Il pubblico ufficiale che riveli all'indagato di una indagine a suo carico in corso commette il reato i rivelazione di segreto di ufficio.
Deve infatti escludersi che sia consentita la comunicazione informale di quanto risulta dai registri di un ufficio giudiziario. Nè tale principio è derogabile se la notizia abbia ad oggetto l'eventuale iscrizione nel registro delle notizie di reato e sia richiesta dal diretto interessato.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Sent., (ud. 12/01/2018) 13-03-2018, n. 11358
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MOGINI Stefano - Presidente -
Dott. VILLONI Orlando - Consigliere -
Dott. CALVANESE Ersilia - Consigliere -
Dott. CORBO Antonio - Consigliere -
Dott. VIGNA Maria Sabina - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
R.P., nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 03/10/2016 della CORTE APPELLO di BARI;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere MARIA SABINA VIGNA;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore DI LEO Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Udito il difensore avv. BB.A.M. che si riporta ai motivi e insiste per l'accoglimento.
Svolgimento del processo
1. Con il provvedimento impugnato, la Corte di appello di Bari, in riforma della sentenza con la quale il Tribunale di Bari, in data 9 giugno 2015, assolveva R.P. dal reato di cui all'articolo 615 ter c.p., contestato ai capi A) e D) di imputazione e condannava il predetto in relazione ai reati di favoreggiamento di cui al capo B) e di rivelazione di segreto d'ufficio di cui al capo D), concedeva all'imputato la sospensione condizionale della pena, confermando nel resto.
R.P. è stato, quindi, condannato per il reato di favoreggiamento, perchè, quale pubblico ufficiale in servizio presso l'ufficio dibattimento della Procura della Repubblica di (OMISSIS), si introduceva nel sistema informatico in uso presso tale ufficio, consultava la banca dati del (OMISSIS), visualizzava i quadri del fascicolo penale numero (OMISSIS) a carico anche del parente R.G., sindaco pro tempore del Comune di (OMISSIS), nei cui confronti erano in corso intercettazioni telefoniche nell'ambito di tale procedimento, e comunicava telefonicamente all'indagato le informazioni riservate di cui era venuto in possesso, aiutandolo così ad eludere le investigazioni dell'Autorità giudiziaria.
R. è stato, infine, condannato per il delitto di cui all'art. 326 c.p., perchè, attraverso la condotta sopra descritta, violando i doveri inerenti alle sue funzioni ed abusando comunque delle sue qualità, rivelava all'indagato notizie d'ufficio coperto dal segreto delle indagini.
2. Avverso la sentenza ricorre l'imputato, a mezzo del difensore avv. Augusto Bellino, deducendo i seguenti motivi:
2.1. Mancanza e manifesta illogicità o contraddittorietà della motivazione in relazione alla affermazione di penale responsabilità.
La Corte territoriale afferma la certezza dei fatti in contestazione non conoscendo il contenuto delle informazioni apprese a seguito della consultazione del sistema informatico dall'odierno ricorrente ed ignorando totalmente il contenuto delle informazioni trapelate, la cui conoscenza è rimasta solo presunta.
In realtà l'intento dell'imputato era quello di informare il congiunto della necessità di attivarsi, in quanto funzionari del Comune manovravano per ritardare la firma di una convenzione relativa all'affidamento di un centro polifunzionale alla gestione delle A.C.L.I. - delle quali lo stesso ricorrente era esponente - ad un tempo successivo alla scadenza del mandato del sindaco, fatto in relazione al quale questi avrebbe dovuto, appunto, "ripararsi" in quanto la stipula della convenzione gli avrebbe giovato politicamente.
Le persone offese del procedimento penale, la cui attività di indagine era posta in pericolo dalla fuga di notizie, erano aduse fare copia delle loro denunce e mandarle a tutti i consiglieri comunali, tra cui anche l'imputato, ragion per cui era fatto notorio che pendessero indagini in capo agli amministratori comunali.
2.2. Erronea applicazione della legge in relazione alle fattispecie di rivelazione di segreto d'ufficio e di favoreggiamento.
2.2.1 Nel capo B) di imputazione si legge di notizie comunicate telefonicamente dal ricorrente all'omonimo indagato, mentre sia il giudice di primo grado che la Corte d'appello hanno ritenuto accertato il fatto della divulgazione attraverso modalità completamente diverse. Si è fatto riferimento, cioè, alla divulgazione di notizie avvenuta nel corso dell'incontro immediatamente successivo alla telefonata tra i due. Ciò ha inciso sulla estrinsecazione del diritto di difesa e ha determinato un sostanziale mutamento del fatto riconosciuto in sentenza, in luogo di quello contestato al capo B), così producendo gli effetti dettati dagli artt. 521 e 522 c.p.p., ossia la nullità della sentenza.
2.2.2. Quanto al reato di cui all'art. 326 c.p., posto che l'oggetto da tutelare è rappresentato dalle notizie d'ufficio che devono rimanere segrete, le stesse avrebbero dovuto essere segretate, ma ciò, nel caso in questione, non si è verificato, anzi era ormai di dominio pubblico che pendessero giudizi in capo agli amministratori in carica e nei confronti di coloro che si presentavano quali candidati. In ragione di ciò viene meno il requisito fondante della segretezza. Quella dell'imputato è stata solo una ingenua curiosità, ammessa dallo stesso. Le notizie che si possono attingere dall'ufficio (OMISSIS) non sono notizie coperte dal segreto di cui all'art. 329 c.p.p., e lo stesso viene meno quando il dato o il fatto storico è portato a conoscenza degli interessati o degli indagati.
2.2.3. Quanto al reato di cui all'art. 378 c.p., non sapendo quale tipo di notizie sia stata divulgata, non si comprende in cosa sia consistita l'attività di elusione delle investigazioni dell'Autorità in ordine ai procedimenti che vedevano R.G. indagato. I procedimenti a carico di R. sono tutti attualmente in corso e nessun problema è derivato dalla divulgazione di notizie inerenti gli stessi.
Costituisce un vulnus della sentenza il fatto di creare confusione tra il verbo realmente utilizzato dall'imputato nella conversazione intercettata ("riparare") e quello che gli viene inopinatamente contestato ("cautelare").
La Corte d'appello inserisce il verbo "riparare" in un contesto giudiziario mentre l'odierno imputato ha spiegato che il reale significato da attribuire al verbo è quello di "usare cautela" nei confronti dei collaboratori.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è destituito di fondamento e va, pertanto disatteso per i motivi di seguito esposti.
2. Il primo motivo di ricorso è inammissibile in quanto orientato a riprodurre, con generiche formulazioni, un quadro di argomentazioni già esposte nel giudizio d'appello che, tuttavia, risultano ampiamente vagliate e correttamente disattese dalla Corte distrettuale, ovvero a sollecitare una rivisitazione meramente fattuale delle risultanze processuali, poichè imperniata sul presupposto di una valutazione alternativa delle fonti di prova, in tal guisa richiedendo l'esercizio di uno scrutinio improponibile in questa Sede, a fronte della linearità e della logica conseguenzialità che caratterizzano i passaggi motivazionali dell'impugnata decisione.
Il ricorso, dunque, omette di confrontarsi criticamente con le puntuali ragioni giustificative della correlata affermazione di responsabilità, nè è volto a rilevare mancanze argomentative ed illogicità ictu oculi percepibili in questa Sede, bensì ad ottenere un non consentito sindacato su scelte valutative compiutamente giustificate dal Giudice di appello, che ha adeguatamente ricostruito il compendio storico-fattuale posto a fondamento dei correlativi temi d'accusa, traendone le logiche conseguenze del caso.
La Corte d'appello di Bari, in particolare, evidenzia come, durante la consultazione da parte dell'imputato del (OMISSIS), lo stesso abbia telefonato al congiunto dicendogli testualmente "ti devo dire qualcosa che ti riguarda, stasera ci possiamo vedere... perchè ti devi riparare... tanto di devo mettere al corrente di una cosa".
La Corte evidenzia, altresì, che, subito dopo, i due si erano incontrati nei pressi dell'ufficio giudiziario ove lavorava l'imputato.
Tale quadro indiziario, come correttamente sottolineato dalla Corte territoriale, consegue i requisiti di precisione, gravità e concordanza in considerazione della versione dei fatti totalmente inverosimile fornita dall'imputato in merito al contenuto e alla finalità della conversazione sopra menzionata.
3. Quanto al secondo motivo di ricorso, lo stesso si articola in più deduzioni che devono essere tutte disattese..
3.1. E' infondato il motivo di ricorso nella parte in cui denuncia la violazione dell'art. 521 c.p.p..
Premesso che, con riferimento al principio di correlazione fra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa (Sez. 6, n. 11956 del 15/02/2017; Sez. 2, n. 5260 del 24/01/2017; Sez. 6, n. 34051 del 20/02/2003; Sez. U. n. 16 del 19/06/1996), nel caso in esame la condanna è intervenuta esattamente in relazione al reato contestato. Sia nella sentenza di primo grado che in quella di secondo grado, i giudici hanno ritenuto che la condotta di favoreggiamento sia iniziata con la telefonata tra l'imputato ed il congiunto e si sia completata con le comunicazioni verbali nel corso dell'incontro de visu tra i R.P. e R.G..
Correttamente la Corte d'appello ha ritenuto che il dato non abbia influito sull'esercizio del diritto di difesa, tanto che neppure è stato lamentato nei motivi di appello ed è stato allegato innanzi alla Corte solo in sede di discussione orale.
3.2. E', del pari, infondato il motivo di ricorso con il quale si deduce la violazione di legge in relazione al reato di cui all'art. 326 c.p..
Le notizie rivelate dall'imputato sono sicuramente notizie che dovevano rimanere segrete.
Deve escludersi, in linea generale, che sia consentita la comunicazione informale di quanto risulta dai registri di un ufficio giudiziario. Nè tale principio è derogabile se la notizia abbia ad oggetto l'eventuale iscrizione nel registro delle notizie di reato e sia richiesta dal diretto interessato.
Quest'ultimo, infatti non ha, di per sè, un diritto incondizionato a ricevere tale tipo di notizia: il combinato disposto di cui all'art. 335 c.p.p., e art. 110 bis disp. att. c.p.p., non solo riserva specificamente all'ufficio del Pubblico ministero la comunicazione delle informazioni concernenti eventuali iscrizioni nel registro delle notizie di reato, e previa formale richiesta, ma prevede espressamente che il Pubblico ministero, a fronte di una istanza di informazioni dell'interessato o del suo difensore, possa anche disporre il segreto sulle iscrizioni fino a tre mesi, ove ricorrano specifiche esigenze attinenti all'attività di indagine.
Deve perciò concludersi che solo la segreteria della competente Procura della Repubblica può fornire notizia circa eventuali iscrizioni a carico, sempre se il destinatario ne abbia fatto espressa richiesta e se la comunicazione dell'informazione sia stata autorizzata dal magistrato del Pubblico ministero, e che, quindi, fino al rilascio di tale autorizzazione, la notizia in ordine all'esistenza di iscrizioni a carico è segreta anche nei confronti del diretto interessato (Sez. 6, n. 49526 del 3.10.2017, Greco, Rv. 271565; Sez. 5, n. 44403 del 26/06/2015, Morisco, Rv. 266089; Sez. 6, n. 22276 del 05/04/2012, Maggioni, Rv. 252871).
Quanto alla asserita assenza di offensività quale limite alla sussistenza della fattispecie incriminatrice, deve osservarsi che, ai fini della configurabilità della fattispecie di cui all'art. 326 c.p., con riferimento alla rivelazione di notizie d'ufficio attinenti a procedimenti in fase di indagini, non è necessaria la prova dell'esistenza di un effettivo pregiudizio per le investigazioni, posto che il delitto in questione è reato di pericolo concreto che tutela il buon andamento della amministrazione, il quale si intende leso allorchè la divulgazione della notizia sia anche soltanto suscettibile di arrecare pregiudizio a quest'ultima o ad un terzo (Sez. 5, n. 46174 del 05/10/2004, Esposito, Rv. 231166; Sez. 6, n. 5141 del 18/12/2007, dep. 2008, Cincavalli, Rv. 238729).
Costituisce principio consolidato, quello secondo cui, quando è la legge a prevedere l'obbligo del segreto in relazione ad un determinato atto o in relazione ad un determinato fatto, il reato di cui all'art. 326 c.p., sussiste senza che possa sorgere questione circa l'esistenza o la potenzialità del pregiudizio richiesto, in quanto la fonte normativa ha già effettuato la valutazione circa l'esistenza del pericolo, ritenendola conseguente alla violazione dell'obbligo del segreto (Sez. 6, n. 42726 del 11/10/2005, De Carolis, Rv. 232751, espressamente richiamata da Sez. 6, n. 33256 del 19/05/2016, Martina, Rv. 267870).
Da questa complessiva elaborazione, sembra possibile desumere che, in realtà, quando l'obbligo del segreto in relazione ad un determinato atto o in relazione ad un determinato fatto discende da una previsione di legge, il bene giuridico tutelato dall'art. 326 c.p., comma 1, è anche l'imparzialità della pubblica amministrazione, in linea con quella che è ritenuta l'oggettività giuridica di categoria dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, e come osserva parte della dottrina.
Nella prospettiva indicata, allora, il principio di offensività assume un ruolo di limite alla configurabilità del reato di rivelazione di segreto di ufficio solo con riferimento a notizie che siano futili o insignificanti avendo riguardo sia al principio del buon andamento, sia al principio di tutela dell'imparzialità dell'azione dell'Autorità pubblica.
Ciò posto, nella vicenda in esame, le notizie apprese dal ricorrente consultando (OMISSIS) e rivelate a R.G. in merito all'indagine in corso a suo carico avevano ad oggetto una informazione per la quale il divieto di comunicazione era, ed è, imposto dalla legge, e precisamente dalla L. n. 1169 del 1960, art. 159, anche alla luce del D.M. n. 334 del 1989, art. 2, comma 3, e tenendo conto di quanto previsto dall'art. 335 c.p.p., e art. 110 disp. att. c.p.p..
Nè può dirsi che l'informazione fornita riguardasse una notizia futile o insignificante avendo riguardo sia al buon andamento sia all'imparzialità dell'amministrazione, in quanto il dato era relativo alla posizione del richiedente in un procedimento penale in fase di indagine.
Non può nemmeno parlarsi di notizia di pubblico dominio, posto che tale circostanza non è stata provata dalla difesa e, come correttamente evidenziato dalla Corte di appello, è contraddetta dalle stesse dichiarazioni dell'imputato, il quale ha riferito che aveva sentito parlare di un indagine a carico di un candidato sindaco, ing. G., che aveva dei procedimenti in corso ed era rimasto incuriosito tanto da volere verificare questa circostanza.
Ciò significa che il ricorrente non aveva sentito parlare dell'indagine a carico di R.G..
3.3. E', infine, infondato il motivo di ricorso che attiene alla violazione di legge con riferimento al reato cui all'art. 378 c.p..
Costituisce orientamento giurisprudenziale consolidato quello secondo il quale il reato di favoreggiamento personale è un reato di pericolo, per la cui sussistenza basta che l'azione sia finalizzata ad aiutare qualcuno a eludere le investigazioni o a sottrarsi alle ricerche delle autorità, mentre non è necessario che tale effetto sia raggiunto (Sez. 6, n. 6662 del 06/12/2016, dep. 13/02/2017, Calore, Rv. 269541). Il reato, dunque, può essere integrato da qualunque condotta, positiva o negativa, diretta o indiretta (Sez. 6, n. 2936 del 01/12/1999, dep. 09/03/2000, Rv. 217108) e non è necessaria la dimostrazione dell'effettivo vantaggio conseguito dal soggetto favorito, occorrendo solo la prova della oggettiva idoneità della condotta favoreggiatrice ad intralciare il corso della giustizia (Sez. 6, n. 3523 del 07/11/2011, dep. 27/01/2012, Rv. 251649).
A tali principi si è correttamente attenuta la Corte di appello, allorchè ha ben evidenziato come la condotta posta in essere dal ricorrente sia stata indubbiamente idonea ad aiutare R.G. ad eludere le investigazioni a suo carico.
Ed, in particolare, poggia su logiche considerazioni il passaggio argomentativo col quale la Corte territoriale ha stimato implausibile la versione difensiva.
Il ricorrente ha sostenuto che, allorchè aveva chiamato di tutta fretta il congiunto dopo avere consultato il (OMISSIS), era animato dall'unico intento di informare il predetto della necessità di attivarsi, in quanto alcuni funzionari del Comune stavano manovrando per ritardare la firma della convenzione relativa all'affidamento di un centro polifunzionale alla gestione delle A.C.L.I. - delle quali lo stesso ricorrente era esponente - ad un tempo successivo alla scadenza del mandato del Sindaco; in relazione a tale fatto questi avrebbe dovuto, appunto, "ripararsi" in quanto la stipula della convenzione gli avrebbe giovato politicamente.
R.P. ha anche aggiunto di avere tentato molte volte di contattare telefonicamente il Sindaco per lo stesso scopo, senza riuscirvi; che, pertanto, solo per coincidenza quella conversazione e il successivo incontro avevano luogo circa un'ora dopo la consultazione del (OMISSIS), consultazione che era stata effettuata unicamente per curiosità e senza che gli esiti fossero rivelare al alcuno.
Preso atto di tali dichiarazioni, la Corte ha evidenziato, con motivazione congrua e immune da vizi censurabili in questa sede, come l'esigenza di intervenire per sollecitare la firma di quella convenzione era stata manifestata dall'indagato già in precedenza nella conversazione del 19/03/2011, nel corso della quale emergeva che quest'ultimo, quale esponente delle A.C.L.I., era sicuramente più interessato del Sindaco alla stipula urgente del contratto; in considerazione di ciò, come ben rimarcato dalla Corte, non vi era alcuna novità di cui il primo dovesse mettere al corrente il secondo.
Nella sentenza impugnata, inoltre, viene correttamente sottolineato come nella conversazione del 29 marzo 2011 i due interlocutori si aggiornavano al sabato successivo per fare il punto di quella situazione.
Con motivazione sorretta da logica, i giudici di secondo grado hanno rimarcato che non vi era motivo per cui l'imputato avrebbe dovuto incontrare il congiunto in data anteriore, nè egli ha fornito spiegazioni nel corso degli interrogatori.
Puntualmente, infine, la Corte ha messo in evidenza come della questione della stipula della convenzione il ricorrente non aveva mai avuto problema a parlare apertamente al telefono con il congiunto; in occasione della nuova vicenda che lo riguardava, e che intendeva comunicargli, R.P. chiedeva, invece, al congiunto di parlare di persona. Del resto, R.G., intuendo che si trattava di una questione importante, si affrettava ad incontrare il parente.
E' stato, quindi, correttamente ritenuto sussistente il reato di favoreggiamento, posto che, dalla analitica ricostruzione dei fatti operata dalla Corte d'appello, emerge con tutta evidenza che l'imputato ha deciso di incontrare con la massima urgenza il congiunto solo per rivelargli le notizie apprese consultando (OMISSIS), così consentendogli di "ripararsi", e cioè di fare quanto fosse in suo potere per ostacolare le indagini degli inquirenti.
Nessun vizio di legge è, quindi, riscontrabile nel caso de quo, posto che nella sentenza impugnata è puntualmente vagliata la sussistenza dei presupposti del reato di cui all'art. 378 c.p..
Ed, in particolare, è corretto ritenere che il ricorrente, riferendo al parente delle indagini a suo carico, abbia agito allo scopo di consentirgli di "ripararsi" e cioè di fare quanto in suo potere per ostacolare le indagini degli inquirenti.
Del pari, l'azione era indubbiamente idonea a produrre tale risultato ed è irrilevante la prova che l'aiuto fornito sia stato efficace.
Il dolo del reato da parte di R. risulta riassunto nella frase "ti devi riparare" e le giustificazioni offerte dall'imputato, come sottolineato dalla Corte d'appello, non appaiono credibili.
4. Al rigetto del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 12 gennaio 2018.
Depositato in Cancelleria il 13 marzo 2018