugnazione incidentale de libertate, ivi comprese quelle introdotte dall’indagato. Quando dunque, come avvenuto nel caso di specie, almeno una parte dei nova venga prodotta nel giudizio d’impugnazione relativo all’incidente cautelare prioritariamente instauratosi - e dunque la scelta venga effettuata - è comunque la successiva iniziativa promossa dal pubblico ministero a doversi ritenere preclusa, indipendentemente dal fatto che, per altro verso, sussistano in origine parziali asimmetrie nelle rispettive piattaforme cognitive poi eventualmente sanate attraverso produzioni "incrociate".

2.5 Erroneamente dunque il ha dato corso alla nuova richiesta del pubblico ministero in pendenza dell’appello proposto dallo stesso avverso la revoca della misura precedentemente applicata, ma correttamente ha poi a sua volta revocato la nuova misura in forza dei principi sopra illustrati, mentre ancor più correttamente il Tribunale ha ritenuto ammissibile l’impugnazione della parte pubblica, nonostante l’avvenuta instaurazione successivamente di un inedito incidente cautelare.

3. Infondata è altresì l’eccezione proposta con il terzo motivo di ricorso in merito all’inutilizzabilità degli accertamenti eseguiti sulle tracce ematiche repertate all’interno del box di v.le (...).

3.1 Innanzi tutto è irrilevante che nell’avviso notificato alle parti ex art. 360 c.p.p. non fosse specificato la natura dell’accertamento irripetibile cui il pubblico ministero intendeva procedere, trattandosi di omissione che, come questa Corte ha già avuto modo di chiarire, non dà luogo a nullità, trattandosi di un dato non richiesto dalla disposizione citata (Sez. 1, n. 11708 del 28 gennaio 2005, Fabbrocile ed altro, Rv. 231037).

3.2 In secondo luogo va sottolineato come, sempre secondo l’elaborazione giurisprudenziale, l’espressione usata nell’art. 360 c.p.p. circa l’avviso del compimento di accertamenti tecnici non ripetibili alle parti private e ai loro difensori da parte del pubblico ministero identifica un meccanismo di comunicazione semplificato e informale in ragione dell’intrinseca improrogabilità che caratterizza l’atto, con la conseguenza che può essere impiegato qualsiasi mezzo per portare l’atto a conoscenza dei destinatario, purché sia idoneo a garantirne l’effettiva conoscenza. (Sez. 1, n. 4453 del 11 febbraio 2000, Dolce, Rv. 215805). Principio che a maggior ragione deve valere per le comunicazioni di competenza del soggetto delegato all’accertamento in merito alle modalità di prosecuzione delle operazioni, analogamente a quanto espressamente previsto dal secondo comma dell’art. 229 c.p.p. per la perizia, anche qualora l’accertamento disposto non abbia contenuto alla stessa sovrapponibile.

3.3 Alla luce degli illustrati principi, è dunque evidente l’infondatezza delle censure proposte dal ricorrente in merito all’utilizzabilità degli accertamenti eseguiti sulle menzionate tracce ematiche. Infatti tutte le parti interessate hanno ricevuto l’avviso relativo all’intenzione del pubblico ministero di procedere ad accertamento irripetibile contenente le indicazioni di luogo e di tempo utili per consentire alle stesse di partecipare al compimento all’atto. Circostanza che invero il ricorrente nemmeno contesta - se non per il profilo irrilevante di cui si è detto in precedenza - posto che il suo difensore ha presenziato all’attività di ricerca di eventuali reperti biologici e dattiloscopici all’interno del box. Conseguentemente il fatto che lo stesso difensore si sia allontanato prima che gli operanti effettuassero le comunicazioni relative all’ulteriore corso delle operazioni è imputabile solo a quest’ultimo e comunque ininfluente, atteso che lo stesso, come risulta dal relativo verbale, ha nominato quale sostituto altro collega presente all’atto, al quale sono state effettuate tali comunicazioni anche per suo conto. Inoltre, una volta definitivamente delimitato all’inizio dell’atto medesimo l’oggetto dell’attività delegata e posto che la sua irripetibilità non poteva riguardare il mero rilievo delle tracce - adempimento che non necessitava di alcuna garanzia - era comunque implicito che, qualora le stesse fossero state rinvenute, l’accertamento da compiersi era proprio quello poi svolto nei laboratori della polizia scientifica. Né ha qualche pregio l’obiezione per cui la comunicazione fornita alle parti presenti abbia indicato che a tale accertamento si sarebbe proceduto senza soluzione di continuità, quando gli stessi sono proseguiti per più giorni anche non consecutivi. Infatti l’avviso ha riguardato esclusivamente l’attività svolta nella stessa giornata, dovendo il soggetto incaricato degli accertamenti effettuare nuove comunicazioni in merito all’ulteriore prosecuzione degli accertamenti in altre date solo laddove le parti avessero partecipato - direttamente o nominando un proprio consulente - all’esecuzione delle operazioni, il che non è avvenuto e ciò a tacere del fatto che queste ultime hanno riguardato anche la comparazione del DNA estratto dai campioni repertati con quello della persona offesa, atto quest’ultimo non irripetibile e della cui esecuzione, dunque, nessun avviso era dovuto alle parti(Sez. 2, n. 2476/15 del 27 novembre 2014, Santangelo, Rv. 261866; Sez. 1, n. 18246 del 25 febbraio 2015, B., Rv. 263860). Infine irrilevante è che la richiesta presentata successivamente dal difensore al pubblico ministero sia rimasta senza risposta, giacché come detto alcun ulteriore avviso era dovuto alle parti. Conseguentemente gli esiti dell’indagine scientifica erano pienamente utilizzabili dal Tribunale, che legittimamente li ha presi in considerazione ai fini della decisione, così come potrà farlo il giudice della cognizione qualora il procedimento dovesse approdare alla fase processuale (Sez. 5, n. 26809 del 10 febbraio 2016, P.C. in proc. Minopoli e altri, Rv. 267869).

4. Colgono invece parzialmente nel segno le censure proposte con il secondo motivo di ricorso.. Come ricordato, il Tribunale ha ritenuto inammissibili, per la violazione del termine dilatorio di cui all’art. 127 c.p.p. (la cui applicabilità nel procedimento ex art. 310 c.p.p. non è in discussione: ex multis Sez. 1, n. 4793 del 25 gennaio 2012, Carta, Rv. 251864), tanto le memorie, quanto i nuovi elementi probatori presentati da entrambe le parti all’udienza di discussione dell’appello cautelare.

4.1 In proposito è necessario ricordare come la già citata sentenza Donelli abbia precisato che nel giudizio d’appello cautelare è sempre consentito alle parti - al fine di garantire la corrispondenza della piattaforma cognitiva del giudice (e dunque lo status libertatis) alle reali risultanze del procedimento - la produzione di documentazione relativa ad elementi probatori nuovi, preesistenti o sopravvenuti, purché in ordine ad essi sia assicurato nel procedimento camerale il contraddittorio delle parti, anche mediante la concessione di un congruo termine per esaminarle e predisporre le proprie eventuali controdeduzoni (Sez. Un., n. 18339 del 31 marzo 2004, cit.). In tal senso si è successivamente ancor più esplicitamente precisato che l’utilizzabilità degli elementi probatori nuovi introdotti da una delle parti mediante una memoria depositata oltre il termine indicato nell’art. 127, comma secondo, c.p.p. è subordinata alla positiva verifica che sia stato comunque garantito il diritto al contraddittorio della controparte, sulla quale, una volta decorso il suddetto termine, non grava più alcun obbligo di verifica del contenuto del fascicolo processuale (Sez. 6, n. 36206 del 24 settembre 2010, Serrallegerì e altro, Rv. 248711). E sempre questa Corte ha avuto modo di chiarire come il rispetto dei termini dilatori previsti nelle procedure camerali dagli artt. 127, 611 e 666 c.p.p. per la presentazione di memorie riguarda, per l’appunto, solo queste ultime e non i documenti eventualmente prodotti (Sez. 3, n. 50200 del 28 aprile 2015, Ciotti, Rv. 265935; Sez. 5, n. 43382 del 19 settembre 2013, Punturiero e altro, Rv. 258661).

4.2 Se dunque legittimamente il Tribunale ha ritenuto inammissibile in quanto tardiva la memoria presentata dalla difesa dell’indagato all’udienza (con la conseguenza che alcun vizio di motivazione del provvedimento impugnato è prospettabile in merito all’eventuale difetto di confutazione di rilievi con la stessa svolti), non altrettanto può ritenersi per le produzioni documentali non meramente riproduttive di atti già presenti nel fascicolo del procedimento, che a tutti gli effetti costituivano nova probatori e dovevano essere ammesse, concedendo eventualmente al pubblico ministero un termine per prendere conoscenza del loro contenuto. Posto che tra le produzioni difensive vi era, tra l’altro, anche un supplemento di consulenza tecnica ad oggetto i dati esteriori delle connessioni dell’utenza telefonica dell’indagato alla rete di riferimento nel periodo di consumazione del sequestro, nonché fotografie e documentazione amministrativa, rispettivamente ad oggetto la configurazione del cancello di accesso all’albergo teatro del rapimento e la costituzione dell’impresa del B. , ne consegue che l’omessa valutazione di tali elementi si riflette sulla tenuta della motivazione del provvedimento impugnato, atteso che i suddetti elementi sono stati prodotti a sostegno di obiezioni difensive avanzate dal ricorrente già in sede di revoca dell’originaria ordinanza applicativa della misura, le quali non sono state confutate dal Tribunale alla luce dei nova probatori introdotti.

5. Parimenti fondata è l’eccezione di inutilizzabílità delle dichiarazioni de relato rese dal N. in merito a quanto appreso dal proprio difensore.

5.1 Dagli atti risulta che l’avv. P., difensore della persona offesa, sia stato sentito a sommarie informazioni due volte dal pubblico ministero al fine di confermare quanto riferito del suo assistito e cioè di avergli comunicato che il difensore dell’indagato lo aveva contattato formulando un’offerta risarcitoria a nome del B. . In entrambe le occasioni il legale ha opposto il segreto professionale rifiutandosi di rispondere. Conseguentemente il ricorrente eccepisce che nemmeno le dichiarazioni del N. relative a tale episodio possano essere utilizzate al fine di integrare il quadro indiziario a carico dell’indagato, stante il divieto di testimonianza indiretta posto dall’art. 195 comma 6 c.p.p..

5.2 In proposito è innanzi tutto opportuno sottolineare che il divieto in questione non opera esclusivamente nel dibattimento e conseguentemente la sua violazione non comporta soltanto l’inutilizzabilità delle dichiarazioni del testimone in senso proprio inteso. Secondo la legge processuale, infatti, l’assunzione della testimonianza indiretta non è vietata in via generale e la stessa è altresì utilizzabile salvo che non ricorrano le condizioni negative previste dal primo e dal settimo comma dell’art. 195 citato e cioè che, se richiesto, non si sia proceduto all’assunzione della fonte della conoscenza del testimone indiretto ovvero che quest’ultimo non sia stato in grado o si sia rifiutato di indicare tale fonte. L’assenza di un espresso divieto generale di ricorrere alla testimonianza indiretta spiega quindi perché si sia reso necessario con la I. n. 63/2001 precisare nel comma 1-bis dell’art. 273 c.p.p., all’uopo introdotto, che nemmeno nella fase cautelare sono utilizzabili le dichiarazioni de relato di colui che non ha consentito l’individuazione della fonte diretta.

Alla regola generale fanno però eccezione le due ipotesi contemplate nella prima parte del quarto comma e nel sesto comma dell’art. 195, disposizioni che invece vietano l’assunzione della testimonianza dell’ufficiale e agente di p.g. sul contenuto delle sommarie informazioni verbalizzate nel corso delle indagini preliminari o, per l’appunto, o quella di chi ha appreso i fatti dalle persone che non possono essere obbligate a deporre ai sensi degli artt. 200 e 201 c.p.p., a meno che queste abbiano deciso di deporre o abbiano comunque divulgato i medesimi fatti. Si tratta di veri e propri divieti probatori, che laddove violati comportano, ai sensi dell’art. 191 c.p.p., l’inutilizzabilità delle testimonianze comunque assunte. Inutilizzabilità che certamente ha natura patologica, atteso che il divieto è riconnesso alla tutela del segreto professionale in quanto tale ed è dunque operativo in tutte le fasi del procedimento a prescindere dalla fase processuale in cui le dichiarazioni vengono assunte o al loro ambito di utilizzazione.

5.3 Con specifico riguardo alla tutela del segreto forense - e come ricordato del resto anche nel provvedimento impugnato - il giudice delle leggi ha avuto modo di chiarire come "la protezione del segreto professionale, riferita a quanto conosciuto in ragione dell’attività forense svolta da chi sia legittimato a compiere atti propri di tale professione, assume carattere oggettivo, essendo destinata a tutelare le attività inerenti alla difesa e non l’interesse soggettivo del professionista" (Corte Cost. n. 87/1997). La facoltà di astenersi dal deporre - diversamente dall’incompatibilità a testimoniare prevista dall’art. 197 lett. d) c.p.p. per il legale che abbia svolto attività di investigazione difensiva - è attribuita dall’art. 200 c.p.p. all’avvocato e non al difensore e si riconnette al dovere imposto al primo di mantenere il segreto e la riservatezza su quanto appreso in ragione della propria professione. Contrariamente a quanto sostenuto dal Tribunale, la fonte primaria di tale dovere non è il codice deontologico forense (che pure lo stabilisce e, come subito si ricorderà, lo disciplina nel suo dettaglio), bensì la l. 31 dicembre 2012, n. 247, che all’art. 6 espressamente lo prevede (sia nell’espletamento di attività di rappresentanza ed assistenza, che di quella di consulenza ed assistenza stragiudiziale), configurando la sua violazione come illecito disciplinare e ribadendo altresì, al comma terzo, come l’avvocato non possa essere obbligato a deporre su quanto appreso nell’esercizio della professione, salvo nei casi previsti dalla legge. Non di meno il terzo comma dell’art. 3 della legge citata, altrettanto espressamente, demanda al codice deontologico forense la determinazione del contenuto specifico delle norme di comportamento che l’avvocato è tenuto ad osservare, attribuendo a tale fonte il compito di integrare quella primaria.

5.4 Come pure ricordato dal giudice delle leggi nella pronunzia citata in precedenza, "la facoltà di astensione dell’avvocato non costituisce un’eccezione alla regola generale dell’obbligo di rendere testimonianza, ma è essa stessa espressione del diverso principio di tutela del segreto professionale" ed in tal senso devono dunque essere interpretati tanto l’art. 200, quanto l’art. 195 comma 6 c.p.p., disposizioni attraverso cui il legislatore ha contemperato gli opposti interessi dell’accertamento dei reati e dell’effettività dell’esercizio della difesa, trovando il punto di bilanciamento tra i correlativi obblighi che gravano sull’avvocato chiamato a testimoniare (e cioè quello di deporre e quello di servare il segreto su quanto appreso nell’espletamento del proprio mandato).

In tale ottica la disposizione citata, laddove consente al giudice di sindacare la sussistenza dei presupposti che legittimano l’opposizione del segreto per sottrarsi alla deposizione, inevitabilmente rinvia al sistema normativo che, come si è visto, definisce tali presupposti, stabilendo l’oggetto e l’ampiezza dell’obbligo di segretezza.

E sempre nell’evocata ottica di bilanciamento si spiegano le deroghe previste dal sesto comma dell’art. 195 c.p.p. al divieto di testimonianza indiretta di chi ha appreso dall’avvocato fatti sui quali egli è legittimato ad astenersi dal deporre (e cioè che questi, sui medesimi fatti, abbia deposto o li abbia altrimenti divulgati, fattispecie quest’ultima che, a scanso di equivoci, non può ritenersi integrata dalla loro comunicazione al proprio assistito).

Non di meno, che il legislatore abbia inteso trovare un punto di incontro tra i sopra menzionati interessi lo si desume agevolmente anche dal fatto che l’art. 200 è stato configurato come divieto di deposizione coattiva e non già come divieto assoluto di esaminare il soggetto titolare dell’obbligo di segretezza, demandando all’ordinamento forense il compito di disciplinare l’ambito di discrezionalità rimesso all’avvocato nell’astenersi o meno dal deporre, fermo restando che l’ingiustificata violazione del dovere di segretezza assume rilevanza esclusivamente disciplinare (od eventualmente penale, qualora il fatto sia riconducibile all’art. 622 c.p.) e che l’art. 51 del codice deontologico gli impone nel secondo caso di non assumere il mandato difensivo o di rinunciarvi se lo ha già assunto (in senso sostanzialmente conforme cfr. Sez. 2, n. 22954 del 28 marzo 2017, D’Agostino e altri, Rv. 270479; Sez. 6, n. 15003 del 27 febbraio 2013, P.C. in proc. B., Rv. 256234).

5.5 Deve allora ritenersi che degli illustrati principi il provvedimento impugnato non abbia fatto buon governo.

5.5.1 Innanzi tutto il Tribunale ha sostanzialmente travisato i limiti oggettivi della tutela del segreto professionale, ricostruendo il sistema delle fonti di riferimento in maniera errata alla luce di quanto evidenziato in precedenza. Ed in tal senso parimenti non condivisibile è l’argomentazione sviluppata dal giudice dell’appello in riferimento all’art. 622 c.p. Infatti tale disposizione non sanziona penalmente soltanto la rivelazione dei "segreti" che l’assistito abbia affidato al proprio difensore, ma la rivelazione di qualunque informazione che questi abbia appreso in ragione della propria professione, purché non sussista una giusta causa e ne derivi pericolo di nocumento. Ancora una volta, dunque, al fine di verificare la tipicità della condotta, è necessario rivolgersi nel caso di specie all’ordinamento forense (I. n. 247/2012 e codice deontologico), per stabilire il perimetro dell’obbligo di segretezza che grava sull’agente.

5.5.2 In secondo luogo, alla luce di quanto osservato, è indubbio che l’avvocato possa astenersi dal testimoniare, opponendo il segreto professionale, in merito ai fatti di cui ha preso conoscenza relazionandosi con altri difensori nell’espletamento del proprio mandato. Parimenti non può dubitarsi che il recepimento di un’offerta risarcitoria riportata dal collega che difende l’indagato e comunicare la stessa al proprio assistito siano attività che rientrano nel mandato, formalizzato o meno che sia stato in atti, del difensore della persona offesa. In proposito il Tribunale ha negato tale circostanza ipotizzando che la finalità del B. non fosse effettivamente quella di proporre una transazione funzionale a prevenire le eventuali pretese risarcitorie del N. , ma si tratta di affermazione del tutto apodittica e comunque priva dell’indicazione degli elementi che consentano di qualificare tale offerta come un tentativo di corruzione della persona offesa.

5.5.3 Ma anche a prescindere da tutto questo, il Tribunale non ha considerato che l’avv. P. ha effettivamente opposto il segreto professionale, astenendosi dal rispondere alle domande del pubblico ministero, circostanza che integra il presupposto per l’operatività del divieto di cui all’art. 195 comma 6 c.p.p. e della conseguente inutilizzabilità delle dichiarazioni assunte in violazione del medesimo. Infatti solo qualora il legale venisse obbligato a deporre o decidesse autonomamente di farlo o altrimenti divulgasse quanto appreso nei rapporti con altro difensore, il N. potrebbe essere legittimamente sentito in merito a quanto riferitogli dal medesimo, ma certamente non prima.

5.6 L’inutilizzabilità, nella parte di cui si è disquisito, delle dichiarazioni della persona offesa si riflette altresì sulla tenuta dell’apparato giustificativo dell’ordinanza impugnata, che a p. 34 ha, in maniera del tutto generica, operato "preventivamente" una sorta di prova di resistenza del compendio indiziario nel caso che le predette dichiarazioni dovessero essere ritenute inutilizzabili. In realtà il Tribunale, non solo ha tenuto conto di queste ultime, ma ha attribuito alle medesime un effettivo valore indiziante, senza rivelare in concreto le ragioni della ritenuta autosufficienza degli ulteriori elementi esaminati ad assolvere la condizione posta dall’art. 273 c.p.p..

6. Parzialmente fondate sono altresì le critiche mosse alla motivazione dei provvedimento impugnato con il quinto motivo. In realtà il Tribunale, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non ha ritenuto "provata" la presenza del B. nel teatro del rapimento e nel luogo in cui il N. venne tenuto segregato sulla base dei dati relativi alla geolocalizzazione della sua utenza, avendo invece considerato tali risultanze meramente espressive della compatibilità dei siti indicati con le celle agganciate dall’indagato. Ciò non toglie che le obiezioni svolte dalla difesa attraverso le relazioni del proprio consulente - una, come si è detto, nemmeno acquisita dal Tribunale - miravano a confutare anche solo tale valutazione, cercando di dimostrare - se con qualche fondamento o meno non è compito di questa Corte stabilirlo - come in realtà i menzionati dati dimostrassero, quantomeno in alcuni frangenti, l’assoluta incompatibilità della localizzazione dell’utenza dell’indagato con i luoghi in cui veniva consumato il reato. Con tali rilievi il provvedimento impugnato non si è sostanzialmente confrontato, limitandosi a ribadire quanto affermato negli atti di indagine - e cioè proprio ciò che era stato oggetto delle articolate censure difensive e liquidando la questione con motivazione che deve ritenersi meramente apparente.

7. Alla luce delle evidenziate lacune motivazionali - come detto determinate anche dall’inutilizzabilità delle dichiarazioni del N. nella parte in precedenza individuata e dall’illegittima omessa acquisizione delle produzioni effettuate dalla difesa nel corso dell’incidente cautelare - deve dunque ritenersi compromessa la tenuta dell’apparato giustificativo del provvedimento impugnato, che pertanto deve essere annullato con rinvio al Tribunale di Torino per nuovo esame, rimanendo assorbite le ulteriori censure proposte dal ricorrente che non hanno trovato specifica trattazione e che sarà compito del giudice del rinvio esaminare. Rimane ferma la facoltà dello stesso giudice di ribadire le conclusioni assunte nell’ordinanza annullata, purché attraverso un percorso motivazionale idoneo a sanare le lacune individuate e nel rispetto dei principi affermati da questa Corte.

P.Q.M.

Annulla il provvedimento impugnato con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Torino, sezione riesame.