La "condizione analoga alla schiavitù" non si identifica necessariamente con una situazione di diritto, e cioé normativamente prevista, bensì anche con qualunque situazione di fatto, per cui la condotta dell'agente abbia per effetto la riduzione della persona offesa nella condizione materiale dello schiavo, e cioé nella sua soggezione esclusiva ad un altrui potere di disposizione, corrispondente all'esercizio "di uno o dell'insieme dei poteri inerenti al diritto di proprietà", si può dire con la definizione contenuta nell'art. 7.2, lett. c), dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale, firmato a Roma il 17 luglio 1998 e ratificato con l. 12.7.1999, n. 232.
La valorizzazione della persona rappresenta, invero, il principale tratto distintivo dell'attuale stato costituzionale.
Sulla "anteriorità della persona - intesa nella sua necessaria socialità - rispetto allo Stato" e sulla sua "integrazione nel pluralismo sociale" si realizza il patto costituzionale che dà origine alle norme fondamentali contenute negli artt. 2 e 3 cpv. cost., laddove appunto viene sancito il "valore assoluto della persona umana" vista non solo nella sua dimensione sostanzialistica e individuale ma anche nella sua proiezione sociale e intersoggettiva.
La persona è connotata essenzialmente dalla dignità umana (nominata a vari effetti negli artt. 3, co. 1, 36, 41 cost.), che più che un diritto è il principio generatore e di intelligibilità di tutti i diritti fondamentali ed è riconosciuta a ciascuna persona in ragione non solo della sua individualità ma, per la indicata dimensione sociale, anche della sua piena appartenenza al genere umano (o, in questo senso, alla "umanità", secondo la dizione dell'art. 7.1 dello Statuto cit. della Corte penale internazionale, costituzionalmente rilevante per effetto dell'art. 10 cost.), come "simile" alle altre persone o "eguale" o, per riprendere un'espressione adoperata in altro contesto (art. 8 cost.) "egualmente libero".
Cassazione penale
Sez. V, (ud. 04/04/2002) 12-07-2002, n. 26636
PROSTITUZIONE
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE QUINTA SEZIONE PENALEComposta dagli Ill.mi Sigg.:
Dott. MARRONE FRANCO - PRESIDENTE -
1. Dott. NICASTRO FRANCESCO - CONSIGLIERE -
2. Dott. MARINI PIER FRANCESCO - CONSIGLIERE -
3. Dott. PIZZUTI GIUSEPPE - CONSIGLIERE -
4. Dott. COLAIANNI NICOLA - CONSIGLIERE -
ha pronunciato la seguente
SENTENZA / ORDINANZA
sul ricorso proposto da :
1) <M. R.> N. IL 28/01/1975
avverso SENTENZA del 04/05/2001
CORTE ASSISE APPELLO di MILANO
visti gli atti, la sentenza ed il procedimento
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere COLAIANNI NICOLA
Udito il Procuratore Generale in persona del dr. Cedrangolo che ha concluso per inammissibilità
Udito il difensore Avv. G: accoglimento motivi
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
I - Con la sentenza sopra indicata riceveva conferma la condanna di <M. R.> per i reati di riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.) e di induzione, favoreggiamento e sfruttamento, aggravati e continuati, della prostituzione (art. 81 cpv. c.p., 3 n. 5 e 8, 4 n. 1 l. 20.2.1958, n. 75,) della cittadina nigeriana <U. H.>, costretta, dopo essere stata venduta alla <M.> per svariati milioni di lire, a riscattare la propria libertà con i proventi dell'attività di meretricio, cui veniva indotta con violenza consistita in percosse, maltrattamenti, sevizie e lesioni, nonché minacce costituite dalla sottoposizione a riti di magia nera, quale il "ju-ju" (un sacchetto contenente oggetti e particolari intimi con tracce del suo sangue a garanzia del maleficio, che sarebbe terminato con la restituzione del sacchetto ad avvenuto pagamento dell'intero prezzo del riscatto).
Ricorre per cassazione la <M.>, deducendo inosservanza ed erronea applicazione della legge penale con mancanza e manifesta illogicità della motivazione circa la sussistenza del reato di cui all'art. 600 c.p. anche in relazione a quello di sfruttamento della prostituzione: invero, gli elementi riscontrati (percosse, minacce, rito magico, peraltro inidoneo a creare asservimento) sono comuni alle due ipotesi di reato e non v'é prova di quel "di più", non ricompreso nell'induzione e nello sfruttamento della prostituzione aggravati da violenza e minaccia, atto a concretizzare la riduzione in condizione analoga alla schiavitù.
Manca, secondo la ricorrente, l'elemento più pregnante richiesto a tal fine, vale a dire il totale asservimento, giacché la p.o. godeva di piena libertà di movimento e di organizzazione del proprio lavoro nonché della ospitalità della <M.>, che le preparava anche la cena, con possibilità, peraltro, di contatti anche prolungati con terzi estranei (aveva trascorso alcune giornate con la coppia di fidanzati <B. M.>), e fruiva infine della possibilità di pagare il ("riscatto" senza limiti di tempo e con importi trattabili. Osserva, anche al fine di un più mite trattamento sanzionatorio, che la stessa condotta non può realizzare due reati contemporaneamente.
II - Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato, a partire dall'ultima osservazione: è ammissibile, invero, che la stessa condotta offenda due beni giuridici diversi, dando luogo ad un concorso formale di reati ai sensi dell'art. 81, co. 1, c.p. Ciò spiega perché nella fattispecie la corresponsione (di parte) dei proventi della attività di meretricio, cui era costretta la <U.>, sia stata considerata rilevante sotto il duplice aspetto dello sfruttamento e del riscatto. Sotto questo secondo aspetto esso configura appunto il quid pluris caratterizzante il reato di riduzione in condizione analoga alla schiavitù: l'obbligo di pagare il prezzo del riscatto per riacquistare la condizione nativa di libertà (art. 1 della dichiarazione universale dei diritti dell'uomo di New York del 10 dicembre 1948; cfr., per quanto possa rilevare attesa la nazionalità delle parti, l'analoga affermazione contenuta nell'art. II della dichiarazione universale islamica dei diritti dell'uomo di Parigi del 19.9.1981) denota la mercificazione di un essere umano, ridotto ad oggetto di compravendita, e quindi la sua riduzione alla condizione materiale dello schiavo.
Occorre in proposito ribadire con le sezioni unite di questa Corte (sent. 20.11.1996/16.1.1997, n. 261, ced 206512), per giunta in fattispecie analoga a quella in esame (vendita di una ragazza quindicenne, seguita al suo sequestro all'estero, alla sua successiva introduzione clandestina nel territorio dello Stato e, infine, al suo pieno sfruttamento), che la "condizione analoga alla schiavitù" non si identifica necessariamente con una situazione di diritto, e cioé normativamente prevista, bensì anche con qualunque situazione di fatto, per cui la condotta dell'agente abbia per effetto la riduzione della persona offesa nella condizione materiale dello schiavo, e cioé nella sua soggezione esclusiva ad un altrui potere di disposizione, corrispondente all'esercizio "di uno o dell'insieme dei poteri inerenti al diritto di proprietà", si può dire con la definizione contenuta nell'art. 7.2, lett. c), dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale, firmato a Roma il 17 luglio 1998 e ratificato con l. 12.7.1999, n. 232.
Nell'enunciare il principio questa Corte ha anche precisato che le pratiques di cui alle convenzioni di Ginevra sulla schiavitù del 1926 e del 1956 realizzano un'elencazione meramente esemplificativa di condizioni analoghe alla schiavitù, tale da non esaurire la "virtualità espansiva della nozione di condizione analoga": il cui significato, "essendosi ormai tradotto il concetto di schiavitù in una nozione storica e culturale, può essere determinativamente recepito dai destinatari del precetto penale, come descrittivo della condizione d'un individuo che - per via dell'attività esplicata da altri sulla sua persona - venga a trovarsi (pur conservando nominalmente lo status di soggetto dell'ordinamento giuridico) ridotto nell'esclusiva signoria dell'agente, il quale materialmente ne usi, ne tragga frutto o profitto e ne disponga, similmente al modo in cui - secondo le conoscenze storiche, confluite nell'attuale patrimonio socio-culturale dei membri della collettività - il "padrone" un tempo, esercitava la propria signoria sullo schiavo".
L'interpretazione storico-culturale della schiavitù consegue, quindi, il risultato di affiancare ai parametri, in certa misura determinati, delle convenzioni di Ginevra analoghi "fatti di vita" come le "nuove schiavitù", con il totale controllo di persone "usa e getta" che esse implicano.
Rimane, tuttavia, il problema della maggiore tassativizzazione, per dir così, possibile della fattispecie incriminatrice per non incorrere nel divieto di analogia in materia penale.
L'esigenza - di cui nel ricorso si coglie l'eco nella insistita denuncia della mancata indicazione di una condotta ulteriore rispetto a quelle di sfruttamento della prostituzione - di ridurre al massimo i poteri discrezionali del giudice è avvertita, per vero, in tutti i casi in cui nell'enunciato normativo compaiono clausole generali e può ritenersi soddisfatta, con rispetto del principio di stretta legalità, verificando se il parametro posto è sufficientemente univoco. Ora l'interpretazione storico-culturale data da questa Corte alla clausola delle "condizioni analoghe" - che, se decontestualizzate, appaiono, come ad un'autorevole opinione dottrinaria, di contenuto sfuggente ed impalpabile - è sufficientemente univoca se orientata costituzionalmente dai concetti di persona e della sua dignità.
La valorizzazione della persona rappresenta, invero, il principale tratto distintivo dell'attuale stato costituzionale.
Sulla "anteriorità della persona - intesa nella sua necessaria socialità - rispetto allo Stato" e sulla sua "integrazione nel pluralismo sociale" (secondo le espressioni contenute nell'ordine del giorno presentato dall'on. Dossetti all'assemblea costituente il 9 settembre 1946) si realizza il patto costituzionale che dà origine alle norme fondamentali contenute negli artt. 2 e 3 cpv. cost., laddove appunto viene sancito il "valore assoluto della persona umana" (C. cost. 10.12.1987, n. 479; cfr. altresì sent. 22.6.1989, n. 346, 24.5.1985, n. 161), vista non solo nella sua dimensione sostanzialistica e individuale ma anche nella sua proiezione sociale e intersoggettiva.
La persona è connotata essenzialmente dalla dignità umana (nominata a vari effetti negli artt. 3, co. 1, 36, 41 cost.), che più che un diritto è il principio generatore e di intelligibilità di tutti i diritti fondamentali ed è riconosciuta a ciascuna persona in ragione non solo della sua individualità ma, per la indicata dimensione sociale, anche della sua piena appartenenza al genere umano (o, in questo senso, alla "umanità", secondo la dizione dell'art. 7.1 dello Statuto cit. della Corte penale internazionale, costituzionalmente rilevante per effetto dell'art. 10 cost.), come "simile" alle altre persone o "eguale" o, per riprendere un'espressione adoperata in altro contesto (art. 8 cost.) "egualmente libero".
Condizioni analoghe alla schiavitù sono allora tutte quelle pratiche discriminatorie - come quelle descritte nelle convenzioni di Ginevra, ma non solo - che, in violazione del principio di uguale appartenenza alla comunità umana, offendono o degradano il valore della dignità della persona intesa come simile alle altre o egualmente libera, riducendola secondo una concezione castale del genere umano al rango di essere subumano o di merce umana e così disconoscendone la qualità di essere umano.
L'interpretazione storico-culturale adottata da questa Corte e applicabile alle situazioni, come quella in esame, in cui il soggetto deve pagare un prezzo per riscattare la propria libertà nativa, acquista carattere determinato e tassativo proprio alla luce del principio personalistico e del valore della dignità umana affermati nella Costituzione e precisati da una consolidata giurisprudenza costituzionale, oltre che di legittimità. In questa prospettiva i delitti contro la personalità individuale, tra cui l'art. 600 c.p., si caratterizzano specificamente come delitti contro la dignità della persona umana.
III - La denunciata manifesta illogicità della motivazione non risulta dal testo del provvedimento impugnato ed in effetti è sostenuta solo alla stregua di una diversa valutazione delle risultanze processuali. Ma "la verifica che la Corte di cassazione è abilitata a compiere sulla completezza e sulla correttezza della motivazione di una sentenza non può essere confusa con una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella fornita dal giudice di merito" (Cass. sez. un. 23.11.1995, n. 2110, rv. 203767), come si evince dai limiti preclusivi che un'avvertita esigenza di maggior razionalizzazione del sistema ha introdotto con l'art. 606, primo comma, lett. e) del codice di procedura vigente: con la conseguenza che le scelte compiute dal giudice di merito, se coerenti, sul piano logico, con una esauriente analisi delle risultanze probatorie acquisite, si sottraggono al sindacato di legittimità, una volta accertato che il processo formativo del libero convincimento del giudice non ha subito il condizionamento di una riduttiva indagine conoscitiva o gli effetti altrettanto negativi di un'imprecisa ricostruzione del contenuto di una prova.
Nella specie la Corte - con valutazione in fatto appunto incensurabile in questa sede perché svolta correttamente, stando al testo del provvedimento impugnato - ha evidenziato sulla base della testimonianza della persona offesa, positivamente riscontrata da altre testimonianze, le vessazioni poste in atto dall'imputata perché fosse conseguito il prezzo (70 milioni di lire) fissato per il riscatto della libertà. Si tratta di valutazioni in fatto, correttamente ed analiticamente motivate, che vanno esenti da censure in sede di legittimità, anche sotto il profilo della denunciata contraddittorietà della situazione vessatoria con la circoscritta libertà di movimento della p.o., il cui particolare lavoro le consentiva di gestire con una certa elasticità il proprio tempo, e con i rapporti di ospitalità e di familiarità con l'imputata.
Invero, come già ritenuto da questa Corte (Cass. 27.10.2000, n. 13125, ced 217846), ai fini della configurabilità del reato di riduzione in schiavitù, la condizione di segregazione ed assoggettamento all'altrui potere di disposizione non viene meno allorquando essa temporaneamente si allenti, consentendo momenti di convivialità ed apparente benevolenza, finalizzati allo scopo di meglio piegare la volontà della vittima e vincerne la resistenza.
Incensurabile, infine, è la determinazione della pena, motivata alla luce di molteplici parametri (gravità dei fatti, mancanza di resipiscenza, sfruttamento e schiavizzazione come sistema di vita).
P.Q.M.
La Corte di cassazione rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Roma, 4 aprile 2002
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 12 LUG. 2002.