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Redazione della bozza dell'atto giudiziale è reato se .. (Cass. 1931/21)

8 gennaio 2021, Cassazione penale

Costituisce esercizio abusivo della professione legale lo svolgimento dell'attività riservata al professionista iscritto nell'albo degli avvocati, anche nel caso in cui l'agente, abbia fatto firmare l'atto tipico, da lui predisposto, da un legale abilitato: diversamente opinando, risulterebbe vanificato il principio della generale riserva riferita alla professione in quanto tale, con correlativo tradimento dell'affidamento dei terzi, laddove fosse ritenuto sufficiente un siffatto banale escamotage per consentire ad un soggetto non abilitato di operare in un settore attribuito in via esclusiva a una determinata professione.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

(ud. 16/12/2020) 18-01-2021, n. 1931

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMMINO Matilde - Presidente -

Dott. MANTOVANO Alfredo - Consigliere -

Dott. MESSINI D'AGOSTINI Piero - rel. Consigliere -

Dott. PAZIENZA Vittorio - Consigliere -

Dott. MONACO Marco M. - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

B.A., nato il (OMISSIS);

avverso la sentenza del 19/06/2018 della CORTE APPELLO DI VENEZIA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere MESSINI D'AGOSTINI Piero;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale SECCIA Domenico, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso;

udito il difensore avv. Marco PIETROPOLLI, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso e per l'annullamento senza rinvio per essere ora i reati estinti per prescrizione.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza emessa in data 19/6/2018 la Corte di appello di Venezia per quanto ora rileva - confermava la decisione con la quale il Tribunale di Venezia aveva condannato B.A. per esercizio abusivo della professione di avvocato (in relazione ad una unica condotta inerente al recupero di un credito) e per due truffe aggravate, commesse in danno delle medesime persone offese, e per l'effetto rideterminava la pena in undici mesi di reclusione e 700,00 Euro di multa, dichiarati estinti per prescrizione i residui reati.

2. Ha proposto ricorso B.A., a mezzo del proprio difensore, chiedendo l'annullamento della sentenza sulla base di tre motivi, inerenti all'affermazione di responsabilità per i tre diversi reati.

2.1. Reato sub A), di esercizio abusivo della professione.

Il ricorrente contesta la erronea applicazione della legge penale (art. 348 c.p. e la L. n. 247 del 2012, art. 2, commi 5 e 6), poichè l'imputato non ha posto in essere alcun atto tipico della professione forense e, durante il periodo di sospensione, non ha esercitato attività professionale tipica in un contesto di continuità, sistematicità e organizzazione.

In quanto norme di principio, le suddette disposizioni previste dalla legge speciale vanno applicate anche nel caso di specie, anche se entrate in vigore successivamente all'epoca dei fatti.

Nel caso del decreto ingiuntivo richiesto nell'interesse della società Bastamianto, l'attività di redazione dell'atto giudiziario e di gestione della pratica sotto il profilo processuale era stata curata dall'avv. M., che pure aveva tenuto i rapporti con la controparte, come dichiarato dal legale nella deposizione resa in dibattimento.

In ordine allo stesso capo d'imputazione, la difesa censura la motivazione della sentenza, mancante e contraddittoria, in quanto si è limitata a riportare le dichiarazioni dei testi Mu. e M., richiamate dal primo giudice ed irrilevanti ai fini della configurabilità del reato, omettendo di valutare quelle rese dai medesimi testi e dal ricorrente, evidenziate nell'atto di appello, dalle quali è emerso anche che il decreto ingiuntivo è stato riveduto e corretto dall'avv. M.. A fronte di questo dato certo, vi sono tre versioni divergenti sulla redazione dell'atto (quelle del praticante Dott. Mu., dell'avv. M. e dell'imputato), cosicchè erroneamente i giudici di merito hanno affermato che certamente fu il ricorrente a redigere il decreto ingiuntivo.

2.2. Reato sub C), di truffa aggravata commesso in danno della società Bastamianto, in relazione al pagamento di somme inerenti alla richiesta ed ottenimento del suddetto decreto ingiuntivo.

La difesa deduce i vizi di erronea applicazione della legge penale (art. 640 c.p.) e omessa motivazione, non avendo i giudici di merito considerato la insussistenza dell'ingiusto profitto con altrui danno.

Il ricorrente deduce che il pagamento della somma di 370 Euro, a fronte del quale fu rilasciata regolare fattura, era stato richiesto a titolo di fondo spese per attivare la procedura monitoria, restando irrilevanti, ai fini della consumazione del reato, le successive rassicurazioni fornite in ordine all'inizio della procedura esecutiva, al pari della mancata registrazione del decreto ingiuntivo, che configura un semplice inadempimento civile.

2.3 Reato sub D), di truffa aggravata commesso in danno della società Bastamianto, in relazione alla ricezione di un assegno dell'importo di 1.934,00 Euro, consegnato per il pagamento di una inesistente sanzione, in ipotesi irrogata dall'Università di Ferrara.

Anche per questo reato il ricorrente contesta la erronea applicazione della legge penale (art. 640 c.p.) e l'omessa motivazione, non avendo il giudice di appello valutato le dichiarazioni rese in sede di esame dall'imputato, dalle quali è emerso che detta somma non costituiva "provento di una truffa ma la richiesta di un legittimo compenso per l'attività professionale stragiudiziale svolta, a stesso dire del giudice, con esito favorevole".

Motivi della decisione
1. Il ricorso è inammissibile per la manifesta infondatezza dei motivi proposti, che sono nella sostanza reiterativi delle doglianze avanzate con l'atto di appello, disattese dalla Corte territoriale con adeguata motivazione.

2. Quanto al primo motivo, inerente al reato ex art. 348 c.p., la difesa, pur invocando un difetto di motivazione, ha chiaramente sollecitato un sindacato sul merito delle valutazioni effettuate, invocando una rilettura delle prove poste a fondamento della decisione impugnata.

Tuttavia, secondo il diritto vivente, è preclusa alla Corte di cassazione "la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch'essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o comunque di attendibilità delle fonti di prova" (così Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv. 273217; in senso conforme, ex plurimis, v. Sez. 5, n. 15041 del 24/10/2018, dep. 2019, Battaglia, Rv. 275100, in motivazione; Sez. 4, n. 1219 del 14/09/2017, dep. 2018, Colomberotto, Rv. 271702; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269217; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482; da ultimo cfr. Sez. 2, n. 26009 del 09/10/2020, Furci, non mass.).

La valutazione dei dati probatori, il giudizio sull'attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze processuali, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento (Sez. 2, n. 50710 del 06/11/2019, Bottoli, in motivazione; Sez. 5, n. 8188 del 04/12/2017, dep. 2018, Grancini, Rv. 272406, in motivazione; Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, D'Ippedico, Rv. 271623; Sez. 2, n. 7667 del 29/01/2015, Cammarota, Rv. 262575; Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011, Tosto, Rv. 250362; da ultimo v. Sez. 2, n. 34051 del 24/11/2020, Pavone, non mass.).

I giudici di merito hanno privilegiato le dichiarazioni rese dai due soci della B ( C.F. e G.G.), dal praticante Mu.Ja. e dall'avv. M.V. rispetto a quelle dell'imputato, evidenziando con adeguata motivazione il nucleo centrale delle citate deposizioni, alla luce delle quali è emerso con certezza che sia i soci che conferirono al ricorrente l'incarico per la presentazione del ricorso per decreto ingiuntivo sia l'avv. M. non erano al corrente che in quel periodo B.A. fosse sospeso dalla professione.

E' altrettanto pacifico che il rapporto con i clienti per la presentazione del ricorso per decreto ingiuntivo fu gestito interamente dal ricorrente, che fece firmare ai clienti il mandato a margine del ricorso quando non vi era indicato il nominativo dell'avv. M., come riferito dalla teste G. (pag. 4 della sentenza di primo grado).

I giudici di merito non hanno omesso e tantomeno travisato le prove laddove hanno concluso che il ricorso fu predisposto dall'imputato, avendo valorizzato in primo luogo le dichiarazioni dei testi C. e G., obliterate dalla difesa.

Inoltre, la Corte di appello ha osservato (pag. 8) che l'avv. M. ricevette la bozza del ricorso, senza avere in alcun modo partecipato alla redazione della stessa, conclusione del tutto conforme alle dichiarazioni della teste, allegate al ricorso (pag. 16 delle trascrizioni: "non l'ho predisposto io...ho approvato il contenuto").

Nel momento in cui la teste riferì che l'atto era stato predisposto dallo "Studio" (pag. 15), come ricordato nel ricorso, è del tutto evidente che si riferisse allo "Studio B.", come chiarito immediatamente dopo ("non so se materialmente Mu.Ja. si occupasse di fare i decreti ingiuntivi piuttosto che l'Avvocato B." - pag. 16).

Il praticante, però, come ricordato nelle sentenze di merito, per conto del ricorrente si recò soltanto presso la sede della società e successivamente presso lo studio dell'avv. M.; il Dott. Mu. ritenne che fosse stata questa ultima a preparare il ricorso sulla base di una mera deduzione ("non l'ho visto redigere, però vedo la carta intestata e insomma mi pare di riconoscere anche lo stile insomma" - pag. 13 delle trascrizioni, riportate anche dalla difesa).

E' del tutto incensurabile, dunque, la conforme valutazione dei giudici di merito in ordine al fatto che il ricorso per decreto ingiuntivo fu predisposto da B.A., il quale aveva l'esclusivo contatto con i clienti che gli avevano conferito l'incarico, ignari della sospensione e del coinvolgimento dell'avv. M. (agli stessi ignota).

La rilevanza penale di detta condotta non sarebbe inficiata neppure dalla circostanza, riferita dal solo imputato, che la bozza del ricorso sarebbe stata preparata da Mu., praticante dello studio che si atteneva alle direttive di Bo, privo di idoneo titolo: in ogni caso, quella bozza sarebbe stata corretta, rivista e fatta propria dal ricorrente, che poi la inviò alla società e quindi all'avv. M., limitatasi ad approvarne il contenuto (e pure la firma apocrifa).

Con la redazione del ricorso per decreto ingiuntivo il ricorrente, dunque, ha compiuto un atto tipico ed esclusivo riservato alla professione forense, per nulla riconducibile ad un'attività di consulenza legale, che - in base anche alle disposizioni della L. n. 247 del 2012 - esula dagli atti tipici della professione se non svolta in modo continuativo.

In proposito condivide il Collegio il principio espresso da questa Corte in una fattispecie analoga a quella di cui si tratta, secondo il quale costituisce esercizio abusivo della professione legale lo svolgimento dell'attività riservata al professionista iscritto nell'albo degli avvocati, anche nel caso in cui l'agente, abbia fatto firmare l'atto tipico, da lui predisposto, da un legale abilitato: diversamente opinando, risulterebbe vanificato "il principio della generale riserva riferita alla professione in quanto tale, con correlativo tradimento dell'affidamento dei terzi, laddove fosse ritenuto sufficiente un siffatto banale escamotage per consentire ad un soggetto non abilitato di operare in un settore attribuito in via esclusiva a una determinata professione" (così Sez. 6, n. 52888 del 07/10/2016, Ferrarini, Rv. 268581; da ultimo, nello stesso senso, v. Sez. 7, n. 29492 del 09/09/2020, emessa nei confronti dello stesso odierno ricorrente).

Nel contempo, i giudici di merito hanno correttamente ritenuto la rilevanza penale di quel solo atto, in quanto, secondo il diritto vivente, il delitto previsto dall'art. 348 c.p., avendo natura istantanea, non esige un'attività continuativa od organizzata, ma si perfeziona con il compimento anche di un solo atto tipico o proprio della professione abusivamente esercitata (Sez. 2, n. 26113 del 07/05/2019, Conoscenti, Rv. 276657; Sez. 5, n. 24283 del 26/02/2015, Bachetti; Rv. 263905; Sez. 6, n. 11493 del 21/10/2013, dep. 2014, Tosto, Rv. 259490; Sez. 6, n. 30068 del 02/07/2012, Pinori, Rv. 253272; Sez. 2, n. 43328 del 15/11/2011, Giorgini, Rv. 251376).

4. E' manifestamente infondato anche il motivo riguardante la truffa ascritta all'imputato al capo C), strettamente connessa alla vicenda sino ad ora esaminata.

Il ricorrente, infatti, non riferì ai soci della B di essere stato sospeso dalla professione e solo questo silenzio maliziosamente serbato su una circostanza decisiva gli consentì di ricevere dagli stessi l'incarico per il recupero di un credito della società e per la presentazione di un ricorso per decreto ingiuntivo: per queste attività B. conseguì il profitto, costituito dal compenso ricevuto, al quale non avrebbe avuto diritto, con pari danno per le persone offese, che pure furono indotte a consegnargli una somma di denaro per la registrazione del decreto, mai avvenuta.

5. Privo di ogni pregio è il motivo inerente alla truffa contestata al capo D).

La sentenza impugnata ha evidenziato che le persone offese C. e G., non costituitesi parti civili, hanno affermato che B. ottenne fraudolentemente la consegna dell'assegno dell'importo di 1.934,00 Euro, pari a quello di un'asserita sanzione pecuniaria irrogata dall'Università di Ferrara, in realtà inesistente.

Entrambi i giudici, con adeguata motivazione, hanno espresso un giudizio di attendibilità delle suddette dichiarazioni, accertando l'assenza di elementi che facessero dubitare della loro obiettività e della credibilità delle persone offese, peraltro non parificabili ai riscontri esterni di cui all'art. 192 c.p.p., comma 3, (cfr., ex plurimis, Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell'Arte, Rv. 253214; Sez. 3, n. 10378 del 08/01/2020, M., Rv. 278540, in motivazione; Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, S., Rv. 275312; Sez. 2, n. 41751 del 04/07/2018, Capraro, Rv. 274489; Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, Manzini, Rv. 265104).

Invero neppure la difesa ha contestato detto giudizio, essendosi limitata a dedurre che la Corte di appello avrebbe omesso di valutare le dichiarazioni rese da B. nel corso dell'esame, circostanza però contrastante con quanto risulta della sentenza impugnata, nella quale si osserva che "la versione dell'imputato, secondo la quale avrebbe legittimamente trattenuto la somma ivi in contestazione a titolo di compenso per l'attività svolto per B, è infatti recisamente smentita dalle serie di convergenti indicazioni desumibili dalle testimonianze della G. e del C.".

Trattasi di valutazione incensurabile, avendo i giudici di merito, con adeguata motivazione, dato credito alle dichiarazioni delle persone offese e non a quelle dell'imputato, peraltro assai generiche e confuse.

5. All'inammissibilità dell'impugnazione proposta segue, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonchè, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di Euro duemila, così equitativamente fissata.

L'inammissibilità del ricorso per cassazione non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude pertanto la possibilità di rilevare e dichiarare ora l'estinzione del reato per prescrizione a norma dell'art. 129 c.p.p., come statuito dalle Sezioni unite della Suprema Corte in numerose pronunce (n. 20208 del 25/10/2018, dep. 2019, Schettino, Rv. 275319, in motivazione; n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli, Rv. 268822; n. 6903 del 27/5/2016, dep. 2017, Aiello, Rv. 268966; n. 26102 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266818; n. 23428 del 22/03/2005, Bracale, Rv. 231164; n. 33542 del 27/06/2001, Cavalera, Rv. 219531; n. 32 del 22/11/2000, D.L. n., Rv. 217266; da ultimo v. sent. n. 12778 del 27/02/2020, S., Rv. 278869, in motivazione).

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2021