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Rifiuto di consegna di straniero stabilmente radicato in MAE esecutivo? (Cass.10371/20)

19 marzo 2020, Cassazione penale

Entro i confini di uno spazio comune di libertà,  sicurezza e giustizia, che si vuole governato dal principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie (ex art. 67, par. 3 e art. 82, par. 1, TFUE), le figure soggettive escluse dal beneficio del rifiuto della consegna esecutiva ben possono invocare dinanzi all'autorità giudiziaria la lesione derivante dall'irragionevole disparità di trattamento procurata nei loro confronti da una norma interna il cui contenuto si pone oggettivamente in contrasto con le norme di diritto derivato di cui agli artt. 4, n. 6 e 5, n. 3, della decisione quadro sul mandato di arresto Europeo (disposizioni che, ai sensi dell'art. 1, par. 3, della stessa decisione quadro, giammai potrebbero essere interpretate in modo da entrare in conflitto con i diritti fondamentali e i fondamentali principii giuridici sanciti nell'art. 6 TUE).

Le discrasie emergenti dall'analisi del regime normativo delineato dalla L. n. 69 del 2005, art. 18-bis, lett. c) e art. 19, lett. c) non riguardano solo il rapporto "interno" tra le due disposizioni - non apparendo di certo giustificabile la situazione in cui il cittadino di un Paese terzo richiesto in consegna in sede processuale debba essere ritrasferito nel nostro Paese, mentre la sua volontà di espiarvi la pena non riceva alcuna forma di tutela nell'ipotesi di una richiesta di consegna esecutiva - ma involgono, più in generale, il rapporto fra le pertinenti disposizioni della decisione quadro e l'attuazione "monca" che le stesse hanno ricevuto nel nostro ordinamento, dando luogo, per un verso, ad una possibile lesione dei principi costituzionali di eguaglianza (art. 3 Cost.) e di rieducazione del condannato (art. 27 Cost.), e, per altro verso, ad un'evidente inottemperanza ad obblighi Euro-unitari di tutela nel settore della cooperazione giudiziaria penale (artt. 11 e 117 Cost.).

Va sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis, legge 22 aprile 2005, n. 69 (come introdotto dall’art. 6, comma 5, lett. b), della legge 4 ottobre 2019, n. 177,) in riferimento agli artt. 3, 11, 27 comma 3, e 117 comma 1, Cost., nella parte in cui non prevede il rifiuto facoltativo della consegna del cittadino di uno Stato non membro dell’Unione europea, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, sempre che la Corte di Appello disponga che la pena o la misura di sicurezza irrogata nei suoi confronti dall’autorità giudiziaria di uno Stato membro dell’Unione europea sia eseguita in Italia, conformemente al suo diritto interno.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE

Ord., (ud. 04/02/2020) 19-03-2020, n. 10371


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MOGINI Stefano - Presidente -
Dott. CRISCUOLO Anna - rel. Consigliere -
Dott. DE AMICIS Gaetano - Consigliere -
Dott. AMOROSO Riccardo - Consigliere -
Dott. ROSATI Martino - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
 
ORDINANZA
 
sul ricorso proposto da:
Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Genova;
 
nei confronti di:
B.N., nato in (OMISSIS);
 
avverso la sentenza del 07/01/2020 della Corte di appello di Genova;
 
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
 
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Gaetano De Amicis;
 
udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore generale Dr. Aniello Roberto, che ha
concluso chiedendo l'annullamento con rinvio e, in subordine, la proposizione della questione di legittimità costituzionale della L. n. 69 del 2005, art. 18, lett. r), per contrasto con l'art. 3 Cost. nella parte in cui non prevede il rifiuto della consegna del cittadino straniero non Europeo residente o dimorante in Italia ai fini della esecuzione della pena detentiva in Italia;
 
udito il difensore, avvocato GC, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso in relazione alla legge istitutiva del mandato di arresto Europeo, associandosi, in subordine, alla richiesta del P.G. sulla questione di legittimità costituzionale.
 
Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 7 gennaio 2020 la Corte di appello di Genova, decidendo in sede di rinvio a seguito di annullamento da parte di questa Suprema Corte con la sentenza n. 49881 del 5 dicembre 2019, ha rifiutato la consegna del cittadino albanese B.N., richiesta, in esecuzione di un mandato di arresto Europeo emesso il 24 gennaio 2018 dalla Procura generale presso la Corte di appello di Salonicco, relativamente alla sentenza definitiva di condanna (n. 1071-1072/2007) all'ergastolo e alla pena pecuniaria della multa di Euro 50.000,00 pronunciata nei suoi confronti dalla Corte di appello di Salonicco per il reato di traffico di sostanze stupefacenti.

1.1. Con la medesima pronuncia, inoltre, la Corte territoriale ha riconosciuto nell'ordinamento italiano, ex D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 6, la sentenza di condanna pronunciata dalla Corte di appello di Salonicco il 26 giugno 2007 nei confronti del B., per avere illegalmente detenuto e trasportato, in concorso con altre persone, un quantitativo pari a grammi 4.176,00 di sostanza stupefacente del tipo eroina (fatto accertato in (OMISSIS)); ha quindi provveduto, previa applicazione dell'indulto per la porzione di pena pari ad anni tre di reclusione ed Euro 10.000,00 di multa, a determinare la pena finale da eseguire in Italia nella misura di anni ventitre, mesi otto di reclusione ed Euro 40.000,00 di multa, con le pene accessorie dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell'interdizione legale durante la pena.

1.2. Con la sentenza rescindente del 5 dicembre 2019 questa Corte aveva disposto un nuovo giudizio a seguito dell'annullamento per un vizio procedurale della precedente decisione emessa dalla Corte di appello di Genova in data 5 novembre 2019, che aveva a sua volta ordinato la consegna del B. alla richiedente Autorità estera.

2. Avverso la su indicata decisione ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Genova, deducendo i motivi di doglianza qui di seguito sinteticamente esposti.

2.1. Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto plurime violazioni di legge in relazione alla L. n. 69 del 2005, art. 18, lett. r) e Legge Costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, art. 1 e L. n. 87 del 11 marzo 1953, art. 23, rilevando come la Corte distrettuale abbia erroneamente offerto una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 18, lett. r), cit., per superarne l'irragionevole disparità di trattamento rispetto all'analoga disposizione del mandato di arresto Europeo cd. processuale di cui all'art. 19, lett. c), legge cit., senza sollecitare il necessario intervento della Corte costituzionale, che con la sentenza additiva n. 227 del 2010 era già intervenuta sul testo della richiamata disposizione dichiarandone in parte la incostituzionalità, là dove ne aveva ampliato l'ambito di applicazione ritenendo che la fattispecie non considerata, in quanto esclusa dal tenore letterale dell'enunciato, non potesse esservi ricompresa in forza di un'operazione ermeneutica da parte del giudice ordinario.

Sotto altro profilo il ricorrente ha soggiunto:

a) che nel caso deciso con la richiamata sentenza di incostituzionalità il Giudice delle leggi aveva individuato il contrasto della disposizione di cui all'art. 18, lett. r), non solo con la decisione quadro in tema di mandato di arresto Europeo, quale atto di diritto cd. derivato, ma anche con il divieto di discriminazione in base alla nazionalità di cui all'art. 12 del Trattato CE, successivamente trasfuso nell'art. 18 TFUE, osservando che tale disposizione, pur direttamente applicabile, non è dotata di una portata assoluta, tale da far ritenere sempre e comunque incompatibile la norma nazionale che formalmente vi contrasti;

b) che lo stesso Giudice rimettente, ossia la Corte di cassazione, oltre a rilevare il contrasto con la richiamata norma del Trattato, aveva denunciato la violazione di ulteriori parametri costituzionali (gli artt. 3 e 27 Cost.) sulla base delle medesime argomentazioni poi riproposte dalla Corte d'appello, escludendo, tuttavia, qualsiasi spazio per un'interpretazione conforme in relazione all'esclusione - nella previsione dell'art. 18, lett. r) - del rifiuto di consegna nei confronti del residente non cittadino italiano;

c) che la Corte di cassazione, inoltre, adeguandosi alla pronuncia del Giudice delle leggi, ha successivamente escluso che l'ambito di operatività dell'art. 18, lett. r) possa estendersi al cittadino residente, ma appartenente ad uno Stato terzo rispetto all'UE. 2.2. Con il secondo motivo, inoltre, il ricorrente ha denunciato violazioni di legge ed omessa motivazione in relazione all'applicazione del D.Lgs. 7 settembre 2010, n. 161, artt. 10, 11, 13, 24, nonchè in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 e art. 80, comma 1, per avere la sentenza impugnata erroneamente valutato il requisito della doppia punibilità, là dove non ha considerato, accanto alla condotta di detenzione della sostanza stupefacente, anche quella di istigazione a delinquere di altri due concorrenti nel trasporto della sostanza da cedere a terzi.

La sentenza di condanna, infatti, descrive una condotta che dovrebbe correttamente inquadrarsi nel reato ex D.P.R. cit., art. 73, comma 6, aggravato dal art. 80, comma 1, lett. b), in relazione all'art. 112 c.p., comma 1, n. 2, nonchè dall'art. 80, comma 2, in ragione del dato obiettivo legato all'ingente quantità di sostanza stupefacente oggetto dell'azione delittuosa.
Ne discende che la pena finale avrebbe dovuto essere correttamente rideterminata in quella di anni trenta di reclusione già solo per la sussistenza dell'aggravante di cui al D.P.R. cit., art. 80, comma 1, computando, sotto altro profilo, la pena presofferta dal condannato a titolo di custodia cautelare: aspetto, quest'ultimo, che la Corte distrettuale ha omesso di considerare, erroneamente demandandolo ad un successivo computo da effettuare in fase esecutiva.
 
 

Motivi della decisione


1. Con la sentenza impugnata la Corte d'appello, dopo aver accertato, sulla base di argomentazioni congruamente illustrate in punto di fatto, che la persona richiesta in consegna, di nazionalità albanese, è stabilmente radicata in Italia sia sul piano lavorativo che familiare, ha richiamato il quadro dei principii stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità e dalla Corte di giustizia dell'Unione Europea per ritenere quella persona effettivamente e legittimamente residente nello Stato.

Muovendo da tale premessa, la sentenza impugnata ha posto a raffronto l'oggetto del suo accertamento con il tenore letterale della norma contemplata nell'art. 18, lett. r), cit., quale risultante a seguito della declaratoria di incostituzionalità pronunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 227 del 24 giugno 2010, nella parte in cui non prevede il rifiuto della consegna anche del cittadino di un altro Paese membro dell'Unione Europea, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, ai fini dell'esecuzione di una pena detentiva in Italia conformemente al diritto interno.

All'esito di tale disamina la Corte distrettuale ha ritenuto di escludere che l'intervento additivo operato per effetto della richiamata pronuncia della Corte costituzionale possa impedire "ulteriori interpretazioni costituzionalmente orientate" della medesima disposizione legislativa per la decisiva ragione che la declaratoria di incostituzionalità è stata pronunciata per il contrasto fra la normativa interna e quella Europea sotto il profilo della disparità di trattamento fra cittadini di nazionalità Europea con riferimento al diritto di libero stabilimento all'interno del territorio dei Paesi membri.

Entro questa prospettiva, in particolare, essa ha individuato un diverso profilo di incostituzionalità tutto all'interno del quadro normativo nazionale, a causa dell'irragionevole disparità di trattamento che, per il residente di nazionalità non Euro-unitaria, viene a determinarsi ex art. 3 Cost., rispetto alla parallela disciplina del rifiuto di consegna previsto per il mandato cd. "processuale" di arresto di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 19, comma 1, lett. c), sia tale disposizione che l'altra di cui all'art. 18, lett. r) - concernente, in via speculare, l'ipotesi del cd. mandato "esecutivo" di arresto - ancorano il presupposto per il rifiuto e la riconsegna allo status di cittadino italiano ovvero a seguito della citata sentenza della Corte costituzionale - di residente in Italia, con la conseguenza che il diverso trattamento riservato al residente di nazionalità non Europea confligge con il divieto di discriminazione di cui all'art. 3 Cost..

Analogo vulnus si ritiene configurabile, da parte della Corte distrettuale, con riferimento alla finalità, garantita dall'art. 27 Cost., di garanzia del reinserimento sociale del condannato: finalità che trova applicazione indipendentemente dalla sua nazionalità, laddove nella normativa Europea di riferimento non sembra individuabile alcuna disposizione che vieti agli Stati membri di introdurre motivi di rifiuto della consegna legati alla nazionalità non Europea della persona richiesta in consegna.

Ciò posto, i successivi passaggi motivazionali della sentenza impugnata si soffermano sulla possibilità di operare un'interpretazione costituzionalmente orientata del disposto di cui al cit., art. 18, comma 1, lett. r), nel senso che tale norma, "in perfetta simmetria" con quanto previsto dal legislatore per la disciplina dell'analoga ipotesi di rifiuto del mandato d'arresto Europeo processuale, deve trovare applicazione non solo con riferimento ai cittadini italiani ed ai residenti di nazionalità Europea, ma anche nei confronti dei residenti di nazionalità non Euro-unitaria.

La Corte d'appello, per vero, mostra di non ignorare una recente pronuncia di questa Suprema Corte (n. 7214 del 14 febbraio 2019), che ha dichiarato manifestamente infondata la medesima questione di costituzionalità di quella norma interna in ragione della sua non applicabilità al cittadino non Europeo, ma ritiene, ciò non di meno, che tale decisione non osti ad una interpretazione conforme della norma sospetta di incostituzionalità poichè la Corte di legittimità ha preso in considerazione esclusivamente il possibile contrasto fra la norma interna e quella Europea sotto il profilo della violazione del principio di libero stabilimento dei cittadini Europei, laddove il diverso profilo di incostituzionalità ravvisato in ragione del "contrasto interno alla normativa nazionale" con riferimento all'irragionevole disparità di trattamento fra le norme di cui agli Legge cit., artt. 18 e 19 può essere superato attraverso un'interpretazione costituzionalmente orientata che faccia leva sull'estensione dell'ambito soggettivo di applicazione della norma prevista dall'art. 18.

2. La linea interpretativa indicata dalla Corte d'appello non può essere condivisa nelle sue premesse nè, tanto meno, nelle sue conclusioni.

2.1. Le argomentazioni che la sorreggono non si confrontano con il mutamento normativo di recente verificatosi per effetto dell'art. 6 della legge di delegazione Europea 2018 (L. 4 ottobre 2019, n. 117, recante Delega al Governo per il recepimento delle direttive Europee e l'attuazione di altri atti dell'Unione Europea - Legge di delegazione Europea 2018), che oltre a dettare, nei commi 3 e 4, "principi e criteri direttivi specifici" per "il più compiuto adeguamento della normativa nazionale" alla decisione quadro 2002/584/GAI del 13 giugno 2002, ha introdotto, con il comma 5, due modificazioni alla L. n. 69 del 22 aprile 2005 - sostituendo il testo dell'art. 18 (Motivi di rifiuto obbligatorio della consegna) ed inserendo un nuovo art. 18-bis (Motivi di rifiuto facoltativo della consegna) - immediatamente operative con l'entrata in vigore della legge (avvenuta il 2 novembre 2019).

Mentre l'art. 6, comma 4 testè menzionato stabilisce che, in sede di esercizio della delega in conformità ai criteri di cui al precedente comma 3 della lett. a), "possono essere apportate anche le opportune modifiche" al testo delle disposizioni di cui alla L. n. 69 del 2005, artt. 18 e 18-bis, come rispettivamente modificato e introdotto dal medesimo art. 6, comma 5, quest'u.c., in particolare, ha estrapolato dal testo previgente dell'art. 18 (allora rubricato Rifiuto della consegna, adesso Motivi di rifiuto obbligatorio della consegna) le originarie lett. o), p) ed r), trasformando le cause ostative ivi specificamente disciplinate in altrettanti motivi di rifiuto facoltativo della consegna, ora contemplati nell'art. 18-bis, lett. a), b) e c) della Legge cit. (rubricato appunto Motivi di rifiuto facoltativo della consegna).

Nella nuova previsione della lett. c), per quel che maggiormente interessa nel caso in esame, il legislatore ha tenuto conto della declaratoria di illegittimità costituzionale che nel 2010 aveva investito l'originaria dell'art. 18, lett. r), sicchè la corte d'appello può attualmente rifiutare la consegna se il mandato d'arresto Europeo è stato emesso ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale, qualora la persona ricercata sia cittadino italiano o cittadino di altro Stato membro dell'Unione Europea, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, sempre che la corte di appello disponga che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno.

Per quel che attiene, invece, alla L. n. 69 del 2005, art. 18, ne è stato sì sostituito il testo, ma - fatta salva la scomparsa delle originarie lett. o), p), r), con il conseguente mutamento della relativa elencazione alfabetica - il contenuto delle lettere superstiti è rimasto identico.

Pur discostandosi dalla scelta originariamente seguita dal legislatore nazionale nel 2005 - che nell'originaria versione dell'art. 18 ha previsto solo motivi di rifiuto obbligatorio della consegna, laddove la richiamata decisione quadro 2002/584/GAI scinde il numerus clausus delle cause di rifiuto contemplando, nell'art. 3, solo tre motivi di non esecuzione obbligatoria del mandato, e nei successivi artt. 4 e 4-bis tutte le altre, assai più numerose, ipotesi di non esecuzione facoltativa del mandato di arresto Europeo - la novella legislativa ha ristretto il catalogo dei motivi obbligatori, che resta comunque assai più nutrito (almeno nelle more del possibile intervento del legislatore delegato) di quello contenuto nell'art. 3 della citata decisione quadro, ma nel modificare l'ambito soggettivo di applicazione della disposizione di cui alla lett. r) vi mantiene tuttora un persistente profilo di incompatibilità con il diritto dell'Unione Europea, ed in particolare con la ratio del motivo di rifiuto facoltativo stabilito dall'art. 4, n. 6, secondo cui l'autorità giudiziaria può rifiutare di eseguire il mandato qualora la persona ricercata, senza alcuna distinzione fra il residente non cittadino che appartenga ad uno Stato membro UE ovvero ad uno Stato terzo, "dimori nello Stato membro di esecuzione, ne sia cittadino o vi risieda", se tale Stato si impegni ad eseguire la pena o la misura di sicurezza conformemente al proprio diritto interno.
Ratio che, secondo quanto affermato dalla Corte di giustizia dell'Unione Europea (con la sentenza del 18 luglio 2008, C-66/08, Kozlowsky), è quella di "accrescere le opportunità di reinserimento sociale della persona ricercata, una volta scontata la pena".

Nel trasformare in facoltativo il motivo di rifiuto obbligatorio di cui alla lett. r) dell'originario testo della L. n. 69 del 2005, art. 18 il legislatore ha recepito il decisum della pronuncia additiva n. 227/2010 della Corte costituzionale, ma, pur nella versione così emendata, non ha preso in considerazione la posizione dei cittadini di Stati non membri dell'Unione Europea che stabilmente risiedano o dimorino nel territorio nazionale e che, in quanto tali, se destinatari di un mandato di arresto Europeo, ben potrebbero rientrare nella sfera di operatività (e conseguentemente beneficiare) dell'applicazione del motivo ostativo in esame.

La scelta operata dal legislatore italiano, pertanto, pur ampliando la sfera soggettiva di applicazione della richiamata causa ostativa, continua a non prevedere espressamente la possibilità di opporre un motivo di rifiuto alla consegna esecutiva allorquando la richiesta riguardi in particolare il cittadino di un Paese terzo da lungo tempo residente o dimorante in Italia.

Diversamente da quanto affermato nella sentenza impugnata, dunque, le discrasie emergenti dall'analisi del regime normativo delineato dalla L. n. 69 del 2005, art. 18-bis, lett. c) e art. 19, lett. c) non riguardano solo il rapporto "interno" tra le due disposizioni - non apparendo di certo giustificabile la situazione in cui il cittadino di un Paese terzo richiesto in consegna in sede processuale debba essere ritrasferito nel nostro Paese, mentre la sua volontà di espiarvi la pena non riceva alcuna forma di tutela nell'ipotesi di una richiesta di consegna esecutiva - ma involgono, più in generale, il rapporto fra le pertinenti disposizioni della decisione quadro e l'attuazione "monca" che le stesse hanno ricevuto nel nostro ordinamento, dando luogo, per un verso, ad una possibile lesione dei principi costituzionali di eguaglianza (art. 3 Cost.) e di rieducazione del condannato (art. 27 Cost.), e, per altro verso, ad un'evidente inottemperanza ad obblighi Euro-unitari di tutela nel settore della cooperazione giudiziaria penale (artt. 11 e 117 Cost.).
Entro i confini di uno spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia, che si vuole governato dal principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie (ex art. 67, par. 3 e art. 82, par. 1, TFUE), le figure soggettive escluse dal beneficio del rifiuto della consegna esecutiva ben potrebbero invocare dinanzi all'autorità giudiziaria la lesione derivante dall'irragionevole disparità di trattamento procurata nei loro confronti da una norma interna il cui contenuto si pone oggettivamente in contrasto con le norme di diritto derivato di cui agli artt. 4, n. 6 e 5, n. 3, della decisione quadro sul mandato di arresto Europeo (disposizioni che, ai sensi dell'art. 1, par. 3, della stessa decisione quadro, giammai potrebbero essere interpretate in modo da entrare in conflitto con i diritti fondamentali e i fondamentali principii giuridici sanciti nell'art. 6 TUE).
2.2. Sotto altro, ma connesso profilo, deve rilevarsi come la soluzione ermeneutica proposta dalla Corte distrettuale non tenga adeguatamente conto del fatto che in relazione a nuclei tematici rilevanti della materia in esame si sono già pronunziate, come più avanti meglio si vedrà, questa Suprema Corte, la Corte di giustizia (sin dalla sentenza del 6 ottobre 2009, C-123/08, Wolzemburg) ed infine la Corte costituzionale con la richiamata sentenza n. 227 del 2010.
Ancor prima dell'intervento operato dalla Corte di giustizia con la sentenza Wolzenburg, ed anticipandone per certi versi alcuni percorsi interpretativi, questa Corte (con ordinanza n. 33511 del 15 luglio 2009) ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento all'art. 3 Cost., art. 27 Cost., comma 3 e art. 117 Cost., comma 1, la questione di legittimità costituzionale della previgente disposizione di cui alla L. 22 aprile 2005, n. 69, art. 18, comma 1, lett. r), nella parte in cui non prevedeva il rifiuto della consegna del residente non cittadino.
Nell'escludere la possibilità di una lettura alternativa di tale norma in base al principio di interpretazione conforme alla decisione quadro sul mandato d'arresto Europeo, questa Corte ha già avuto modo di osservare, in particolare, che nella prospettiva comunitaria non può ritenersi giustificata (a maggior ragione quando la richiesta di consegna riguardi il cittadino di uno Stato membro UE) una disparità di trattamento fra cittadini e residenti, avuto riguardo al principio di individualizzazione del regime di (futura) esecuzione della pena, il quale non può che essere "indistintamente" preordinato ad accrescere le opportunità di reinserimento sociale del condannato, anche alla luce del principio della finalità rieducativa della pena di cui all'art. 27 Cost., comma 3.
Nella sua ordinanza di rimessione, inoltre, la Corte - pur versandosi in un caso avente ad oggetto la richiesta di consegna del cittadino di uno Stato membro dell'Unione Europea - fondava le sue considerazioni anche sulla posizione, strettamente connessa, del residente non cittadino che appartenga ad uno Stato terzo ed escludeva, all'interno di tale prospettiva, la possibilità di una soluzione interpretativa "costituzionalmente orientata", avuto riguardo alla precisa connotazione, anche lessicale, della scelta operata dal legislatore con la disposizione - allora vigente - dell'art. 18, comma 1, lett. r), la cui formulazione letterale non consentiva, nè tuttora consente, "una qualsiasi forma di superamento od aggiramento ermeneutico in termini di applicazione analogica": ad una dilatazione interpretativa in bonam partem del più favorevole trattamento riservato al cittadino in sede esecutiva ostava comunque, all'epoca, il chiaro disposto limitativo contenuto nella norma ora citata.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 227 del 24 giugno 2010, ha accolto la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di cassazione con riferimento alla L. n. 69 del 2005, art. 18, comma 1, lett. r), che è stato ritenuto incostituzionale "nella parte in cui non prevede il rifiuto di consegna anche del cittadino di un altro Paese membro dell'Unione Europea, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, ai fini dell'esecuzione della pena detentiva in Italia conformemente al diritto interno".
La scelta discriminatoria del legislatore italiano è stata ritenuta dalla Corte costituzionale in contrasto con lo stesso tenore letterale della richiamata norma della decisione quadro, che, nella prospettiva della risocializzazione del condannato, riconosce a tutte e tre le categorie di soggetti ivi menzionati cittadini, residenti e dimoranti nel territorio dello Stato di esecuzione - lo stesso tipo di tutela.
Richiamando la sentenza resa dalla Corte di giustizia nel caso Wolzemburg, il Giudice delle leggi ha osservato che " il contrasto tra la normativa di recepimento e la decisione quadro, insanabile in via interpretativa, non poteva trovare rimedio nella disapplicazione della norma nazionale da parte del giudice comune, trattandosi di norma dell'Unione Europea priva di efficacia diretta, ma doveva essere sottoposto alla verifica di costituzionalità di questa Corte.
In secondo luogo, gli atti nazionali che danno attuazione ad una decisione quadro con base giuridica nel TUE, ed in particolare nell'ex terzo pilastro relativo alla cooperazione giudiziaria in materia penale, non sono sottratti alla verifica di legittimità rispetto alle conferenti norme del Trattato CE, ora Trattato FUE, che integrano a loro volta i parametri costituzionali - art. 11 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, - che a quelle norme fanno rinvio".
Nel medesimo contesto argomentativo la Corte costituzionale ha conclusivamente precisato che "L'ipotesi di illegittimità della norma nazionale per non corretta attuazione della decisione quadro è riconducibile, pertanto, ai casi nei quali, secondo la giurisprudenza di questa Corte, non sussiste il potere del giudice comune di "non applicare" la prima, bensì il potere-dovere di sollevare questione di legittimità costituzionale, per violazione dell'art. 11 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, integrati dalla norma conferente dell'Unione, laddove, come nella specie, sia impossibile escludere il detto contrasto con gli ordinari strumenti ermeneutici consentiti dall'ordinamento".
Analoghe considerazioni devono svolgersi a fronte del mutamento del quadro normativo a seguito della novella legislativa del 2019, atteso che la possibilità di un'interpretazione conforme al contenuto della decisione quadro è esclusa proprio dalla nettezza della scelta compiuta dal legislatore con la previsione dell'art. 18-bis, lett. c), la cui formulazione letterale pare insuscettibile di ricostruzioni alternative, risultando tuttora connotata, come più avanti meglio si vedrà, da una lacuna talmente evidente rispetto alla scelta a suo tempo compiuta dal legislatore Europeo, che un eventuale suo "riempimento" per via interpretativa condurrebbe irrimediabilmente, almeno in tal caso, alla creazione di una norma di diritto "pretorio": non si tratterebbe più, allora, di una lettura "adeguatrice", o "costituzionalmente orientata", ma di un'interpretazione contra legem del testo normativo.

2.3. Si travalica il confine dell'interpretazione conforme alla Costituzione quando la soluzione ermeneutica cui si addiviene si riveli del tutto incompatibile con il testo normativo oggetto di interpretazione, alla cui formulazione letterale deve pur sempre farsi riferimento in via prioritaria. Neanche l'esigenza di rendere il testo compatibile con i principi costituzionali potrebbe giustificare, dunque, una "torsione" dell'enunciato normativo che ne sospinga il contenuto oltre il suo possibile orizzonte di senso.
Ogni disposizione, come posto in rilievo dalla dottrina, mostra un'area semantica, più o meno ampia, al cui interno "la giurisprudenza legittimamente ed anzi doverosamente esercita una discrezionalità tecnica, orientata dalle coordinate costituzionali, convenzionali o di sistema". Ciò non di meno, qualsiasi tentativo di esplorazione interpretativa finalizzato ad oltrepassare il limite invalicabile rappresentato dai "cancelli delle parole" farebbe evadere qualsiasi disposizione, anche la più genericamente formulata, al di fuori dei limiti che il legislatore ha tracciato per disegnarne il contenuto, facendola diventare altro da sè.

La formulazione letterale della norma della cui costituzionalità si dubita, il cui significato non può essere valicato neppure per mezzo dell'interpretazione costituzionalmente conforme (Corte Cost., sentenza n. 219 del 2008), non consente in via interpretativa di conseguire l'effetto che solo una pronuncia di illegittimità costituzionale può produrre (Corte Cost., sentenza n. 110 del 2012).
Nella sentenza n. 36 del 13 gennaio 2016, in particolare, la Corte costituzionale ha affermato che "l'obbligo di addivenire ad un'interpretazione conforme alla Costituzione cede il passo all'incidente di legittimità costituzionale ogni qual volta essa sia incompatibile con il disposto letterale della disposizione e si riveli del tutto eccentrica e bizzarra, anche alla luce del contesto normativo ove la disposizione si colloca (sentenze n. 1 del 2013 e n. 219 del 2008). L'interpretazione secondo Costituzione è doverosa ed ha un'indubbia priorità su ogni altra (sentenza n. 49 del 2015), ma appartiene pur sempre alla famiglia delle tecniche esegetiche, poste a disposizione del giudice nell'esercizio della funzione giurisdizionale, che hanno carattere dichiarativo. Ove, perciò, sulla base di tali tecniche, non sia possibile trarre dalla disposizione alcuna norma conforme alla Costituzione, il giudice è tenuto ad investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale".
Nè può tralasciarsi di considerare, proprio con riferimento alla accennata valorizzazione del "contesto normativo" entro il quale si colloca la disposizione oggetto del vaglio di costituzionalità, la peculiarità del sindacato da svolgere sulle norme interne che si pongano in contrasto con parametri sovranazionali che abbiano un contenuto "di impronta tipicamente costituzionale" ed incidano sull'ambito di applicazione dei diritti fondamentali della persona.
Entro questa prospettiva deve richiamarsi la sentenza della Corte costituzionale n. 269 del 7 novembre 2017, riguardante il sindacato sulle norme interne che si pongano in potenziale contrasto con la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea. Secondo quando confermato anche nella successiva sentenza n. 20 del 23 gennaio 2019, la Corte ritiene che "i principi e i diritti enunciati nella CDFUE intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri), e che la prima costituisce pertanto "parte del diritto dell'Unione dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale".
Ne consegue che, nell'ipotesi in cui una legge che incide sui diritti fondamentali della persona sia - come si vedrà meglio più avanti - oggetto di dubbi, sia sotto il profilo della sua conformità alla Costituzione, sia sotto il profilo della sua compatibilità con la CDFUE, "va preservata", fatto salvo il ricorso al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell'Unione Europea, "l'opportunità di un intervento con effetti erga omnes di questa Corte, in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di legittimità costituzionale a fondamento dell'architettura costituzionale (art. 134 Cost.), precisando che, in tali fattispecie, la Corte costituzionale giudicherà alla luce dei parametri costituzionali interni, ed eventualmente anche di quelli Europei (ex art. 11 Cost. e art. 117 Cost., comma 1), comunque secondo l'ordine che di volta in volta risulti maggiormente appropriato".

Pur non potendosi affermare, in tali evenienze, una priorità assoluta del percorso procedurale legato all'incidente di costituzionalità - dal momento che il giudice, a sua discrezione, può, finanche al termine di tale procedimento incidentale, ricorrere al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia per questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell'Unione Europea e che sempre a lui, del resto, fa capo il persistente potere-dovere di disapplicare, quando ne ricorrano tutte le necessarie condizioni, le norme interne in contrasto con il diritto Euro-unitario (ord. n. 117 del 10 maggio 2019) - non v'è dubbio che la specificità delle regole indicate dalla Corte costituzionale per delimitare i presupposti e i confini dell'interpretazione conforme al diritto Europeo traspaia dall'ulteriore precisazione contenuta nella sentenza n. 63 del 20 febbraio 2019, là dove si afferma che nell'ipotesi in cui "sia stato lo stesso giudice comune a sollevare una questione di legittimità costituzionale che coinvolga anche le norme della Carta, questa Corte non potrà esimersi, eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, dal fornire una risposta a tale questione con gli strumenti che le sono propri: strumenti tra i quali si annovera anche la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione ritenuta in contrasto con la Carta (e pertanto con l'art. 11 Cost. e art. 117 Cost., comma 1), con conseguente eliminazione dall'ordinamento, con effetti erga omnes, di tale disposizione".

3. Esclusa la praticabilità di un'interpretazione costituzionalmente conforme rispetto al tenore della formulazione letterale della norma de qua, deve rilevarsi come i dubbi di costituzionalità evocati dalla sentenza impugnata rimangano, sotto vari profili, tuttora irrisolti e meritino, pertanto, una ulteriore e più ampia verifica di legittimità.

3.1. I profili di non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale prospettate da questa Suprema Corte nelle ordinanze di rimessione n. 33511 del 15 luglio 2009, n. 34213 del 1 settembre 2009 e n. 42868 del 23 ottobre 2009 si basavano su un complesso di considerazioni attinenti in linea generale alla posizione del residente non cittadino, "sia che appartenga a uno Stato dell'Unione Europea sia che appartenga a uno Stato terzo", e sollecitavano uno scrutinio di costituzionalità non soltanto in relazione all'art. 117 Cost., comma 1, ma anche in relazione all'art. 3 Cost. e art. 27 Cost., comma 3.
A sua volta, la richiamata pronuncia di illegittimità costituzionale n. 227 del 2010 ha investito il precedente testo della citata Legge, art. 18, comma 1, lett. r), con riferimento all'art. 11 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, così determinando l'assorbimento delle questioni dalla Corte rimettente poste con riferimento all'art. 3 Cost. e art. 27 Cost., comma 3.

Profili, questi, non esaminati poichè la soluzione ivi accolta dalla Corte costituzionale si giustificava sia con riferimento alla peculiarità dei casi di specie, essendo i soggetti richiesti per la consegna tutti cittadini "comunitari", sia in considerazione del fatto che l'art. 18 TFUE, del quale pure si configurava la violazione, sancisce il divieto di non discriminazione in base alla nazionalità solo tra soggetti dotati di cittadinanza in uno degli Stati membri.

Nel richiamare la giurisprudenza della Corte di giustizia, la Corte costituzionale ha osservato che il divieto posto dall'art. 18 TFUE, "pur essendo in linea di principio di diretta applicazione ed efficacia, non è dotato di una portata assoluta tale da far ritenere sempre e comunque incompatibile la norma nazionale che formalmente vi contrasti. Al legislatore dello Stato membro, infatti, è consentito di prevedere una limitazione alla parità di trattamento tra il proprio cittadino e il cittadino di altro Stato membro, a condizione che sia proporzionata e adeguata, come, ad esempio, in una fattispecie quale quella che ci occupa, la previsione di un ragionevole limite temporale al requisito della residenza del cittadino di uno Stato membro diverso da quello di esecuzione (Corte di giustizia, sentenza Wolzenburg)".
Nell'estendere la portata applicativa del rifiuto di consegna anche nei confronti del cittadino di un altro Paese membro dell'Unione Europea che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, ai fini dell'esecuzione della pena detentiva in Italia conformemente al suo diritto interno, l'intervento additivo della Corte costituzionale ha eliminato una disarmonia derivante da una ingiustificata omissione del legislatore nazionale, in quanto ritenuta potenziale causa di un traumatico "sradicamento" della persona richiesta in consegna, riequilibrandone la posizione con riferimento alla figura soggettiva del solo cittadino Europeo residente o dimorante nel nostro Stato, ove egli ha acquisito, per effetto di tale pronuncia, la possibilità di scontare la pena detentiva irrogatagli da altro Stato membro.
L'assorbimento delle questioni relative al potenziale contrasto della previgente disposizione di cui all'art. 18, lett. r) con i principii posti nell'art. 3 Cost. e art. 27 Cost., comma 3, lascia dunque impregiudicata - pur a fronte della interpolazione dal legislatore operata attraverso la novellata previsione dell'art. 18-bis cit. (ove si è limitato ad integrare il testo della precedente norma inserendovi, in forma facoltativa, l'ipotesi di rifiuto enunciata nel dispositivo della menzionata decisione della Corte costituzionale) - la disamina della, ancor attuale, questione problematica relativa all'applicabilità della predetta causa ostativa nelle ipotesi in cui la persona richiesta in consegna sia uno straniero "extracomunitario" che dimori o risieda nel nostro Stato.
Proprio attraverso la prospettazione di quelle censure, invero, la Corte di cassazione aveva sollecitato uno scrutinio di costituzionalità anche sulla disciplina di tale peculiare situazione, rilevando come le posizioni soggettive del cittadino proveniente da uno Stato membro e da uno Stato terzo fossero identiche, nell'ottica della finalità rieducativa della pena e sotto il profilo della ragionevole giustificazione della diversità di trattamento legata alla disposizione normativa che differenzia la posizione del residente non cittadino (sia esso di uno Stato membro dell'Unione Europea che di uno Stato terzo) in caso di mandato "esecutivo" o "processuale".
Come già osservato, tuttavia, i ricorrenti nei procedimenti a quibus provenivano tutti da Stati membri dell'Unione Europea e una decisione sul punto, dunque, sarebbe stata priva di rilevanza, una volta rimosso l'ostacolo che precludeva l'applicazione della disposizione censurata in favore del cittadino comunitario.
3.2. Sotto altro, ma connesso profilo, è vero, come posto in rilievo dal Procuratore generale ricorrente, che il "diritto vivente" rappresentato dalla successiva elaborazione giurisprudenziale della Corte di cassazione, nel richiamare il decisum del Giudice delle leggi, ha per lo più escluso che l'ambito di operatività della norma evocata possa estendersi al cittadino di uno Stato terzo che in Italia abbia stabilito la sua residenza o dimora, ma è pur vero che, sulla base delle ragioni dianzi illustrate, l'impostazione ricostruttiva sinora delineata dalla giurisprudenza di legittimità non appare affatto appagante.

Questa Corte (Sez. 6, n. 7214 del 14/02/2019, Balde Aliu Balamba, Rv. 275721) ha escluso che la causa ostativa de qua sia applicabile nei confronti di cittadini di Stati non membri dell'Unione Europea, anche qualora siano stabilmente radicati nel territorio nazionale, ritenendo manifestamente infondata l'eccezione di incostituzionalità sollevata in relazione alla violazione dell'art. 3 Cost. per la ritenuta diversità di trattamento dei cittadini extracomunitari rispetto ai cittadini comunitari, sul presupposto che solo nei confronti di questi ultimi si pone l'esigenza di tutelare la libertà di stabilimento nell'ambito dello spazio comunitario, con la conseguente necessaria applicazione dei medesimi diritti e garanzie previste per i cittadini italiani.

Analoghe ragioni giustificative di tale opzione ermeneutica sono state ribadite, successivamente, nella sentenza n. 45190 del 5 novembre 2019, che ha confermato la decisione di merito con la quale era stata disposta la consegna all'autorità giudiziaria francese di un condannato di nazionalità macedone, rilevando che non gli si potesse riconoscere lo status di apolide, in quanto aveva acquisito per nascita la cittadinanza della Macedonia e, nella legislazione di quel Paese, non ne è prevista la perdita per effetto dell'emigrazione e della permanenza in uno Stato diverso (Sez. 6, n. 45190 del 05/11/2019, Ljubisa Djordjevic, Rv. 277384).

Nell'escludere, finanche in relazione alla diversa disciplina dell'estradizione per l'estero, l'invocata estensione del motivo di rifiuto de quo nei confronti di cittadini di Stati non membri dell'Unione Europea, questa Corte (Sez. 6, n. 5225 del 15/12/2017, dep. 2018, Ciomirtan, Rv. 272127) ha poi osservato che la relativa disposizione, sì come interpretata in via additiva dalla Corte costituzionale, si colloca "....pur sempre nel contesto di una condivisione di una cittadinanza Eurounitaria tra cittadini italiani e quelli di Paesi dell'Unione Europea nonchè della comune appartenenza ad uno spazio giudiziario comune di cui il sistema del MAE costituisce espressione".

Non dedotte, dunque, nè specificamente esaminate risultano, nelle decisioni ora richiamate, le ulteriori questioni ritenute assorbite dalla Corte costituzionale in relazione ai su evidenziati profili di illegittimità.

Il potenziale contrasto con l'art. 3 Cost., infatti, è stato sinora escluso in relazione al profilo inerente alla evocata disparità di trattamento riservata, ai fini dell'applicabilità della causa di rifiuto de qua, al cittadino italiano e comunitario, da un lato, ed al cittadino extracomunitario, dall'altro lato, con particolare riguardo al fascio di diritti e libertà che le norme del Trattato e gli atti di diritto derivato riconoscono ai cittadini dell'UE, e che rendono pertanto ingiustificata quella disparità fra cittadini italiani e cittadini comunitari, all'interno di una prospettiva cui rimane estraneo, specie in relazione alla libertà di stabilimento nel territorio comunitario, il cittadino di uno Stato terzo.
Prospettiva di analisi, questa, che la Corte costituzionale ha già esaminato nel richiamare il portato dell'elaborazione giurisprudenziale della Corte di giustizia sul principio di non discriminazione in base alla nazionalità di cui all'art. 18 TFUE: nonostante il carattere generale del divieto ivi stabilito, infatti, il giudice Europeo tende a negare che i cittadini (o le persone giuridiche) di Stati terzi possano avvalersene per accedere al trattamento riservato da uno Stato membro ai cittadini nazionali (v., ad es., Corte giust., 7 aprile 2011, C-291/09, Guamieri).
Si afferma, in tal senso, che il principio di non discriminazione "riguarda le situazioni, rientranti nell'ambito di applicazione del diritto comunitario, nelle quali un cittadino di uno Stato membro subisce un trattamento discriminatorio rispetto ai cittadini di un altro Stato membro per la sola ragione della sua nazionalità, e non trova applicazione nel caso di un'eventuale disparità di trattamento tra i cittadini degli Stati membri e quelli degli Stati terzi" (Corte giust., 4 giugno 2009, cause riunite C-22/08 e C-23/08, Athanasios Vatsouras e Josif Koupatantze c. Arbeitsgemeinschaft (ARGE) Neirnberg 900, punto 52).
Al contempo non manca di riconoscersi, tuttavia, nella progressione ermeneutica della stessa giurisprudenza Europea, che godono in via indiretta della libertà di circolazione e del relativo divieto di discriminazione anche i cittadini di Stati terzi che hanno lo status di familiari del cittadino dell'Unione (Corte giust., 5 settembre 2012, C-83/11, Rahman): diritto che ha natura derivata rispetto alla posizione del titolare, cittadino dell'Unione, e che, pertanto, non può essere invocato che nello Stato di soggiorno di quest'ultimo, in quanto funzionalmente collegato all'esigenza di garantire, attraverso l'integrità del nucleo familiare del cittadino Europeo in mobilità, l'esercizio effettivo della sua libertà di circolazione (Corte giust., 8 novembre 2012, C-40/11, Iida).
Nella medesima prospettiva, inoltre, va ricordato che la Corte di giustizia suole talora attingere agli strumenti di diritto derivato adottati dal legislatore Europeo sulla base del Titolo V del Trattato (ad es., alla direttiva 2003/109 riguardante il conferimento dello status di soggiornante di lungo periodo in uno Stato membro), per far emergere principii di equità sostanziale nell'applicazione del divieto di non discriminazione posto dall'art. 18 TFUE in relazione al trattamento nazionale del cittadino straniero da lungo tempo soggiornante, ispirandosi con criteri di notevole flessibilità ai diritti conferiti dalla normativa dell'Unione ai cittadini Europei in mobilità (Corte giust., 24 aprile 2012, C571/10, Kamberaj).
L'affermazione relativa all'esclusione, nei confronti dei cittadini di Stati terzi, della garanzia derivante dal divieto di non discriminazione non presenta dunque caratteri di assolutezza, ma assume una valenza per lo più tendenziale, consentendo diverse modulazioni del principio in relazione alle peculiarità del caso concreto e all'esigenza di vagliare il grado di intensità della tutela a seconda della normativa di diritto derivato che di volta in volta venga in rilievo.

Deve poi rilevarsi, per quel che attiene al frastagliato panorama interno della giurisprudenza di legittimità, che in altre situazioni, pur esse aventi ad oggetto richieste di consegna avanzate nei confronti di cittadini "extracomunitari" destinatari di mandati in executivis, questa Corte ha rigettato i ricorsi e ha ritenuto, in particolare, non rilevante la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all'art. 27 Cost., comma 3 e art. 3 Cost., comma 2, per la mancanza del presupposto del "radicamento nel territorio dello Stato", in un caso, e, nell'altro, a causa della durata della presenza in Italia, in quanto considerata insufficiente (Sez. 6, n. 27326 del 13 luglio 2010, El Moustaid; Sez. 6, n. 42528 del 30 ottobre 2012, K.T.). In tali pronunzie, la Corte ha ritenuto opportuno esplicitare i due elementi fondamentali sui quali avrebbe potuto fondarsi una eventuale estensione dell'applicazione ai residenti extracomunitari del motivo di rifiuto di cui all'art. 18 cit., ossia la legittimità e la durata della residenza in Italia, richiamando a tal fine la giurisprudenza, ormai consolidata, relativa alla individuazione dei criteri per la verifica della ricorrenza del presupposto della residenza nel territorio dello Stato.

Parimenti carenti sono stati ritenuti, da altra decisione di legittimità (Sez. 6. n. 29290 del 21 giugno 2018, Morgan Stan), i presupposti di rilevanza che avrebbero potuto consentire ulteriori approfondimenti riguardo alla eventuale applicabilità della norma de qua in favore del cittadino extracomunitario che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o stabile dimora nel territorio italiano.

4. Ciò posto, deve in limine rilevarsi, ai fini del vaglio di rilevanza delle questioni di costituzionalità che verranno di seguito partitamente illustrate, come il presente giudizio, il cui oggetto è incentrato su una richiesta di consegna avanzata a fini esecutivi dalle Autorità giudiziarie di uno Stato membro dell'UE nei confronti di una persona di nazionalità albanese, non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione dei su indicati profili di illegittimità costituzionale della disposizione di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 18-bis, comma 1, lett. c).
Nella sentenza impugnata si dà ampiamente conto degli esiti delle verifiche in punto di fatto disposte dal Giudice di merito con riguardo alla titolarità di un regolare permesso di soggiorno in capo alla persona richiesta in consegna, che è residente anagraficamente in Genova dal 4 giugno 2018 per immigrazione registratavi il 14 novembre 2016. Sin dalla data testè indicata, inoltre, il B. risulta aver stabilito proprio in quel luogo il centro dei propri interessi lavorativi e familiari, esprimendosi correttamente in lingua italiana e svolgendovi sino al momento del suo arresto una regolare attività lavorativa alle dipendenze di un'impresa, con l'adempimento dei relativi oneri assicurativi e previdenziali. Nel medesimo luogo di residenza vivono altresì, da un risalente lasso temporale, tutti i suoi familiari (i genitori, ivi regolarmente immigrati nel 2007; il fratello e la sorella, rispettivamente immigrati nel 2003 e nel 2004, nonchè altri due fratelli, di nazionalità italiana, anch'essi immigrati nel 2003).

Coerentemente con gli esiti di tale accertamento, i Giudici di merito hanno concluso il loro argomentare nel senso che, nel triennio successivo al suo arrivo in Italia per ricongiungersi con i familiari, la persona richiesta in consegna vi si è stabilmente radicata sia sul piano lavorativo che familiare, sicchè la stessa ben può ritenersi "effettivamente e legittimamente residente e dimorante nello Stato".

Al riguardo, pertanto, la Corte d'appello ha fatto buon governo dei principii stabiliti da questa Suprema Corte (ex multis v. Sez. 6, n. 49992 del 30/10/2018, Anton Robert, Rv. 274313; Sez. 6, n. 50386 del 25/11/2014, Batanas, Rv. 261375), la quale, nel richiamare le indicazioni a suo tempo offerte dalla Corte di giustizia (con la sentenza del 17 luglio 2008, C-66/08, Kozlowsky) e dalla Corte costituzionale (con la già richiamata sentenza n. 227 del 2010), ha affermato che, in tema di mandato di arresto Europeo, la nozione di "residenza" che viene in considerazione per l'applicazione dei diversi regimi di consegna previsti dalla L. 22 aprile 2005, n. 69, presuppone l'esistenza di un radicamento reale e non estemporaneo dello straniero nello Stato, tra i cui indici concorrenti vanno indicati la legalità della sua presenza in Italia, l'apprezzabile continuità temporale e stabilità della stessa, la distanza temporale tra quest'ultima e la commissione del reato e la condanna conseguita all'estero, la fissazione in Italia della sede principale, anche se non esclusiva, e consolidata degli interessi lavorativi, familiari ed affettivi, il pagamento eventuale di oneri contributivi e fiscali.

All'autorità giudiziaria competente, infatti, spetta accertare, secondo quanto stabilito dalla Corte costituzionale, " la sussistenza del presupposto della residenza o della dimora, legittime ed effettive, all'esito di una valutazione complessiva degli elementi caratterizzanti la situazione della persona, quali, tra gli altri, la durata, la natura e le modalità della sua presenza in territorio italiano, nonchè i legami familiari ed economici che intrattiene nel e con il nostro Paese, in armonia con l'interpretazione fornita dalla Corte di giustizia dell'Unione Europea. Resta riservata, poi, al legislatore la valutazione dell'opportunità di precisare le condizioni di applicabilità al non cittadino del rifiuto di consegna ai fini dell'esecuzione della pena in Italia, in conformità alle conferenti norme dell'Unione Europea, così come interpretate dalla Corte di giustizia".

Nella progressiva evoluzione della giurisprudenza di legittimità tali nozioni, di diretta derivazione Euro-unitaria, sono state integralmente recepite, con la conseguenza che assume rilievo l'esistenza di un "radicamento reale e non estemporaneo" dello straniero in Italia, dimostrativo del fatto che egli abbia ivi istituito, con continuità temporale e sufficiente stabilità territoriale, la sede principale, anche se non esclusiva, dei propri interessi affettivi, professionali od economici.
Nozioni, quelle su richiamate, che la giurisprudenza di legittimità ha via via affinato con la precisazione che, ai fini di tale apprezzamento, vanno considerati gli indici concorrenti della legalità della presenza in Italia, dell'apprezzabile continuità temporale e stabilità della stessa, della distanza temporale tra quest'ultima e la commissione del reato e la condanna conseguita all'estero, dell'eventuale pagamento di oneri contributivi e fiscali.

La norma direttamente applicabile nel caso di specie, tuttavia, esclude, come si è visto, la sussistenza di ragioni ostative alla consegna quando la persona richiesta dalle autorità dello Stato emittente non sia cittadino di un altro Stato membro dell'Unione Europea, ma di uno Stato terzo, non rilevando in tal caso le circostanze addotte per dimostrarne il radicamento in Italia.

Nel trasformare in facoltativo l'originario motivo di rifiuto obbligatorio, il legislatore ha recepito il dictum estraibile dalla richiamata pronuncia additiva della Corte costituzionale, ma, pur nella versione recentemente modificata con la nuova previsione dell'art. 18-bis cit., ha lasciato immutato nell'ordinamento un profilo di incompatibilità con il diritto dell'Unione, là dove ha omesso di prendere in considerazione la posizione dei soggetti extracomunitari che stabilmente risiedano o dimorino nel territorio nazionale e che, come tali, se destinatari di un mandato di arresto Europeo, potrebbero rientrare nell'ambito di applicazione - e beneficiare - del motivo ostativo in esame.

Nel caso di specie, infatti, il richiesto in consegna è di nazionalità albanese, ma ha scelto nel territorio dell'Italia, quale Stato di esecuzione, la sede principale dei suoi interessi, con la conseguenza che egli, dichiaratosi non consenziente alla consegna verso lo Stato di emissione, avrebbe titolo a veder soddisfatto il suo interesse ad eseguire la pena in Italia, qualora fosse rimosso il vizio di illegittimità costituzionale della norma ostativa, individuata nel citato art. 18-bis, comma 1, lett. c), nella parte in cui non prevede il rifiuto facoltativo della consegna del cittadino di uno Stato non membro dell'Unione Europea che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, sempre che la Corte di appello disponga, sì come verificatosi nell'evenienza qui presa in esame, che la pena o la misura di sicurezza irrogata nei suoi confronti dall'autorità giudiziaria di uno Stato membro dell'Unione Europea sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno.

5. Occorre esaminare, ora, i profili di non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale prospettabili ai sensi della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, comma 3.

5.1. L'art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI, nel regolare i motivi di non esecuzione facoltativa del mandato "esecutivo", stabilisce che l'autorità giudiziaria dell'esecuzione può opporvi un rifiuto "se il mandato d'arresto Europeo è stato rilasciato ai fini dell'esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà, qualora la persona ricercata dimori nello Stato membro di esecuzione, ne sia cittadino o vi risieda, se tale Stato si impegni a eseguire esso stesso tale pena o misura di sicurezza conformemente al suo diritto interno".
Con riferimento alla causa di rifiuto or ora menzionata, dunque, il legislatore Europeo ha fatto riferimento, in linea generale, alla "persona ricercata" e non ha differenziato la posizione del cittadino da quella del "residente non cittadino", dato che l'esecuzione della pena nello Stato richiesto della consegna, anzichè in quello della condanna, è prevista non per il riconoscimento di un privilegio in favore del cittadino, solo eventualmente estensibile al residente, ma, come già posto in rilievo nella su citata ordinanza di rimessione di questa Corte, per consentire alla pena di svolgere nel migliore dei modi la funzione di risocializzazione del condannato, rendendo possibile il mantenimento dei suoi legami familiari e sociali per favorirne un corretto reinserimento al termine dell'esecuzione: funzione, questa, che, come si vedrà meglio più avanti, non tollera distinzioni tra il cittadino ed il residente.
Le medesime ragioni sono alla base della connessa disposizione di cui all'art. 5, n. 3, della suddetta decisione-quadro, che, nel regolare un complesso di garanzie che lo Stato emittente deve fornire in casi particolari allo Stato di esecuzione, stabilisce, con riferimento all'ipotesi di m.a.e. processuale, che "se la persona oggetto del mandato d'arresto Europeo ai fini di un'azione penale è cittadino o residente dello Stato membro di esecuzione, la consegna può essere subordinata alla condizione che la persona, dopo essere stata ascoltata, sia rinviata nello Stato membro di esecuzione per scontarvi la pena".
L'enunciato normativo, infatti, è sostanzialmente sovrapponibile a quello che il legislatore Europeo ha utilizzato nella prima disposizione, non essendovi alcuna differenza fra "la persona ricercata" e "la persona oggetto del mandato d'arresto Europeo", laddove alcun rilievo può attribuirsi, per i fini qui considerati, alla limitazione soggettiva della garanzia in favore del solo cittadino o residente dello Stato di esecuzione e non anche della persona che vi dimori (in tal senso v. Corte di giustizia, 17 luglio 2008, Koziowski, C-66/08, punto 40).
Anche in questo caso, infatti, ed è questo ciò che conta ai fini del giudizio de quo, la posizione del cittadino è dal legislatore Europeo integralmente parificata a quella del residente, senza distinguere fra il residente di uno Stato membro dell'Unione ed il residente di uno Stato terzo, e senza che alcuna razionale giustificazione possa ravvisarsi ad eventuale fondamento di una differenziazione che la legislazione nazionale ritenesse di introdurre tra le due posizioni soggettive.

Ancor meno giustificata, dunque, risulta una differenziazione come quella operata nel nostro ordinamento dalla L. n. 69 del 2005 (così come parzialmente modificata dalla L. 4 ottobre 2019, n. 117), che per il m.a.e. esecutivo - nell'art. 18-bis, comma 1, lett. c) - restringe la nozione di "persona ricercata" alle sole figure del cittadino italiano e del cittadino di altro Stato membro dell'Unione Europea che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora in Italia, senza considerare affatto le analoghe esigenze di tutela del cittadino di uno Stato terzo, mentre per il m.a.e. processuale - nella connessa previsione della citata Legge, art. 19, comma 1, lett. c), - parifica le posizioni disciplinando allo stesso modo le garanzie richieste per il cittadino o per il residente nello Stato italiano (quand'anche cittadino di uno Stato terzo), nell'ipotesi in cui egli, dopo essere stato ascoltato nello Stato di emissione, sia rinviato nello Stato membro di esecuzione per scontarvi la pena o la misura di sicurezza privative della libertà personale eventualmente pronunciate nei suoi confronti dallo Stato membro di emissione.
Nella citata sentenza Kozlowski la Corte di giustizia ha affermato che i termini "risieda" e "dimori" di cui all'art. 4, par. 6, della suddetta decisione quadro devono costituire l'oggetto di una definizione uniforme in quanto si riferiscono a nozioni autonome del diritto dell'Unione. I termini "risieda" e "dimori" contemplano, rispettivamente, la situazione in cui la persona ricercata abbia stabilito la propria residenza effettiva nello Stato membro di esecuzione e quella in cui tale persona abbia acquisito, a seguito di un soggiorno stabile di una certa durata in questo medesimo Stato, legami con quest'ultimo di intensità simile a quella dei legami che si instaurano in caso di residenza. Per stabilire la presenza di tali legami fra la persona ricercata e lo Stato di esecuzione occorre effettuare una valutazione complessiva di vari elementi oggettivi, tra i quali la durata, la natura e le modalità del suo soggiorno, nonchè i suoi rapporti familiari ed economici con quello Stato membro.

Dalla prospettiva ermeneutica seguita dal giudice Europeo emerge, in particolare, la volontà di tracciare un modello definitorio comune di elementi lessicali cui il legislatore Europeo ha evidentemente attribuito valenza centrale nella costruzione del nuovo regime di consegna delle persone ricercate, ancorandolo al principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie e rendendolo applicabile, pertanto, su una base comune di regole generalmente condivise dai diversi Stati membri: i termini "dimori" e "risieda", che delimitano la sfera di applicazione dell'art. 4, punto 6, della decisione quadro, costituiscono in tal modo l'oggetto di una definizione scolpita sulla base di criteri necessariamente "uniformi", proprio in quanto si riferiscono a nozioni "autonome" del diritto dell'Unione Europea.
A tali presupposti argomentativi si ricollega, inoltre, la rilevante affermazione del principio secondo cui nelle legislazioni nazionali di attuazione dell'art. 4, punto 6, gli Stati membri non (erano e non) sono legittimati a conferire a quei termini una portata più estesa di quella risultante dalle linee generali dell'interpretazione fatta propria dalla Corte Euro-unitaria (punti 42 e 43): quest'ultima è tenuta, infatti, ad elaborare un'attività d'interpretazione uniforme delle disposizioni della decisione quadro quando il testo normativo non contenga alcun espresso richiamo al diritto degli Stati membri ai fini della determinazione del suo preciso significato e della sua concreta portata applicativa.
Nel delimitare l'area semantica delle nozioni di residenza e dimora la Corte di giustizia non fa alcun riferimento alla cittadinanza della persona ricercata, ma solo ai suoi legami con lo Stato ospitante, affidandone il correlativo accertamento, quando quella persona sia priva della cittadinanza dello Stato membro di esecuzione ed ivi "dimori" o vi "risieda", alle competenti autorità giudiziarie degli Stati membri.
Sostanzialmente nella medesima prospettiva ermeneutica si collocano, significativamente, le conclusioni rassegnate dall'Avvocato generale il 28 aprile 2008, là dove egli ha osservato (nei punti nn. 133-136) che "....il motivo di non esecuzione di cui all'art. 4, punto 6, della decisione quadro mira a favorire il reinserimento della persona condannata. Dal momento che questa persona, se si tratta di un cittadino dell'Unione, ha il diritto di circolare e risiedere in tutti gli Stati membri, l'esito del suo reinserimento riguarda non solamente lo Stato membro di esecuzione, ma allo stesso modo tutti gli altri Stati membri e le persone che vi vivono.
La stessa analisi può essere effettuata per quanto riguarda i cittadini degli Stati terzi. Questi cittadini, grazie alla soppressione dei controlli alle frontiere interne nello spazio Schengen, possono circolare liberamente all'interno di tale spazio. Essi possono allo stesso modo circolare e soggiornare in tutta l'Unione in qualità di familiari di un cittadino di uno Stato membro.
Ne consegue che l'apertura delle frontiere ha reso gli Stati membri solidalmente responsabili nella lotta contro la criminalità. Proprio per questo motivo si è reso necessario creare uno spazio penale Europeo, affinchè le libertà di circolazione non siano esercitate a discapito della sicurezza pubblica.
Perciò, a mio avviso, si impone la trasposizione dell'art. 4, punto 6, della decisione quadro nel diritto di ciascuno Stato membro, affinchè il mandato d'arresto Europeo non si applichi a discapito del reinserimento della persona condannata e, quindi, dell'interesse legittimo di tutti gli Stati membri alla prevenzione della criminalità, che questo motivo di non esecuzione mira a proteggere.".
In linea con l'art. 1, par. 1, della decisione quadro - che delinea il campo d'azione dello strumento normativo attraverso l'onnicomprensivo riferimento alla "persona ricercata ai fini dell'esercizio di un'azione penale o dell'esecuzione di una pena o una misura di sicurezza privative della libertà" - i su citati artt. 4 e 5 fanno anch'essi riferimento alla "persona ricercata", ovvero a quella che costituisce "oggetto" di un'Eurordinanza emessa ai fini di un'azione penale, senza distinguerne l'ambito di tutela in base alla nazionalità.
5.2. Una volta introdotto il corrispondente motivo di rifiuto nel nostro ordinamento, dunque, non può irrazionalmente limitarsene l'applicazione ai soli cittadini e residenti "comunitari", escludendola tout court per i residenti o dimoranti "non comunitari", se non a condizione di trasporre solo una porzione del contenuto, generale ed onnicomprensivo, della norma Euro-unitaria, così eludendo l'obbligo di rispettarne fedelmente i vincoli di adeguamento ai sensi dell'art. 11 Cost. e art. 117 Cost., comma 1.
Per il mandato "processuale" di arresto, infatti, si ammette la possibilità di esecuzione della pena in Italia anche per i cittadini di Paesi terzi che vi risiedano, mentre la si esclude per il mandato di arresto "esecutivo" emesso nei confronti della medesima persona richiesta in consegna.
Rientra nella discrezionalità degli Stati membri decidere se attuare o meno i motivi di rifiuto a carattere facoltativo contemplati dalla norma "esterna" della decisione quadro, ma qualora essi li traspongano nei rispettivi ordinamenti interni devono attenersi al contenuto dell'atto di diritto derivato e lasciare all'autorità giudiziaria nazionale la facoltà di scelta nel vagliarne la concreta operatività nel caso di specie.
In tal senso, con la sentenza n. 227 del 2010 la Corte costituzionale ha richiamato un passaggio argomentativo contenuto nella sentenza Wolzenburg della Corte di giustizia, affermando che gli Stati membri hanno la facoltà di prevedere o di non prevedere il rifiuto di consegna, ma che, una volta operata la scelta di prevederlo, sono tenuti a rispettare il divieto di discriminazione in base alla nazionalità per come sancito dall'attuale disposizione dell'art. 18 del TFUE: divieto, peraltro, pienamente osservato dall'art. 4, punto 6, della decisione quadro sul mandato di arresto Europeo, là dove fa espressamente riferimento, come sottolineato nel corsivo aggiunto dalla stessa Corte costituzionale, all'ipotesi in cui "la persona ricercata dimori nello Stato membro di esecuzione, ne sia cittadino o vi risieda", se tale Stato si impegni ad eseguire esso stesso tale pena o misura di sicurezza conformemente al suo diritto interno.
Secondo la Corte costituzionale, il divieto di discriminazione in base alla nazionalità consente sì di differenziare le situazioni prese in considerazione (nel caso ivi esaminato veniva in rilievo quella del cittadino di uno Stato membro dell'Unione rispetto a quella del cittadino di un altro Stato membro), ma la differenza di trattamento deve comunque avere "una giustificazione legittima e ragionevole, sottoposta ad un rigoroso test di proporzionalità rispetto all'obiettivo perseguito", mentre nel caso in esame l'esclusione dei residenti o dimoranti non cittadini di uno Stato membro dell'Unione non ne presenta alcuna, dal momento che per il mandato "processuale" di arresto si ammette l'esecuzione della pena in Italia anche per i cittadini di Paesi terzi che vi risiedano, mentre la si esclude per il mandato di arresto "esecutivo" emesso nei confronti della medesima persona che venga richiesta in consegna.
Ulteriore conferma in tal senso proviene da una successiva decisione della Corte di giustizia del 5 settembre 2012 (C-42/11 Lopes da Silva Jorge), secondo cui l'art. 4, punto 6, della decisione quadro e l'art. 18 del TFUE devono essere interpretati nel senso che uno Stato membro, pur potendo decidere, in sede di trasposizione dello stesso art. 4, punto 6, di limitare le situazioni in cui l'autorità giudiziaria dell'esecuzione può rifiutare la consegna di una persona rientrante nell'ambito di applicazione di tale disposizione, non è legittimato ad escludere in maniera assoluta ed automatica da siffatto ambito di applicazione i cittadini di altri Stati membri che dimorano o risiedono nel suo territorio, indipendentemente dai legami che essi presentano con quest'ultimo.
Nel caso ivi esaminato, per vero, la Corte di giustizia non ha preso in considerazione la specifica ipotesi del cittadino di uno Stato terzo, ma ha negato chiaramente la legittimità di una scelta legislativa nazionale che escludesse in maniera assoluta ed automatica dall'ambito soggettivo di applicazione dell'atto di diritto derivato una delle figure che espressamente possono beneficiare della opponibilità del rifiuto nello Stato di esecuzione ove esse hanno instaurato solide forme di collegamento.
5.3. Ora, l'art. 4 della richiamata decisione quadro enuncia, come si è visto, motivi di non esecuzione facoltativa le cui modalità di attuazione consentono necessariamente agli Stati membri l'esercizio di un certo margine di discrezionalità, in ragione della particolare natura della tipologia di tale strumento normativo (già disciplinato nell'ambito del cd. "terzo pilastro" dall'art. 34, par. 2, lett. b), TUE).
La decisione quadro, in particolare, ha segnato con chiarezza il definitivo abbandono del principio di non estradizione del cittadino proprio della tradizionale concezione della sovranità statale sottesa alla trama normativa del diritto estradizionale classico (ex art. 6, n. 1, lett. a), della Convenzione di Parigi dei 13 dicembre 1957): essa persegue esplicitamente l'obiettivo, come si desume dai suoi "considerando" e dal complesso delle sue disposizioni, in particolare dall'art. 31, di sopprimere, tra gli Stati membri, la procedura dell'estradizione e di sostituirla con un sistema di consegna nell'ambito del quale l'autorità giudiziaria dell'esecuzione non può opporsi alla richiesta se non mediante una decisione motivata specificamente da una delle clausole di non esecuzione elencate tassativamente negli artt. 3 e 4 della decisione quadro.
Sia l'ipotesi di rifiuto regolata dall'art. 4, n. 6, che la consegna condizionata di cui all'art. 5 della decisione quadro, assumono caratteri di facoltatività: alla mancata esecuzione della pena nello Stato emittente fa da contrappeso l'obbligo per lo Stato di esecuzione di far scontare la pena irrogata nel proprio territorio.
Si è voluto superare, in tal modo, il tradizionale principio aut dedere aut iudicare proprio dell'estradizione, in favore della più rigorosa formulazione aut dedere aut punire.
Se una scelta orientata nel senso della facoltatività di tali clausole sembra potersi spiegare, da un lato, con l'intuibile esigenza di evitare un'abolizione immediata e radicale di un tradizionale (e particolarmente pregnante) motivo di rifiuto, dall'altro lato è evidente che la stessa sottende la volontà di assicurare, all'interno dello spazio giudiziario Europeo, la realizzazione di meritorie istanze di risocializzazione della persona condannata.
Si tratta, come opportunamente rilevato anche dal giudice Europeo nella decisione Wolzenburg (punti 60-62), di un motivo di rifiuto segnatamente orientato ad attribuire una particolare importanza alla possibilità di accrescere le opportunità di reinserimento sociale della persona ricercata, una volta che la stessa abbia scontato la pena cui è stata condannata. Uno scopo siffatto, anche se importante, non può escludere, ad avviso della Corte di giustizia, che gli Stati membri, in sede di attuazione della decisione quadro, limitino, nel senso indicato dal principio fondamentale del reciproco riconoscimento enunciato dal suo art. 1, n. 2, "le situazioni in cui dovrebbe essere possibile rifiutare la consegna di una persona rientrante nella sfera di applicazione propria dell'art. 4, punto 6".
Lo stesso Parlamento Europeo, del resto, sin dalla Risoluzione sui diritti dell'uomo nell'Unione Europea per il 1997, ha ricordato agli Stati membri (nel punto 78) che "la pena ha una funzione di riparazione e di risocializzazione e che l'obiettivo è, in questo senso, il reinserimento umano e sociale del detenuto".
Entro tale prospettiva, dunque, ben può ritenersi legittimo, per lo Stato membro di esecuzione, perseguire l'obiettivo del reinserimento sociale soltanto nei confronti di quelle persone che abbiano dimostrato un "sicuro grado di inserimento" nella società di detto Stato membro (evidentemente, valutandone le relative implicazioni sulla base degli elementi di collegamento già indicati, sia pure in forma non tassativa, nella su citata pronuncia Kozlowski del 17 luglio 2008).
L'autonomia del legislatore nazionale, tuttavia, si esaurisce nella possibilità di scegliere se recepire o meno le norme "esterne" che regolano le correlative ipotesi di rifiuto facoltativo, senza che ad esso sia consentito di introdurre automatiche ed assolute limitazioni sul versante soggettivo dell'ambito di applicazione della pertinente norma di diritto derivato.
Il carattere facoltativo della previsione del motivo di rifiuto nel sistema della decisione quadro non autorizza in sede di recepimento una scelta esclusiva di tutela in favore di determinate categorie soggettive (il cittadino italiano ovvero il cittadino di un altro Stato membro dell'Unione Europea), separandole irrazionalmente da quella del cittadino di uno Stato terzo residente o dimorante nello Stato membro di esecuzione, che alle prime due figure comunque risulta equiparata nell'assetto normativo delineato dal legislatore Europeo.
La facoltatività può investire, invece, la scelta in ordine all'inserimento o meno, nell'ordinamento interno, del motivo di rifiuto così come articolato dal legislatore Europeo: una volta introdotta quella specifica possibilità di rifiuto della consegna, la discrezionalità del legislatore nazionale non può più esercitarsi in merito all'an della tutela, già concessa dallo strumento normativo Europeo in favore di determinate figure soggettive, ma può incentrarsi solo, per ragioni apprezzabili e congruamente motivate, sulla individuazione di un più o meno ampio livello di garanzie di volta in volta specificamente modulabili, ossia sul quomodo della tutela, che in relazione ad alcune situazioni (ad es., per il dimorante o per il cittadino di un Paese terzo) potrebbe risultare, se del caso, motivatamente attenuata o affievolita.
5.4. Il nuovo indirizzo impresso al sistema della cooperazione giudiziaria penale Europea nel settore qui preso in considerazione, segnato in maniera evidente dalla progressiva espansione del principio del reciproco riconoscimento e (come più avanti meglio si vedrà) dal collegamento fra la decisione quadro 2002/584/GAI e la successiva decisione quadro 2008/909/GAI del 27 novembre 2008 in tema di applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale ai fini della loro esecuzione nell'Unione Europea (recepita nel nostro ordinamento con il D.Lgs. 7 settembre 2010, n. 161), si muove nella prospettiva di una concreta verifica della effettività della funzione rieducativa della pena sottesa all'applicazione del motivo di rifiuto de quo e individua nel criterio dinamico della residenza il parametro sulla cui base occorre determinare il luogo dove l'espiazione della pena garantisce al meglio il recupero sociale del condannato, abbandonando definitivamente i tradizionali modelli di cooperazione che, nel tutelare esclusivamente la posizione del cittadino, costituirebbero obsolete reviviscenze dei retaggi del diritto convenzionale in materia di estradizione.
Già nella sentenza Wolzenburg, d'altronde, la Corte di giustizia ha opportunamente rammentato che gli effetti del recepimento (entro il 5 dicembre 2011) nelle legislazioni degli Stati membri della richiamata decisione quadro del Consiglio del 27 novembre 2008 si sarebbero del pari estesi, mutatis mutandis, all'esecuzione delle condanne nei casi di cui all'art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI, proprio al fine di favorire il reinserimento sociale della persona condannata, allorquando si debba riconoscere una sentenza ed eseguire la pena detentiva nei suoi confronti irrogata (ex art. 3, n. 1).
Nella medesima prospettiva, infine, è significativo rilevare come nella relazione illustrativa della proposta di decisione quadro del Consiglio relativa al mandato di arresto Europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri (COM (2001) 522 definitivo del 19 settembre 2001) la Commissione Europea abbia posto in luce, fra le caratteristiche generali del nuovo meccanismo post-estradizionale, che "il mandato d'arresto Europeo terrà conto del principio della cittadinanza dell'Unione", sottolineando, subito dopo, che "l'eccezione in favore dei cittadini dello Stato membro non ha più ragion d'essere". Il criterio "più pertinente", infatti, "non è la nazionalità ma il luogo di residenza principale della persona, in particolare per quanto concerne l'esecuzione della pena. Pertanto, è previsto da un lato, di facilitare l'esecuzione della pena comminata nel paese dell'arresto allorchè sia più probabile un buon reinserimento della persona in quel paese e, d'altro lato, qualora si proceda all'esecuzione del mandato d'arresto Europeo, di permettere che tale esecuzione sia subordinata alla garanzia del ritorno ulteriore della persona per l'esecuzione della pena comminata dall'autorità straniera".
Nessuna distinzione basata sulla nazionalità del ricercato viene presa in considerazione, già in sede di relazione illustrativa della proposta, per individuare sul piano soggettivo la persona richiesta in consegna nell'ambito della nuova procedura di cooperazione.
Al contrario, la formulazione letterale della norma dettata nell'art. 18-bis cit. esclude, sic et simpliciter, che il residente non cittadino di uno Stato membro dell'Unione possa scontare la pena nel nostro Stato, anche qualora egli dimostri di aver acquisito saldi legami di natura economica, professionale o affettiva nel suo territorio, ponendosi in tal modo al di fuori della ratio ispiratrice e della lettera disciplina delineata nell'impianto normativo della decisione quadro.
Ne consegue una attuazione ingiustificatamente parziale e limitativa dell'ampiezza degli obiettivi perseguiti dal legislatore Europeo con l'omologa disposizione normativa della decisione quadro, in contrasto con l'esigenza di rispettare le limitazioni di sovranità necessarie per lo sviluppo dell'Unione e gli obblighi di conforme adeguamento derivanti dall'ordinamento Euro-unitario secondo quanto dispongono l'art. 11 Cost. e art. 117 Cost., comma 1.
6. Sotto altro, ma connesso profilo, deve rilevarsi l'assenza di una ragionevole giustificazione a sostegno della scelta normativa legata alla diversità di trattamento della posizione del cittadino di uno Stato terzo al quale viene del tutto preclusa, in caso di mandato "esecutivo" ex art. 18-bis cit., la possibilità di beneficiare di un rifiuto della consegna nella prospettiva della finalità rieducativa della pena la cui esecuzione egli verrebbe a scontare nello Stato di residenza, laddove la stessa possibilità gli viene riconosciuta dal legislatore, a garanzia della medesima finalità, nell'ipotesi del cd. mandato "processuale" regolato dalla disposizione di cui al cit., art. 19, comma 1, lett. c).
6.1. Entro tale prospettiva, a mero titolo esemplificativo, può richiamarsi l'orientamento di questa Corte (Sez. 6, n. 28236 del 15/07/2010, Mahmutovic, Rv. 247830) che, in relazione ad un cittadino della Bosnia Erzegovina richiesto in consegna dalle autorità della Slovenia, ha affermato che se la persona richiesta in consegna ai fini di un'azione penale è un cittadino italiano o risulti residente nello Stato, la condizione del reinvio prevista dalla L. n. 69 del 2005, art. 19, lett. c), costituisce, in attuazione della corrispondente previsione dell'art. 5, punto 3, della decisione quadro in tema di mandato di arresto Europeo, un requisito di legittimità della decisione di consegna, ogniqualvolta non vi sia un'espressa diversa richiesta dell'interessato.
Ne consegue che la Corte d'appello deve sempre verificare, prima di far luogo alla consegna, quale sia la nazionalità e la residenza della persona richiesta, per stabilire se si tratti di un cittadino italiano ovvero di un residente nello Stato italiano. Solo la certezza della effettiva residenza dello straniero in Italia, secondo i canoni indicati dalla giurisprudenza di questa Corte e della Corte di giustizia UE (in particolare, nella pronunzia resa dalla Grande Sezione del 17 luglio 2008 in causa C-66/08 Kozlowski), impone l'apposizione della condizione di reinvio.
Analogamente, in relazione ad un cittadino albanese richiesto in consegna dalle autorità della Repubblica Federale di Germania, questa Corte (Sez. 6, n. 38640 del 30/09/2009, Dervishi, Rv. 244757) ha affermato che l'espressione "dopo essere stata ascoltata", contenuta nell'art. 19, lett. c), con riferimento alla consegna, ai fini di un'azione penale, del cittadino o di persona residente dello Stato italiano, deve essere intesa nel senso che la persona consegnata deve essere restituita una volta esaurito il processo a suo carico con l'emissione di una sentenza esecutiva, secondo la disciplina specifica prevista dall'ordinamento dello Stato di emissione.
Nell'ipotesi del mandato processuale, dunque, l'art. 19, comma 1, lett. c) parifica integralmente la posizione del residente (anche cittadino di uno Stato terzo) a quella del cittadino italiano o di altro Stato membro dell'Unione, subordinando la consegna ad una ben precisa condizione legata al suo reinvio nello Stato membro di esecuzione per scontarvi la pena, senza che vi sia alcuna plausibile ragione perchè il residente in Italia possa scontarla nello Stato di esecuzione quando il mandato di arresto è processuale e non anche quando il mandato è esecutivo.
6.2. L'asimmetria che, nonostante la piena identità di ratio (in entrambi i casi governata dalla finalità del reinserimento sociale della persona condannata nel territorio dello Stato che meglio possa garantirne in concreto il perseguimento), connota la scelta normativa sottesa alla formulazione dell'art. 18-bis, comma 1, lett. c) in relazione all'ipotesi affine regolata dall'art. 19, comma 1, lett. c), risulta priva di qualsiasi coerente giustificazione di ordine logico-sistematico.
Nè la diversa connotazione, processuale o esecutiva, di una richiesta che viene avanzata dallo Stato di emissione sempre in vista dell'arresto e della consegna di "una persona ricercata" può assumere una valenza tale da giustificare la diversità della scelta operata dal legislatore, concretando essa, piuttosto, una diversa tipologia della "decisione giudiziaria" veicolata dall'Eurordinanza che deve essere eseguita nel rispetto del principio del reciproco riconoscimento: Eurordinanza che vale, in ogni caso, come richiesta di ricerca, cattura, detenzione e consegna all'autorità del Paese che ha emesso il mandato, e che, in relazione all'esito del raffronto operabile fra le categorie soggettive distintamente individuate nelle ipotesi regolate dall'art. 18-bis e dall'art. 19, comma 1, lett. c), presenta comunque un'identica natura (quella, cioè, di una decisione giudiziaria), un identico effetto (quello di trasferire l'esecuzione della pena nello Stato richiesto) e un'identica finalità (quella della rieducazione della pena in vista del reinserimento sociale del condannato).
Alla diversa connotazione, processuale o esecutiva, della richiesta avanzata con il m.a.e. si ricollega, piuttosto, l'obiettivo di modulare al meglio il funzionamento della nuova procedura di consegna in relazione alle diverse esigenze processuali delle autorità giudiziarie procedenti: se in presenza di una sentenza esecutiva di condanna, essendo ormai definito il processo estero, è sufficiente che l'autorità giudiziaria dell'esecuzione effettui, ex L. n. 69 del 2005, art. 17, comma 4, un vaglio delibativo in ordine alla sussistenza dei presupposti che legittimano il rifiuto della consegna (vaglio al cui esito sarà eventualmente disposta l'esecuzione della sanzione conformemente al diritto interno), nel diverso caso in cui il mandato dovesse essere attivato sulla base di un provvedimento cautelare, la necessità di garantire la partecipazione dell'imputato al processo suggerisce l'innesto di un ulteriore segmento procedimentale rappresentato dalla fase incidentale della c.d. consegna condizionata, secondo le forme regolate dall'art. 19, comma 1, lett. c).
L'unico aspetto che differenzia le posizioni soggettive che vengono in rilievo nelle ipotesi del mandato esecutivo e di quello processuale può individuarsi nel criterio attraverso il quale viene in concreto accertata l'effettiva capacità rieducativa della pena ancora da eseguire, che può essere presunta per il cittadino italiano, in considerazione del suo legame con lo Stato di appartenenza, mentre deve essere dimostrata, nel caso del cittadino di altro Paese membro ovvero di uno Stato terzo, attraverso la prova della sua reale assimilazione, laddove la nozione di "dimora", rilevante ai medesimi fini, si identifica, come già accennato, con un soggiorno stabile e di una certa durata, idoneo a consentire l'acquisizione di legami con lo Stato pari a quelli che vi si instaurano in caso di residenza (Sez. 6, n. 9767 del 26/02/2014, Echim, Rv. 259118).
Solo per il cittadino comunitario che abbia acquisito il diritto di soggiorno permanente in conseguenza di un soggiorno per un periodo ininterrotto di cinque anni è infatti possibile prescindere dalla valutazione degli specifici elementi sintomatici dell'esistenza di un suo radicamento reale e non estemporaneo in Italia (Sez. 6, n. 10042 del 09/03/2010, Matei, Rv. 246507).
L'irragionevolezza della scelta operata dal legislatore si manifesta anche in ragione del fatto che il residente gode di una tutela più ampia proprio nell'ipotesi in cui l'allentamento dei vincoli relazionali causato dalla consegna cd. "processuale" potrebbe di contro affievolire le capacità rieducative della pena.
In tal senso, già nella richiamata ordinanza di rimessione n. 33511/2019 di questa Corte si poneva in rilievo la condivisibile argomentazione secondo cui "a ben vedere anzi potrebbe avere una qualche giustificazione una disciplina inversa, perchè, nel caso di m.a.e. esecutivo, l'esecuzione della pena in Italia impedisce l'allontanamento della persona di cui è stata richiesta la consegna e quindi consente il mantenimento, per quanto è possibile, delle sue relazioni familiari e sociali, mentre nel caso di m.a.e. processuale la persona non può non essere consegnata allo Stato di emissione e la restituzione all'Italia per scontarvi la pena è destinata ad avvenire quando tali rapporti hanno già subito un affievolimento. Perciò è in questo caso che potrebbe risultare meno dannosa l'esecuzione della condanna nello Stato di emissione, nel quale la persona oggetto del m.a.e. resterebbe per scontare la pena dopo essere stata detenuta per il processo".
6.3. Un ulteriore elemento di riscontro, sia pure estrinseco, può al riguardo rinvenirsi nell'analisi della disciplina delle richieste di transito sul territorio dello Stato "di una persona che deve essere consegnata" ai sensi della L. n. 69 del 2005, art. 27, comma 1.
Sempre nell'ottica della finalità rieducativa della pena, infatti, la norma prevede, nel suo comma 2, che il Ministro della giustizia, qualora venga richiesta - ai fini dell'esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale - l'autorizzazione al transito di un cittadino italiano o di una persona residente nel nostro Stato, possa opporvi un rifiuto.
Ponendosi in linea con l'omologa disposizione della decisione quadro, la disciplina del transito cd. "esecutivo" (ex Legge cit., art. 27, comma 2, lett. b)) avvalora la tesi dell'irragionevolezza della discriminazione contenuta nella previsione dell'art. 18-bis cit., in quanto il legislatore ha in tal caso recepito integralmente la disposizione Euro-unitaria (ex art. 25, par. 1, della menzionata decisione quadro 2002/584/GAI) senza riproporre alcuna distinzione sotto il profilo soggettivo della persona ricercata.
Nell'ipotesi in cui la consegna sia invece finalizzata alla esecuzione di un provvedimento cautelare (art. 27, comma 3) il Ministro può subordinare la concessione del transito alla condizione che la persona ricercata (anche in tal caso individuata nel cittadino italiano ovvero in una persona residente in Italia), a seguito della sua audizione, sia reinviata in Italia per scontarvi la pena eventualmente irrogatagli all'esito del giudizio svolto nello Stato di emissione.
Disposizione, questa, che anche in relazione all'ipotesi del transito cd. "processuale", recepisce fedelmente il dettato della norma esterna di cui all'art. 25, par. 1, secondo inciso, della richiamata decisione quadro.
Diversamente dalla disciplina prevista nella Legge citata, art. 18-bis, comma 1, lett. c), dunque, la regolamentazione delle due ipotesi di transito si attiene alle indicazioni del legislatore Europeo in ordine alla delimitazione soggettiva della pertinente richiesta, che viene in tal caso generalmente ed uniformemente riferita alle figure del "cittadino" o del "residente" dello Stato membro di transito, senza limitarne l'applicazione alle sole categorie del cittadino italiano o del cittadino di un altro Stato membro dell'Unione Europea.
Pur diversamente disciplinate sotto il profilo della condizione del reinvio, le due ipotesi di transito sono anche in tal caso accomunate dalla stessa ratio, quella, cioè, di agevolare il reinserimento sociale della persona condannata attraverso meccanismi di garanzia che le consentano di espiare la sanzione detentiva nel Paese di provenienza.
6.4. Esaminata nel suo complessivo impianto strutturale, e posta in relazione con gli obiettivi e le finalità che ne governano il recepimento nel sistema interno, la decisione quadro non contiene alcuna indicazione restrittiva quanto alla sua sfera di applicazione ratione personae, lasciando alla elaborazione giurisprudenziale della Corte di giustizia il compito di armonizzare la definizione della nozione di "persona ricercata" secondo i canoni ermeneutici dianzi illustrati, in linea generale applicabili per qualsiasi parte del testo normativo.
E se, in considerazione del fatto che lo Stato di emissione e quello di esecuzione del mandato sono necessariamente Stati membri dell'Unione Europea, si può ritenere, come osservato dalla dottrina, che cittadini destinatari del mandato possono essere solo cittadini "comunitari", non sembra potersi concludere anche nel senso che il meccanismo del mandato d'arresto Europeo possa applicarsi soltanto a residenti e dimoranti in un determinato Stato membro che abbiano la cittadinanza di un altro Stato membro, essendo più corretto sostenere - anche in virtù dello stesso tenore letterale dell'art. 4, punto 6, della decisione quadro, che come si è visto non contiene alcuna specificazione quanto alla nazionalità dei residenti e dimoranti nello Stato di esecuzione - che tali ultimi soggetti potrebbero anch'essi usufruire del regime di favore previsto dalla disposizione in parola anche se cittadini di Stati terzi.
Sotto altro, ma connesso profilo, deve poi rilevarsi, volgendo lo sguardo sull'insieme della disciplina Euro-unitaria di diritto derivato, come in alcuni casi possa risultare assai problematica la sistematica esclusione dell'applicazione delle disposizioni in questione nei confronti dei cittadini di Paesi terzi, segnatamente nei casi in cui l'ordinamento dell'Unione riconosce uno status particolare in favore di alcune "categorie" di soggetti che pur non sono cittadini Europei.
In tal senso occorre considerare, anzitutto, i cittadini di Paesi terzi che abbiano acquisito lo status di soggiornanti di lungo periodo, previsto e disciplinato dalla direttiva 2003/109/CE del Consiglio del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo. Tale status, che può essere conferito da ogni Stato membro a coloro che hanno soggiornato legalmente e ininterrottamente per cinque anni nel suo territorio, ben potrebbe essere idoneo ad integrare la fattispecie della "residenza" nel territorio dello Stato di esecuzione ai sensi delle richiamate disposizioni di cui all'art. 4, punto 6, e art. 5, punto 3, della decisione quadro 2002/584/GAI, non solo perchè indice oggettivo di un effettivo radicamento nello Stato ospitante, ma anche perchè la citata direttiva 2003/109/CE vi riconnette una parità di trattamento rispetto ai cittadini nazionali quanto all'esercizio di taluni diritti.
A tal riguardo, l'unico limite all'assimilazione ai cittadini nazionali potrebbe essere rappresentato dalla possibilità per gli Stati membri di decidere di allontanare il soggiornante di lungo periodo esclusivamente se egli costituisce una minaccia effettiva e sufficientemente grave per l'ordine pubblico (tenendo conto del fatto che il considerando n. 8 della direttiva prevede che nella nozione possa rientrare una condanna per aver commesso un reato grave) o la pubblica sicurezza, previsto dall'art. 12 della direttiva de qua.
Si dovrebbe trattare, però, di una misura cui ricorrere solo in via eccezionale e che, in ogni caso, è sempre suscettibile di impugnazione in sede giurisdizionale.
La seconda "categoria" cui potrebbe riconoscersi uno status differenziato, anche ai fini della decisione relativa all'esecuzione di un mandato d'arresto Europeo, è quella dei cittadini di Paesi terzi familiari di un cittadino dell'Unione, ai sensi delle direttive 2004/38/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri - che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE - e 2003/86/CE del Consiglio del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare. E ciò perchè in talune situazioni, benchè forse non frequentemente ricorrenti, siffatta limitazione potrebbe integrare una indebita compressione dei diritti dei cittadini Europei. Basti pensare, ad esempio, all'ipotesi di un cittadino di un altro Stato membro che risieda nello Stato di esecuzione, le cui autorità non possano disporre l'esecuzione della sanzione inflitta nello Stato emittente nei confronti del coniuge, ma anche del figlio o del genitore, che sia cittadino di uno Stato terzo.
In definitiva, i cittadini di Paesi terzi, pur se stabilmente residenti in Italia, costituiscono l'unica "categoria" di destinatari di un mandato in executivis esclusa dall'applicazione del motivo di rifiuto di cui all'art. 18-bis, comma 1, lett. c), poichè siffatta causa ostativa dell'esecuzione, di contro, è utilmente invocabile in favore dei cittadini italiani, dei cittadini di un altro Stato membro dell'Unione residenti nello Stato e finanche degli apolidi stabilmente residenti nel territorio dello Stato, per effetto dell'equiparazione ai cittadini ai fini della legge penale prevista dall'art. 4 c.p., comma 1.
Ne discende che, in relazione all'assenza di alcuna previsione di garanzia in favore dei cittadini di Paesi non membri dell'UE che siano stabilmente radicati nel territorio italiano, deve ritenersi prospettabile anche la violazione del parametro riferibile all'art. 3 Cost., per quel che attiene al rispetto dei canoni di ragionevolezza e coerenza sistematica nella delineazione dei tratti di diversità che strutturalmente connotano, rispetto a tutte le altre categorie di potenziali destinatari, la qui denunciata disciplina del correlativo motivo di rifiuto della consegna, frutto di scelte discrezionali del legislatore il cui contenuto sembra tradursi in un risultato normativo tale da valicare il limite dell'intrinseca ragionevolezza.
7. Richiamate le su esposte considerazioni in ordine alla definizione che delle comuni nozioni di residenza e dimora la Corte di giustizia ha enucleato nel corso della sua progressiva elaborazione giurisprudenziale, devono ora esaminarsi le implicazioni logico-sistematiche sottese alla individuazione dei profili attinenti alla finalità di reinserimento sociale della "persona condannata" che parimenti sorregge la costruzione delle collegate disposizioni di cui all'art. 4, punto 6 e art. 5, punto 3, della decisione quadro 2002/584/GAI, ponendole a raffronto con l'opzione normativa dal legislatore accolta in sede di recepimento nell'ordinamento interno, alla luce dell'ulteriore parametro enunciato nell'art. 27 Cost., comma 3.
7.1. Questa Corte, nella sua ordinanza di rimessione n. 33511 del 2009, ha osservato, richiamando le su trascritte conclusioni dall'Avvocato generale rassegnate nella causa Wolzenburg, che "... nella prospettiva della decisione quadro, una disparità di trattamento tra cittadini e residenti non può essere giustificata, avuto riguardo al "principio di individualizzazione del regime di (futura) esecuzione", il quale non può che essere "indistintamente" preordinato e finalizzato ad accrescere le opportunità di inserimento del condannato nel tessuto relazionale, sociale, affettivo, ma anche economico ed abitativo, più funzionale allo sviluppo delle potenzialità socializzanti e rieducative della pena, inflitta (oppure infliggenda) dallo Stato di emissione, ma della cui positiva operatività vengono a trarre diretto ed immediato beneficio sia lo Stato di esecuzione, in quanto Stato della cittadinanza o della residenza del consegnando, sia gli altri Stati dell'Unione Europea".
Nel richiamare i pertinenti passaggi argomentativi sviluppati nelle sentenze Kozlowski e Wolzenburg in ordine alla particolare importanza accordata dalle su menzionate disposizioni della decisione quadro alla "possibilità di accrescere le opportunità di reinserimento sociale della persona ricercata una volta scontata la pena cui essa è stata condannata", la Corte costituzionale ha affermato, nella decisione n. 227 del 2010, che "Se questa è la ratio della norma della decisione quadro così come interpretata dalla Corte di giustizia, è agevole dedurre che il criterio per individuare il contesto sociale, familiare, lavorativo e altro, nel quale si rivela più facile e naturale la risocializzazione del condannato, durante e dopo la detenzione, non è tanto e solo la cittadinanza, ma la residenza stabile, il luogo principale degli interessi, dei legami familiari, della formazione dei figli e di quant'altro sia idoneo a rivelare la sussistenza di quel "radicamento reale e non estemporaneo dello straniero in Italia" che costituisce la premessa in fatto delle ordinanze di rimessione. Utilizzando il criterio esclusivo della cittadinanza, escludendo qualsiasi verifica in ordine alla sussistenza di un legame effettivo e stabile con lo Stato membro dell'esecuzione, la norma impugnata tradisce, in definitiva, non solo la lettera, ma anche e soprattutto la ratio della norma dell'Unione Europea alla quale avrebbe dovuto dare corretta attuazione." Ora, il presupposto necessario per procedere al trasferimento dell'esecuzione nello Stato al quale è richiesta la consegna, come dianzi osservato, è che la persona ricercata ai fini della consegna, qualora non ne sia cittadino, ma solo residente o dimorante, provi di aver stabilito un solido legame con lo Stato ospite.
Nella richiamata decisione, infatti, il Giudice delle leggi ricollega le finalità lato sensu legate all'istanza di risocializzazione del condannato, sia durante che dopo la detenzione, non tanto e non solo al dato formale della cittadinanza, ma al dato sostanziale della "residenza stabile" quale criterio idoneo a rivelare in punto di fatto la sussistenza di un radicamento reale e non estemporaneo dello straniero sul territorio italiano.
Muovendosi entro tale prospettiva, dunque, non sembrano affiorare validi argomenti a sostegno della scelta dal legislatore seguita nell'escludere dal campo applicativo della norma di cui all'art. 18-bis, comma 1, lett. c), Legge cit. il residente non cittadino di uno Stato membro dell'Unione che si sia ormai stabilito nel nostro Stato e vi abbia raggiunto, a seguito del decorso di un congruo lasso temporale, quel livello di integrazione richiesto perchè il suo status possa essere assimilato a quello del cittadino italiano o di altro Paese membro che abbia nel tempo intessuto analoghi legami.
Nè un'eventuale esclusione appare giustificata, peraltro, alla luce del principio della finalità rieducativa della pena stabilito nell'art. 27 Cost., comma 3, che tale finalità enuncia senza operare alcuna distinzione fra determinate categorie di persone condannate.
Lo stesso dato testuale delle richiamate disposizioni Euro-unitarie, inoltre, si rivolge in via generale alle figure soggettive del residente e del dimorante (quella di cui all'art. 5, punto 3, cit., come si è visto, al solo residente e non anche al dimorante) senza vincolare l'applicabilità delle relative previsioni al requisito aggiuntivo della cittadinanza dell'Unione di cui all'art. 20 TFUE, in tal guisa chiaramente esprimendo, proprio in ragione della finalità del reinserimento sociale del condannato, l'intenzione del legislatore Europeo di ricomprendere nelle fattispecie ivi considerate ogni tipo di legame qualificato con lo Stato ospite, indipendentemente dalla nazionalità della persona richiesta in consegna.
7.2. Osservando nel suo insieme l'assetto normativo delineato dalla decisione quadro sul mandato di arresto Europeo è agevole rilevare, alla luce delle condivisibili argomentazioni al riguardo svolte dalla dottrina, come la finalità del reinserimento sociale della persona condannata agisca sia come "criterio-limite" della cooperazione (ad es., con l'art. 3, n. 3, della decisione quadro, e con l'omologa previsione interna di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 18, lett. i), nell'ipotesi in cui la persona oggetto del mandato d'arresto Europeo non può ancora essere considerata, a causa dell'età, penalmente responsabile dei fatti all'origine del mandato d'arresto Europeo in base alla legge dello Stato membro di esecuzione), sia, per quel che maggiormente interessa nel caso in esame, come "scopo" del modello di cooperazione giudiziaria governato dal principio del reciproco riconoscimento.
In tal senso, il profilo del reinserimento sociale del condannato quale scopo della cooperazione giudiziaria penale è potenzialmente "incorporato" proprio nel combinato disposto delle previsioni di cui all'art. 4, punto 6, e art. 5, punto 3, dello strumento normativo Europeo.
Un'utile indicazione di conferma, al riguardo, può trarsi dai lavori preparatori che hanno condotto all'adozione della decisione quadro 2002/584/GAI, ed in particolare dalla disciplina del motivo di rifiuto contenuto nell'art. 33 (Principio del reinserimento) della "Proposta di decisione quadro del Consiglio relativa al mandato d'arresto Europeo e alle procedure di consegna degli Stati membri", presentata dalla Commissione Europea il 19 settembre 2011, secondo cui "l'esecuzione di un mandato d'arresto Europeo nei confronti di una persona può essere rifiutata se questa persona ha migliori possibilità di reinserimento nello Stato membro dell'esecuzione e abbia dato li suo consenso a scontare la pena in tale Stato membro".
Analoga disposizione è contenuta nell'art. 36 della citata Proposta, riguardante l'ipotesi del "ritorno nello Stato d'esecuzione", ossia la forma della cd. "consegna condizionata" che ha preso corpo nel testo dell'art. 5, n. 3, della decisione quadro.
Alla funzione principale dell'Euromandato, di natura spiccatamente repressiva perchè volta a realizzare una sorta di "libera circolazione degli imputati", strumentale al contrasto delle organizzazioni criminali internazionali, se ne aggiunge pertanto, come osservato dalla dottrina, una ulteriore, tendente alla rieducazione e al reinserimento sociale del condannato.
Ne discende che la prospettiva attraverso la quale occorre analizzare le pertinenti disposizioni della decisione quadro, e le norme che vi danno attuazione nella legislazione nazionale, è quella che permette di bilanciare le esigenze repressive e di efficace contrasto della criminalità transnazionale con la tutela dei diritti fondamentali del condannato, in quanto la semplificazione e la maggiore velocità della nuova procedura di consegna non possono spingersi fino a pregiudicare il quadro delle garanzie che circondano la fase di esecuzione del provvedimento di condanna in funzione della risocializzazione della persona ricercata.
Finalità, questa, di rilievo costituzionale nel nostro ordinamento, e recepita finanche in numerose convenzioni internazionali, la cui effettiva realizzazione, però, da un lato rischia di essere seriamente pregiudicata dall'esecuzione della pena in un sistema estraneo alla vita familiare, sociale, lavorativa ed affettiva del condannato, dall'altro lato appare razionalmente perseguibile solo quando la pena detentiva possa essere espiata nel Paese in cui il condannato ha intessuto saldi legami sociali e familiari.
Anche sotto tale profilo, dunque, e con specifico riferimento alla posizione dei cittadini di Paesi terzi, permane la rilevata discrasia dell'art. 18-bis, comma 1, lett. c), rispetto alla collegata previsione di cui all'art. 19, comma 1, lett. c), escludendo solo la prima disposizione l'invocabilità del correlativo motivo di rifiuto in favore dei residenti o dimoranti "extracomunitari".
L'esclusione a priori della possibilità che il residente (o dimorante) cittadino di uno Stato terzo sconti la pena in Italia, infatti, non consente di perseguirne la "risocializzazione" attraverso la conservazione, per quanto è possibile, dei legami familiari e sociali durante la fase di esecuzione della pena, in una prospettiva funzionalmente orientata all'attuazione della finalità rieducativa della pena sancita dall'art. 27, Cost., comma 3.
Precetto, questo, che la Corte costituzionale ha gradualmente scolpito nel suo contenuto e progressivamente attuato nell'ordinamento facendolo divenire, come osservato dalla dottrina, la "norma-radice, ispiratrice dell'intera disciplina dell'esecuzione penale".
L'obiettivo della "reintegrazione sociale", come riduzione degli effetti desocializzanti della pena detentiva, non ammette alcuna distinzione fondata sulla nazionalità e costituisce senza dubbio uno dei principali corollari del principio rieducativo, trasfondendosi addirittura nel significato stesso che tale principio viene ad assumere in relazione alle esigenze di individualizzazione del trattamento del condannato nella fase di esecuzione della pena.
Nel nostro ordinamento, peraltro, la funzione rieducativa è assegnata anche alle misure alternative previste in seno all'ordinamento penitenziario (Corte Cost., n. 173 del 13 giugno 1997), poichè " l'idea di "scopo" della pena, della quale idea è massima espressione lo stesso art. 27 Cost., comma 3, comporta, oltre al ridimensionamento delle concezioni assolute della pena, la valorizzazione del soggetto, reo o condannato, in ogni momento della dinamica penal-sanzionatoria (previsione astratta, commisurazione, soltanto in senso ampio od anche in senso stretto, ed esecuzione)...." (Corte Cost., n. 282 del 25 maggio 1989), tanto che le misure alternative, proprio in attuazione di quel principio costituzionale, si ritengono applicabili anche nei confronti del cittadino extracomunitario che sia entrato illegalmente in Italia o risulti privo di permesso di soggiorno (Corte Cost., n. 78 del 16 marzo 2007).
7.3. Sotto altro, ma connesso profilo, devono essere specificamente analizzate, per quel che viene in rilievo al fine qui considerato, le implicazioni sottese all'incidenza concretamente esercitata sul sistema del mandato di arresto Europeo dalla successiva adozione della collegata decisione quadro 2008/909/GAI del Consiglio, del 27 novembre 2008, relativa all'applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell'Unione Europea.
A tale strumento di diritto derivato il nostro ordinamento ha dato attuazione con il D.Lgs. 7 settembre 2010, n. 161.
Detta decisione quadro ha istituito un sistema per il trasferimento di detenuti condannati nello Stato membro di cui sono cittadini o in cui hanno la residenza abituale ovvero in un altro Stato membro con il quale hanno intessuto stretti legami, familiari, linguistici, culturali, sociali o economici e di altro tipo (considerandum n. 9), comunque ritenuti idonei ad aumentare le loro possibilità di reinserimento sociale. Lo strumento è applicabile anche quando la persona condannata si trovi già in tale Stato membro.
Il suo ambito di applicabilità è assai ampio e non mira a tutelare solo il diritto dei cittadini dell'Unione di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, conferito dall'art. 18 del Trattato che istituisce la Comunità Europea, ma investe anche (secondo il considerandum n. 16) le posizioni soggettive previste nella direttiva 2003/86/CE del Consiglio del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare, nella direttiva 2003/109/CE del Consiglio del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo e nella direttiva 2004/38/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri (che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE,90/365/CEE e 93/96/CEE).
Nel considerandum n. 17, inoltre, si specifica che "laddove nella presente decisione quadro si fa riferimento allo Stato in cui la persona condannata "vive", si intende il luogo a cui tale persona è legata per il fatto che vi soggiorna abitualmente e per motivi quali quelli familiari, sociali o professionali".
Il suo scopo fondamentale, ai sensi dell'art. 3, par. 1, è quello di stabilire le norme secondo le quali uno Stato membro, al fine di favorire il reinserimento sociale della persona condannata, debba riconoscere una sentenza ed eseguire la pena nei suoi confronti irrogata da altro Stato dell'Unione.
Siffatta decisione quadro, che per i soli Stati aderenti all'Unione ha sostituito la convenzione del Consiglio d'Europa sul trasferimento delle persone condannate del 21 marzo 1983 (STCE n. 112) ed il relativo protocollo aggiuntivo del 18 dicembre 1997 (STCE n. 167), contiene, all'art. 25, una disposizione specifica riguardante l'esecuzione di pene privative della libertà nello Stato membro di esecuzione nelle su richiamate evenienze procedimentali di cui all'art. 4, punto 6, e all'art. 5, punto 3, della decisione quadro sul m.a.e..
Nelle ipotesi in cui trovino applicazione tali specifiche disposizioni della procedura di consegna basata sul m.a.e., si deve applicare, secondo il richiamato art. 25 (e l'ulteriore esplicitazione offertane dal considerandum n. 12), anche la decisione quadro 2008/909/GAI per il trasferimento della pena nello Stato membro dove dovrà essere eseguita.
Si è dianzi osservato come, proprio attraverso tale plesso di disposizioni normative, il legislatore dell'Unione abbia riconosciuto particolare importanza alla possibilità di accrescere le opportunità di reinserimento sociale del cittadino o del residente dello Stato membro di esecuzione, consentendogli di scontare, nel territorio di quest'ultimo, la pena o la misura di sicurezza privative della libertà che, a seguito della sua consegna, in esecuzione di un mandato d'arresto Europeo, siano eventualmente pronunciate nei suoi confronti nello Stato membro di emissione (Corte giust. UE, sentenze del 6 ottobre 2009, Wolzenburg, C0123/08, punto 62, e del 21 ottobre 2010, B., CE1306/09, punto 52).
7.4. Ora, a tale "microsistema" dell'esecuzione della pena nell'ambito dei rapporti giurisdizionali fra gli Stati membri dell'Unione il nostro ordinamento ha dato fedele attuazione, in particolare, con la previsione del D.Lgs. n. 161 del 2010, art. 24, comma 1, - che a sua volta richiama le pertinenti disposizioni degli L. 22 aprile 2005, n. 69, artt. 18 e 19 - e con l'art. 2, comma 1, lett. c), che in linea generale definisce la "persona condannata" come "la persona fisica nei cui confronti è stata pronunciata una sentenza di condanna", ossia (ex art. 2, comma 1, lett. b) una decisione definitiva emessa da un organo giurisdizionale di uno Stato membro con la quale vengono applicate una pena o una misura di sicurezza nei confronti di "una persona fisica", senza distinguere, ai fini dell'applicabilità dello strumento, fra le posizioni soggettive dei cittadini comunitari o di Paesi terzi.
In tal senso, infatti, la giurisprudenza di questa Suprema Corte (ex multis v. Sez. 6, n. 53 del 30/12/2014, dep. 2015, Petrescu, Rv. 261803; Sez. 6, n. 38557 del 17/09/2014, Turlea, Rv. 261908) ha affermato il principio secondo cui la Corte d'appello che intende rifiutare la consegna ai sensi della L. n. 69 del 2005, art. 18, comma 1, lett. r), - poi sostituito, come si è visto, con l'art. 18-bis cit. -, disponendo l'esecuzione nello Stato della pena inflitta al cittadino italiano o di altro Paese dell'Unione legittimamente residente o dimorante in Italia, è tenuta al formale riconoscimento della sentenza su cui si fonda il m.a.e. secondo quanto previsto dal D.Lgs. 7 settembre 2010, n. 161, anche per verificare la compatibilità della pena irrogata con la legislazione italiana, qualora pure il Paese richiedente abbia dato attuazione alla predetta decisione quadro.
Criteri direttivi, questi, che la Corte d'appello deve applicare non solo nei confronti del cittadino italiano, ma anche nei confronti della persona condannata che non ha la cittadinanza italiana (cfr. Sez. 6, n. 8439 del 16/02/2018, Ciociu, Rv. 272379), ai sensi del combinato disposto di cui al D.Lgs. n. 161 del 2010, art. 10, comma 2 e art. 12, comma 2, in relazione alla connessa previsione di cui all'art. 4, par. 1, lett. c) della decisione quadro 2008/909/GAI, purchè in tale ultima ipotesi il Ministro della giustizia abbia dato con un decreto il suo consenso all'esecuzione in Italia della relativa sentenza di condanna.
La stessa Corte di giustizia (da ultimo, v. Quarta Sezione, 11 marzo 2020, CI314/18, SF) attribuisce particolare valore all'articolazione del collegamento previsto dal legislatore dell'Unione fra la decisione quadro 2002/584/GAI e la decisione quadro 2008/909/GAI, affermando che tale nesso "deve contribuire a conseguire l'obiettivo consistente nel favorire il reinserimento sociale della persona interessata. Del resto, un siffatto reinserimento è nell'interesse non solo della persona condannata, ma anche dell'Unione Europea in generale (v., in tal senso, sentenze del 23 novembre 2010, Tsakouridis, C2145/09, EU:C:2010:708, punto 50, nonchè del 17 aprile 2018, 8 e Vomero, C2316/16 e C2424/16, EU:C:2018:256, punto 75).".
Entro tale prospettiva, dunque, risulterebbe irrazionale ed in contrasto con il principio della finalità rieducativa della pena sancito dall'art. 27 Cost., comma 3, una disposizione normativa - quale quella contenuta nella Legge Cit., art. 18-bis, comma 1, lett. c), - che precludesse in sede di esecuzione della pena la realizzazione di ogni speranza di reintegrazione sociale per il cittadino di uno Stato non membro dell'Unione Europea, quando altre disposizioni, contestualmente applicabili nell'ambito della medesima procedura di consegna (segnatamente, i richiamati D.Lgs. n. 161 del 2010, art. 2, comma 1, lett. b) e lett. c), art. 10, comma 2, art. 12, comma 2 e art. 24, comma 1) e direttamente collegate a quella qui censurata, gli consentissero invece di beneficiare della possibilità di scontare la pena nello Stato a garanzia della medesima finalità di rilievo costituzionale.
8. Analoghe considerazioni devono svolgersi in relazione al connesso profilo di tutela involgente il rispetto del diritto fondamentale della vita familiare della persona condannata e richiesta in consegna per l'esecuzione di una pena all'estero che, se scontata, invece, nel territorio dello Stato ove sono di fatto concentrati, perchè nel tempo vi hanno trovato una nuova radice, tutti i legami affettivi, sentimentali, di reciproca assistenza e solidarietà scaturenti dalla vicinanza della propria famiglia, potrebbe accrescerne sensibilmente le possibilità di reinserimento sociale.
8.1. Particolare valenza assumono, in tale prospettiva, le indicazioni dettate dalla norma generale contenuta nella disposizione di cui all'art. 696-ter c.p.p., inserito nel codice di rito dalla D.Lgs. 3 ottobre 2017, n. 149, art. 3, comma 1, lett. a), e riguardante la tutela dei diritti fondamentali della persona nelle procedure di mutuo riconoscimento, secondo cui "L'autorità giudiziaria provvede al riconoscimento e all'esecuzione se non sussistono fondate ragioni per ritenere che l'imputato o il condannato verrà sottoposto ad atti che configurano una grave violazione dei principi fondamentali dell'ordinamento giuridico dello Stato, dei diritti fondamentali della persona riconosciuti dall'art. 6 del Trattato sull'Unione Europea o dei diritti, delle libertà e dei principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea".
E' dunque a tale norma di principio che occorre guardare nel nostro ordinamento, per verificare il rispetto dei diritti fondamentali delle persone coinvolte nei meccanismi di funzionamento delle procedure di mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie, ivi comprese, pertanto, quelle attinenti al mandato di arresto Europeo e all'esecuzione delle condanne a pena detentiva nell'ambito dei rapporti inter-giurisdizionali degli Stati membri dell'Unione Europea.
Nel sistema della procedura di consegna basata sul mandato di arresto Europeo la necessità di garantire i diritti umani è, in primo luogo, prevista nell'art. 1, par. 3, della decisione quadro 2002/584/GAI, ove si legge che la stessa non può modificare l'obbligo del rispetto dei diritti fondamentali e dei principii giuridici sanciti dall'art. 6, par. 1, TUE. Un riferimento ai diritti umani, inoltre, è contenuto nel decimo considerandum della decisione quadro, che richiama i diritti fondamentali e precisa che il meccanismo del mandato d'arresto può essere sospeso in caso di violazione grave e persistente da parte degli Stati membri dei principii sanciti nell'art. 6, par. 1, TUE in applicazione dell'art. 7, par. 1, dello stesso Trattato e con le conseguenze previste al par. 2 della stessa disposizione.
Ma è soprattutto nel dodicesimo considerandum che quella fondamentale esigenza di garanzia affiora con particolare incisività, affermandosi che la decisione quadro rispetta i diritti fondamentali sanciti dall'art. 6 TUE e dalla Carta, operando un rinvio ai diritti garantiti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali ed a quelli risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.
Ne deriva, quindi, che il dovere di rispettare tali diritti e principii permea l'intero assetto della decisione quadro.
Nelle sue conclusioni del 6 luglio 2010, rassegnate nell'ambito del caso I.B. c. Belgio, l'Avvocato generale ha significativamente affermato (nel punto 41) che: "Se è vero che il mutuo riconoscimento è uno strumento che rafforza lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, è altrettanto vero che la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali costituisce un prius che legittima l'esistenza e lo sviluppo di tale spazio. La decisione quadro si esprime ripetutamente in tal senso nei "considerando" artt. 10, 12, 13 e 14, nonchè all'art. 1, n. 3".
Ad analoghe esigenze di tutela, inoltre, fa riferimento la menzionata decisione quadro 2008/909/GAI, il cui sesto considerandum afferma che "La presente decisione quadro dovrebbe essere attuata e applicata in modo da consentire il rispetto dei principi generali di eguaglianza, equità e ragionevolezza", richiamando nel successivo considerandum n. 13 l'impegno di rispettare i diritti fondamentali e di osservare i principii sanciti dall'art. 6 TUE, sì come racchiusi nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, in particolare nel capo VI. Esplicita chiaramente tali linee di indirizzo la successiva disposizione di cui all'art. 3, par. 4, della decisione quadro or ora menzionata, inquadrandone il contenuto di garanzia in una prospettiva specificamente finalizzata a favorire il reinserimento sociale della persona condannata.
Le disposizioni delle decisioni quadro in tema di cooperazione giudiziaria penale, come osservato dalla Corte di giustizia (con la sentenza del 15 settembre 2011, Magatte Gueye (CI483/09) e Valentin Salmeron Sanchez (C01/10), punto 55), devono essere interpretate in maniera tale che siano rispettati i diritti fondamentali, tra i quali può rilevare anche il diritto al rispetto della vita privata e familiare, quale affermato nell'art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.
Nel recepire tali strumenti di diritto derivato il legislatore nazionale ha tenuto conto, in linea generale, dei limiti connaturali al rispetto dei diritti fondamentali della persona nelle pertinenti disposizioni di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 1, comma 1 e art. 2, comma 1, lett. a), nonchè al D.Lgs. n. 161 del 2010, art. 1, comma 1.
Nella formulazione della censurata previsione di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 18-bis, comma 1, lett. c), tuttavia, il cittadino di uno Stato terzo che abbia stabilito il centro dei suoi legami familiari nello Stato di esecuzione si vede sistematicamente preclusa, come già osservato, qualsiasi possibilità di "risocializzazione" attraverso la conservazione, per quanto possibile, dei legami affettivi germinati all'interno del nucleo familiare cui appartiene durante l'intera fase temporale di esecuzione della pena detentiva irrogatagli dallo Stato emittente.
8.2. Ora, l'art. 52, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali stabilisce, a sua volta, che "Eventuali limitazioni all'esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall'Unione o all'esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui".
La formula usata in questa disposizione normativa contiene una clausola limitativa generale che trova origine nella giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia, in base alla quale le restrizioni all'esercizio dei diritti fondamentali devono rispondere effettivamente a finalità di interesse generale e non devono risolversi "in un intervento sproporzionato ed inammissibile rispetto allo scopo perseguito che pregiudicherebbe la stessa sostanza di tali diritti" (Corte di giustizia, 13 aprile 2000, Kjell Karsson e altri, causa 292/97, punto 45).
Esaminando il precetto contenuto nell'art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione, è agevole rilevare come esso stabilisca in favore di "ogni persona" il diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza, utilizzando una formula sostanzialmente sovrapponibile a quella contenuta nell'art. 8, par. 1, CEDU (ove il termine "corrispondenza" è stato sostituito, nella relativa previsione dell'art. 7, dal termine "comunicazioni").
Conformemente all'art. 52, par. 3, CDFUE il significato e la portata di questi diritti sono identici a quelli della corrispondente disposizione della CEDU e le limitazioni che vi possono legittimamente essere apportate, come chiarito nella Spiegazione relativa all'art. 7, sono pertanto quelle autorizzate ai sensi del suddetto art. 8, par. 2, secondo cui: "Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell'esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell'ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute e della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui".
Agli Stati contraenti, dunque, è posto un divieto di ingerenza, fatta salva la previsione di specifiche ed espresse deroghe. Al riguardo, l'ingerenza può essere prevista dalla legge ovvero motivata da una delle esigenze imperative di carattere generale di cui al comma 2 dell'art. 8 CEDU. All'impegno di carattere negativo degli Stati parti si aggiungono, peraltro, gli obblighi positivi di adottare misure atte a garantire il rispetto effettivo della "vita familiare e della vita privata".
Ora, il confine tra obblighi positivi e negativi posti a carico degli Stati contraenti, ai sensi dell'art. 8 cit., non si presta ad una definizione precisa ed univoca, ma è evidente che, nello sforzo indirizzato al soddisfacimento di entrambi gli obblighi, lo Stato deve trovare un giusto equilibrio fra i concorrenti interessi generali e dei singoli, nell'ambito del margine di apprezzamento nazionale che gli è conferito.
La procedura decisionale prevista, inoltre, deve essere "equa" e tale da garantire il dovuto rispetto degli interessi tutelati dall'art. 8 (Corte EDU, 3 giugno 2014, Lopez Guiò contro Slovacchia). In particolare, deve esistere "un principio di proporzionalità tra la misura (contestata) e lo scopo perseguito" (Corte EDU, 8 aprile 2014, Dhahbi c. Italia, che ha ritenuto la violazione dell'art. 8 in combinato disposto con l'art. 14 CEDU, riguardante il divieto di discriminazione, da parte di un ordinamento nazionale, come quello italiano, che aveva negato ad un cittadino extracomunitario in possesso di un regolare permesso di lavoro e di soggiorno di beneficiare della corresponsione di assegni familiari, sulla base del solo elemento della diversa nazionalità del richiedente e senza valutare l'eventuale esistenza di accordi diversi derivanti dal diritto UE).
L'art. 8, dunque, non configura un diritto avente carattere "assoluto", invitando piuttosto le competenti autorità dello Stato parte ad un ragionevole contemperamento fra i diversi e molteplici interessi concorrenti oggetto di apprezzamento a livello nazionale.
8.3. Occorre, per altro verso, considerare che tutti i diritti previsti dalla CEDU devono essere garantiti dagli Stati parti, come stabilito nell'art. 1, "ad ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione": in altri termini, tali diritti vanno garantiti non solo ai cittadini o a determinati stranieri ma a qualsiasi persona sottoposta alla giurisdizione dello Stato, compresi gli immigrati irregolari.
Se è vero che nella CEDU compaiono numerosi riferimenti a concetti giuridici indeterminati che possono essere interpretati come restrittivi dell'ambito di applicazione dei diritti in determinate circostanze (ad es., nel ricorso a clausole di salvaguardia che garantiscono allo Stato una limitazione dei diritti riconosciuti, quali, ad esempio, ordine pubblico, sicurezza pubblica, sicurezza nazionale, sanità pubblica, difesa dell'ordine, protezione di altri interessi legittimi, ecc.), ciò non significa che lo Stato parte, nell'interpretare concetti connotati da un'assai vasta area semantica, possa limitare del tutto l'effettività dell'esercizio dei diritti in esame, giacchè spetta alla stessa Corte Europea dei diritti dell'uomo la competenza esclusiva di interpretare tali clausole di salvaguardia cercando di dar loro un significato valido per tutti gli Stati contraenti.
Nel far obbligo alle Alte Parti contraenti di riconoscere a tutte le persone sottoposte alla loro giurisdizione i diritti e le libertà contemplati nel Titolo I di detta Convenzione, il richiamato art. 1 usa il verbo "riconoscere", in tal guisa volendo significare che i conditores hanno voluto, per l'appunto, indicare che i diritti e le libertà del Titolo I dovranno essere rispettati, in quanto preesistenti, nei confronti di chiunque sia sottoposto alla giurisdizione degli Stati contraenti (Corte EDU, 18 gennaio 1978, Irlanda v. Regno Unito, par. 239).
Il complesso dei diritti e delle libertà convenzionali - ivi comprese, dunque, le fondamentali garanzie ad "ogni persona" riconosciute nell'art. 8, sì come richiamato anche nella corrispondente previsione dell'art. 7 CDFUE - deve essere garantito anche agli stranieri che si trovano nel territorio di una delle Parti contraenti, pur se irregolari, perchè la Convenzione Europea sui diritti umani presuppone l'esistenza di un ordine pubblico Europeo, nel senso di un ordine pubblico creatore di norme di ius cogens applicabili a tutti, senza possibilità di alcuna deroga.
La CEDU rappresenta, del resto, solo una delle convenzioni internazionali che hanno codificato i diritti da ultimo disciplinati dall'art. 7 CDFUE: altri testi rilevanti sono, in tal senso, l'art. 12 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e l'art. 17 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 16 dicembre 1966 (ratificato nel nostro ordinamento con la L. 25 ottobre 1977, n. 881), il cui par. 1 fissa, con una formulazione analoga alle altre sinora considerate, il principio secondo cui "Nessuno può essere sottoposto ad interferenze arbitrarie o illegittime nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa o nella sua corrispondenza, nè a illegittime offese al suo onore e alla sua reputazione", mentre nel secondo paragrafo se ne rafforza il contenuto precettivo stabilendo che "Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze od offese".
8.4. Nella evoluzione della giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull'ambito di applicazione del diritto al rispetto della vita familiare, l'individuazione della "famiglia" come bene meritevole di tutela si radica essenzialmente sulla valorizzazione di un dato fattuale, cioè sull'esistenza tra i soggetti di "stretti legami personali" (Corte EDU, 27 gennaio 2015, Paradiso e Campanelli c. Italia, par 67) e quindi di condotte che sono comunemente ritenute tipiche delle "famiglie".
La nozione di "vita familiare" rilevante ai sensi dell'art. 8 cit. congloba, per lo meno, i rapporti fra prossimi congiunti, che possono oggettivamente assumervi un ruolo considerevole (ad esempio, tra nonni e nipoti), laddove il "rispetto" della vita familiare così estesa implica, per lo Stato, l'obbligo di agire in maniera da permettere il normale sviluppo di tali rapporti (Corte EDU, Marckx c. Belgio del 13 giugno 1979, p. 45; Corte EDU, 13 luglio 2000, Scozzari e Giunta c. Italia).
Vi rientrano, in particolare, sia le relazioni giuridicamente istituzionalizzate (famiglia legittima), sia le relazioni fondate sul dato biologico (famiglia naturale), sia, infine, quelle che costituiscono "famiglia" in senso sociale, alla condizione che sussista l'effettività di stretti e comprovati legami personali.
Una nozione, dunque, dalla portata applicativa assai ampia, senza dubbio più estesa rispetto a quella cui fa riferimento la diversa disposizione scolpita nell'art. 12 CEDU ("l'uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l'esercizio di tale diritto", come tale riferibile alla sola famiglia fondata sul matrimonio), che permette alla Corte Europea di ricomprendervi sia quest'ultimo modello, sia tipologie di relazioni affettive che non rientrano in un modello familiare predeterminato, ma che si fondano, e per ciò stesso meritano protezione, sul dato oggettivo della loro mera esistenza fattuale.
Una prospettiva, questa, non dissimile da quella valorizzata nel nostro ordinamento attraverso il quadro di principii delineato nell'art. 2 Cost., che garantisce protezione ad ogni formazione sociale in cui si svolge la personalità umana, intesa come "ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico" (Corte Cost. n. 138 del 14 aprile 2010), poichè sia nel sistema convenzionale che in quello interno sono riconosciuti, e costituiscono oggetto di tutela, i diritti dei singoli che nascono, si esprimono e si sviluppano all'interno di un nucleo familiare, fatta salva la possibilità di un trattamento non omogeneo correlato alla diversità dei modelli di relazioni familiari, alla luce di un giusto bilanciamento operato, a livello nazionale, fra le legittime istanze di tutela di interessi generali (ad es., sicurezza nazionale, protezione della salute o della morale, difesa dell'ordine e prevenzione dei reati, ecc.) e le esigenze di protezione dei diritti fondamentali della persona (Corte EDU, Soering c. Regno Unito, 7 luglio 1989, p.89).
Integralmente richiamate le considerazioni dianzi illustrate (nel par. 4 del considerato in diritto) in ordine al reale e non estemporaneo radicamento sul territorio italiano della persona richiesta in consegna e dell'intera comunità familiare di cui essa fa parte, deve ritenersi che l'esclusione a priori della possibilità che il residente - o dimorante - cittadino di uno Stato terzo sconti in Italia la pena irrogatagli da un altro Stato membro dell'Unione rischia di reciderne la conservazione dei legami familiari durante la fase di esecuzione della pena detentiva, precludendogli al contempo l'accesso e la permanenza in quella comunità di affetti e di reciproca solidarietà e collaborazione che potrebbero agevolarne il reinserimento sociale.
Non appare dunque manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 69 del 2005, art. 18-bis, comma 1, lett. c), come introdotto dalla L. 4 ottobre 2019, n. 117, art. 6, comma 5, lett. b), nella parte in cui, non prevedendo il rifiuto facoltativo della consegna del cittadino di uno Stato terzo stabilmente residente o dimorante nel territorio italiano, non ne garantisce il diritto al rispetto della vita familiare, per contrasto con l'art. 2 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, quest'ultimo in relazione all'art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e all'art. 17, par. 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, nonchè con l'art. 11 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, in relazione all'art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.
9. Sulla base delle considerazioni dianzi esposte si impone, conclusivamente, la rimessione delle su prospettate questioni di legittimità alla Corte costituzionale per la sua decisione ai sensi della Legge Costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, art. 1 e L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23.
 
P.Q.M.
 
Dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3 e 11 Cost., art. 27 Cost., comma 3, art. 117 Cost., comma 1, la questione di legittimità costituzionale della L. 22 aprile 2005, n. 69, art. 18-bis, come introdotto dalla L. 4 ottobre 2019, n. 117, art. 6, comma 5, lett. b), nella parte in cui non prevede il rifiuto facoltativo della consegna del cittadino di uno Stato non membro dell'Unione Europea che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, sempre che la Corte di appello disponga che la pena o la misura di sicurezza irrogata nei suoi confronti dall'autorità giudiziaria di uno Stato membro dell'Unione Europea sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno.
Sospende il giudizio, ordinando che, a cura della Cancelleria, siano trasmessi gli atti alla Corte costituzionale.
Ordina alla Cancelleria di notificare la presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei Ministri e di darne comunicazione ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
Manda alla Cancelleria per la comunicazione prevista dalla L. n. 69 del 2005, art. 22, comma 5.
Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2020.
Depositato in Cancelleria il 19 marzo 2020