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Riqualificazione prevedibile? Nessuna rinnovazione probatoria (Cass. 5083/20)

6 febbraio 2020, Cassazione penale

Il giudice di appello può procedere alla riqualificazione giuridica del fatto nel rispetto del principio del giusto processo previsto dall'art. 6 CEDU, come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo, anche senza disporre una rinnovazione totale o parziale dell'istruttoria dibattimentale, sempre che sia sufficientemente prevedibile la ridefinizione dell'accusa inizialmente formulata, che il condannato sia in condizione di far valere le proprie ragioni in merito alla nuova definizione giuridica del fatto e che questa non comporti una modifica "in peius" del trattamento sanzionatorio e del computo della prescrizione.

In assenza di impugnazione da parte del pubblico ministero, viola il divieto di "reformatio in peius" la diversa qualificazione giuridica del fatto da parte del giudice del gravame, qualora a ciò consegua la configurazione di un delitto procedibile di ufficio, escluso dal primo giudice, in luogo di uno procedibile a querela.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

(ud. 14/01/2020) 06-02-2020, n. 5083

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SABEONE Gerardo - Presidente -

Dott. SCARLINI Enrico V. S. - Consigliere -

Dott. GUARDIANO Alfredo - rel. Consigliere -

Dott. PISTORELLI Luca - Consigliere -

Dott. CALASELICE Barbara - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

P.C., nato il (OMISSIS);

avverso la sentenza del 14/11/2018 della CORTE APPELLO di PALERMO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita a relazione svolta dal Consigliere Dr. GUARDIANO ALFREDO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. LOY MARIA FRANCESCA, che ha concluso chiedendo il rigetto.

Udito l'AVVOCATO MB

Svolgimento del processo - Motivi della decisione


1. Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Palermo confermava la sentenza con cui il tribunale di Termini Imerese, in data 7.7.2015, aveva condannato P.C. alla pena ritenuta di giustizia, in ordine ai reati ascrittigli nei capi A (art. 624 c.p. e art. 625 c.p., comma 1, n. 7) e B (art. 337 c.p.), previa riqualificazione del delitto di cui al capo A) nella fattispecie ex art. 624 bis c.p..

2. Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l'annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione l'imputato, a mezzo del suo difensore di fiducia, lamentando: 1) erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione, con riferimento al delitto di cui al capo A), in quanto la corte territoriale, in violazione del divieto della reformatio in peius, dopo avere escluso la configurabilità della circostanza aggravante ex art. 625 c.p., n. 7), ha riqualificato, peraltro erroneamente, la condotta dell'imputato nella più grave fattispecie di cui all'art. 624 bis c.p., reato procedibile d'ufficio, pur in mancanza di appello del pubblico ministro sul punto, laddove, una volta esclusa la menzionata circostanza aggravante, il giudice di secondo grado avrebbe dovuto pronunciare sentenza di non doversi procedere per mancanza di condizione di procedibilità, in assenza di formale querela proposta dalla persona offesa; 2) erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione, con riferimento al delitto di cui al capo B), difettando la prova della sussistenza del delitto di resistenza a pubblico ufficiale, in quanto, da un lato, sotto il profilo oggettivo, l'espressione utilizzata dal giudice di appello per descrivere la condotta del reo ("cercava di fuggire spintonando entrambi i militari") non è idonea a provare come avvenuta una violenza o minaccia, tale da porre in pericolo l'incolumità o l'indiretta coartazione psicologica dei pubblici ufficiali; dall'altro) manca del tutto ogni valutazione in ordine all'elemento psicologico del reato, su cui si erano appuntate le censure difensive nell'atto di appello.

3. Il ricorso non può essere accolto, essendo sorretto da motivi non condivisibili.

4. Ed invero, infondato appare il primo motivo di impugnazione.

Come affermato, infatti, dall'orientamento da tempo dominante nella giurisprudenza di legittimità, il giudice di appello può procedere alla riqualificazione giuridica del fatto nel rispetto del principio del giusto processo previsto dall'art. 6 CEDU, come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo, anche senza disporre una rinnovazione totale o parziale dell'istruttoria dibattimentale, sempre che sia sufficientemente prevedibile la ridefinizione dell'accusa inizialmente formulata, che il condannato sia in condizione di far valere le proprie ragioni in merito alla nuova definizione giuridica del fatto e che questa non comporti una modifica "in peius" del trattamento sanzionatorio e del computo della prescrizione. (cfr., ex plurimis, Sez. 6, n. 7195 del 08/02/2013, rv. 254720; Sez. 2, n. 38049 del 18/07/2014 rv. 260585; Cass., Sez. 2, n. 2884, del 16/01/2015, rv. 262285; Sez. 2, n. 39961, del 19/07/2018, rv. 273922; Sez. 5, n. 11235 del 27/02/2019, rv. 276125).

Condizioni che nel caso in esame risultano tutte rispettate.

In particolare va rilevato come la questione della diversa qualificazione giuridica della condotta del reo (dipendente dalla natura del luogo dove era stata parcheggiata l'autovettura oggetto di furto: un'area recintata, pertinenziale alla casa della persona offesa) fosse già stata affrontata dal giudice di primo grado.

Pertanto la riconducibilità da parte del giudice di appello del fatto storico al paradigma normativo di cui all'art. 624 bis c.p., piuttosto che al disposto dell'art. 624 c.p., art. 625 c.p., comma 1, n. 7, non poteva considerarsi, anche alla luce del consolidato orientamento giurisprudenziale in precedenza richiamato, evento processualmente imprevedibile agli occhi della difesa, che avrebbe ben potuto interloquire, nel contraddittorio tra le parti, su tale profilo, pur in assenza dell'appello del pubblico ministero sul punto, rappresentando, come si è detto, la diversa e più grave qualificazione giuridica del fatto un possibile epilogo decisorio del giudizio di secondo grado.

Nè va taciuta la manifesta infondatezza del successivo rilievo, che delimita il perimetro dell'eccezione difensiva, secondo cui, una volta esclusa la circostanza aggravante ex art. 625 c.p., n. 7, la corte territoriale avrebbe dovuto pronunciare sentenza di non doversi procedere per mancanza di condizione di procedibilità, in assenza di formale querela.

Come si evince, infatti, dalla lettura della motivazione della sentenza di primo grado (che costituisce un prodotto unitario con quella oggetto di ricorso), non contestata sul punto dal ricorrente, la querela è stata proposta da un soggetto ( D.V.), che, pur non essendo il proprietario dell'autovettura oggetto del furto (appartenente al figlio D.F.), ne aveva pacificamente l'uso (cfr. pp. 1 e 3 della sentenza di primo grado).

In quanto tale, dunque, egli era legittimato a presentare l'istanza punitiva, posto che, come affermato da tempo nella giurisprudenza di legittimità, il bene giuridico protetto dal delitto di furto è individuabile non solo nella proprietà o nei diritti reali personali o di godimento, ma anche nel possesso - inteso come relazione di fatto che non richiede la diretta fisica disponibilità - che si configura anche in assenza di un titolo giuridico e persino quando esso si costituisce in modo clandestino o illecito, con la conseguenza che anche al titolare di tale posizione di fatto spetta la qualifica di persona offesa e, di conseguenza, la legittimazione a proporre querela (cfr. Sez. U. n. 40354 del 18.7.2013, rv. 255975).

Si comprende, allora, come si giungerebbe ad una conclusione in termini di rigetto, anche se si volesse aderire ad altro orientamento della giurisprudenza della Corte di Cassazione, secondo cui, in assenza di impugnazione da parte del pubblico ministero, viola il divieto di "reformatio in peius" la diversa qualificazione giuridica del fatto da parte del giudice del gravame, qualora a ciò consegua la configurazione di un delitto procedibile di ufficio, escluso dal primo giudice, in luogo di uno procedibile a querela (cfr. Sez. 5 n. 42577 del 20.7.2016, rv. 267782).

Ed invero la procedibilità d'ufficio del delitto ritenuto dalla corte di appello, non ha determinato sul piano processuale, l'unico ad avere formato oggetto di specifica doglianza da parte dell'imputato, alcun effetto peggiorativo della posizione di quest'ultimo, in quanto, come si è detto, l'esclusione della circostanza aggravante, di cui all'art. 625 c.p., n. 7), non poteva comunque condurre ad una decisione nei termini della improcedibilità invocata dal P., in presenza di una querela legittimamente proposta dal possessore del bene oggetto di furto.

Difetterebbe, pertanto, sotto questo profilo, anche un interesse concreto a far valere il vizio denunciato, non essendo configurabile nei confronti del ricorrente un pregiudizio concreto e suscettibile di essere eliminato dalla riforma o dall'annullamento della decisione impugnata (cfr. Sez. 3, n. 30547 del 6.3.2019, rv. 276274).

5. Con il secondo motivo di ricorso, invece, l'imputato propone una mera e del tutto generica rivalutazione del compendio probatorio operata dal giudice di secondo grado, peraltro riportandosi, sempre genericamente ai motivi di appello, non consentita in questa sede, stante la preclusione, per il giudice di legittimità, di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, e considerato che, in tal caso, si demanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, quale è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (cfr. ex plurimis, Cass., sez. VI, 22/01/2014, n. 10289), nel caso in esame fondata su di un approfondito e coerente percorso motivazionale, con cui il ricorrente, in ultima analisi, non si confronta realmente.

Vanno, in ogni caso, ribaditi due principi di diritto consolidati nella giurisprudenza di legittimità.

Da un lato, agli effetti del reato di cui all'art. 337 c.p., costituisce violenza qualsiasi energia fisica esercitata volutamente per impedire il compimento dell'atto da parte del pubblico ufficiale, ragione per la quale integra il delitto di resistenza, l'azione di colui che, come il P. (cfr. p. 2 della sentenza di primo grado), mediante spintoni riesce a sottrarsi, sia pure momentaneamente, alla presa dell'agente di polizia, incaricato di bloccarlo (cfr. Sez. 6 n. 1464 del 14.12.1993, rv. 197184).

Dall'altro, che, in tema di dolo, la prova della volontà di commissione del reato è prevalentemente affidata, in mancanza di confessione, alla ricerca delle concrete circostanze che abbiano connotato l'azione e delle quali deve essere verificata la oggettiva idoneità a cagionare l'evento in base ad elementi di sicuro valore sintomatico, valutati sia singolarmente sia nella loro coordinazione (cfr. Cass., sez. 6, 6.4.2011, n. 16465, rv. 250007), come fatto dalla corte territoriale, partendo proprio dalle modalità con cui l'imputato ha cercato di sottrarsi al controllo ed all'arresto da parte delle forze dell'ordine (cfr. p. 1 della sentenza oggetto di ricorso).

6 Alla dichiarazione di rigetto, segue la condanna del ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 14 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 6 febbraio 2020