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Reato prescrivere medicine da banco per naturopata (Cass. 16626/15)

4 maggio 2005, Cassazione penale

Il chiropratico, il naturopata e l'iridologo sono liberi di svolgere la loro attività ma qualificandosi come tali, e non possono ingenerare nel pubblico l'opinione che essi siano dei medici e senza esercitare competenze che spettano soltanto a chi è laureato in medicina e chirurgia.

Reato per chi non è medico compiere atti propri e tipici della professione medica, rilasciare ricette e prescrivendo farmaci, e che tiene tale comportamento in un contesto organizzativo ed operativo tale da accreditare l'opinione che egli fosse in possesso di una qualificazione professionale in campo medico che in realtà non possiede.

Il rilascio di ricette e la prescrizione di farmaci non perdono il loro carattere "tipico" e "riservato" agli esercenti la professione medica per il solo fatto che il medicinale prescritto rientri tra quelli liberamente venduti in farmacia giacchè la "prescrizione" di un medicinale da parte di un terzo che si presenta dotato di particolari competenze mediche è destinata comunque ad influire sulle modalità di assunzione del farmaco, sulla durata di tale assunzione, sulla interpretazione da parte del fruitore di eventuali reazioni (anche negative) al farmaco stesso ed in definitiva sulla percezione della natura e dei risultati della cura realizzata attraverso il medicinale.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

(ud. 04/04/2005) 04-05-2005, n. 16626

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROMANO Francesco Presidente

Dott. AMBROSINI Giangiulio Consigliere

Dott. MARTELLA Ilario Salvatore Consigliere

Dott. IPPOLITO Francesco Consigliere

Dott. ROSSI Agnello Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Di.LO.LU.;

avverso la sentenza in data 9.12.2003 della Corte di appello di Genova;

Visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso;

Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott. Agnello Rossi;

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MELONI Vittorio che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1. L.DiLO ricorre per Cassazione avverso la sentenza in data 9.12.2003 della Corte di appello di Genova che ha confermato la sentenza del Tribunale di Savona del 31.5.2001 che lo aveva condannato alla pena di mesi tre di reclusione per il reato di cui all'art. 348 c.p. per aver abusivamente esercitato la professione di medico senza essere iscritto ad alcun albo provinciale dei medici chirurghi e degli odontoiatri in quanto privo della relativa abilitazione dello Stato.

2. Dopo aver premesso che il DiLO esercita l'attività di iridologo e di naturopata, che non si è mai arrogato il titolo di dottore e tanto meno quello di dottore in medicina e che la sua attività si inserisce nel filone della ed. medicina complementare o alternativa e dopo aver svolto considerazioni preliminari sulla natura e sulla qualificazione giuridica della iridologia e naturopatia, la difesa del ricorrente svolge sette motivi di ricorso nei confronti dell'impugnata sentenza.

3. Il primo motivo concerne la violazione dell'art. 606 lett. b) c.p.p. per aver erroneamente ritenuto la gravata sentenza, in erronea applicazione dell'art. 348 c.p. e delle normative giuridiche di riferimento, che l'attività posta in essere dall'imputato integrasse la violazione della suddetta norma incriminatrice quando, al contrario, l'attività medesima era lecita e consentita, non sconfinante nell'arte medica e neppure disciplinata dall'ordinamento giuridico o dal medesimo vietata.

4. Il secondo motivo di ricorso attiene alla violazione dell'art. 606 lett. b) c.p.p. per aver erroneamente ritenuto la gravata sentenza, in erronea applicazione dell'art. 348 c.p. e delle normative giuridiche di riferimento, che l'attività posta in essere dall'imputato integrasse la violazione della suddetta norma incriminatrice e non invece (a tutto voler concedere) la violazione dell'art. 498 c.p..

5. Il terzo motivo del ricorso è relativo alla violazione dell'art. 606 lett. b) c.p.p. per aver erroneamente ritenuto la gravata sentenza, in erronea applicazione dell'art. 348 c.p. e delle normative giuridiche di riferimento, che l'imputato non potesse fregiarsi della dizione di dottore laddove tale dizione è solo la traduzione in italiano - lingua ufficiale della Repubblica di San Marino, luogo di acquisizione dei titoli - dell'espressione statunitense di "doctor". 6. Il quarto motivo di ricorso concerne la violazione dell'art. 606 lett. b) c.p.p. per aver erroneamente ritenuto la gravata sentenza, in erronea applicazione dell'art. 348 c.p. e delle normative giuridiche di riferimento, che l'iridologia potesse essere ritenuta come professione applicante principi e metodologie appartenenti in via esclusiva alla scienza medica, così sconfinando nell'area delle ed professioni protette.

7. Il quinto motivo di ricorso attiene alla violazione dell'art. 606 lett. e) c.p.p. per aver la gravata sentenza illogicamente ritenuto che l'imputato non potesse consigliare a terzi l'assunzione di farmaci a vendita libera.

8. Il sesto motivo di ricorso si riferisce alla violazione dell'art. 606 lett. e) c.p.p. per aver la gravata sentenza illogicamente ritenuto che l'imputato non potesse svolgere la propria attività se non esplicitamente qualificato a terzi come iridologo, mentre poi in motivazione viene ricordato che tale qualifica era stata acquisita agli atti.

9. Il settimo ed ultimo motivo di ricorso è relativo alla violazione dell'art. 606 lett. d) ed e) c.p.p. per avere la gravata sentenza rigettato - senza motivazione alcuna - l'assunzione di una prova decisiva consistente nella richiesta dimostrazione dell'estraneità dell'imputato alla inserzione del proprio nominativo sotto la voce "medici"negli elenchi telefonici.

10. A corredo e sostegno delle suindicate censure la difesa del ricorrente adduce atti amministrativi, menziona pronunce della Corte costituzionale (ord. n. 149 del 1998) e dei giudici amministrativi e penali che, a suo avviso, confortano i suoi assunti e contraddicono l'impostazione adottata dalla Corte di appello genovese.

Inoltre la difesa - dopo aver rilevato che la Regione Piemonte ha già disciplinato l'esercizio delle medicine alternative cosi garantendo pluralismo scientifico e libertà di scelta del paziente - afferma testualmente che "una eventuale .... sentenza di conferma del deciso di prime e seconde cure creerebbe una problematica di legittimità costituzionale in relazione all'art. 3 della Costituzione, eccezione che questa difesa, subordinatamente alle richieste infrascritte, formalmente eleva in questa sede".

Infine la difesa trae le sue conclusioni finali negando l'applicabilità alla fattispecie in esame della norma incriminatrice dettata dall'art. 348 c.p..

11. E' stata depositata memoria difensiva nell'interesse della parte civile ReFi nella sua qualità di presidente dell'ordine dei medici chirurghi ed odontoiatri della Provincia di Savona. Nella memoria si sostiene che nel caso in esame non è in questione la possibilità di esercitare le pratiche della c.d. medicina alternativa ma il fatto che il DiLo, pur non essendo laureato in medicina, abbia compiuto atti tipici della professione medica (emettendo ricette e prescrivendo farmaci) ed abbia tenuto un insieme di comportamenti idonei ad ingenerare nel pubblico l'opinione di essere un medico (in ragione del contenuto della targa esposta nel luogo di esercizio della sua attività, della presentazione di questo luogo come "ambulatorio", della utilizzazione della dizione di "dottore", della inserzione del suo nominativo negli elenchi telefonici dei medici della Provincia di Savona contenuto nelle "pagine gialle" e nelle pagine "utili").

La parte civile ha pertanto chiesto il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione

1. Con i primi quattro motivi di ricorso il Di Lorenzo deduce, sotto diversi profili, che la Corte territoriale è incorsa in errore nel ritenere applicabile nei suoi confronti la norma incriminatrice dettata dall'art. 348 del codice penale, e sostiene in particolare che il giudice di appello ha errato: a) nel considerare l'iridologia come professione applicante principi e metodologie appartenenti in via esclusiva alla scienza medica;

b) nel non tener conto del fatto che egli ha svolto una attività lecita e consentita, non sconfinante nell'arte medica e neppure disciplinata dall'ordinamento giuridico o dal medesimo vietata;

c) nel ritenere che egli non poteva fregiarsi della dizione di dottore laddove tale dizione è solo la traduzione in italiano - lingua ufficiale della Repubblica di San Marino, luogo di acquisizione dei titoli - dell'espressione statunitense di "doctor";

d) nel non considerare che l'attività da lui posta in essere, a tutto voler concedere, integrava solo la violazione dell'art. 498 c.p. e non quella dell'art. 348 c.p..

2. Le suddette censure non colgono nel segno ove si consideri che la decisione impugnata ha avuto cura di chiarire che nella fattispecie "non è in questione la possibilità di esercitare le pratiche della c.d. medicina alternativa" ed ha poi soggiunto che "il chiropratico, il naturopata e l'iridologo sono liberi di svolgere la loro attività ma qualificandosi come tali, in modo ...... da non ingenerare nel pubblico l'opinione che essi siano dei medici e, soprattutto ...... senza esercitare, assolutamente, competenze che spettano soltanto a chi è laureato in medicina e chirurgia".

La ritenuta applicabilità dell'art. 348 c.p. e la conseguente pronuncia di condanna dell'imputato non sono dunque fondate su di una generica ed aprioristica preclusione dell'esercizio di particolari pratiche a soggetti che non sono in possesso della abilitazione all'esercizio della professione medica ma sul fatto che il DiLO ha compiuto atti propri e tipici della professione medica, rilasciando ricette e prescrivendo farmaci, e che ha tenuto questo comportamento in un contesto organizzativo ed operativo tale da accreditare l'opinione che egli fosse in possesso di una qualificazione professionale in campo medico che in realtà non possedeva.

Al riguardo va considerato che il rilascio di ricette e la prescrizione di farmaci non perdono il loro carattere "tipico" e "riservato" agli esercenti la professione medica per il solo fatto che il medicinale prescritto rientri tra quelli liberamente venduti in farmacia giacchè la "prescrizione" di un medicinale da parte di un terzo che si presenta dotato di particolari competenze mediche è destinata comunque ad influire sulle modalità di assunzione del farmaco, sulla durata di tale assunzione, sulla interpretazione da parte del fruitore di eventuali reazioni (anche negative) al farmaco stesso ed in definitiva sulla percezione della natura e dei risultati della cura realizzata attraverso il medicinale.

Inoltre va messo in luce che le attività tipiche e riservate di cui si è detto sono state compiute in un contesto idoneo a far ritenere che l'imputato fosse in possesso di una particolare qualificazione scientifica e medica. E'stato infatti accertato che questi ha esposto all'ingresso del luogo di esercizio della sua attività una targa con la dicitura "Dott. DiLOLu, iridologo, naturopata, associato A.SS.RI, ricercatore di microsemeiotica oftalmica. Ambulatorio di iridologia", che ha usato per la prescrizione farmacologica carta intestata recante la menzione "Dott." e che ha apposto, prima della prescrizione, la lettera "R" (normalmente usata come abbreviazione del termine di Recipe nelle prescrizioni di medicinali).

Sulla base di queste considerazioni sono da ritenere inconferenti i due motivi di ricorso con i quali si lamenta l'errata valutazione, da parte dei giudici di merito, della natura della iridologia e si rivendica la libertà del suo esercizio.

Del pari sono poi da ritenere infondati i due motivi con i quali si sostiene la legittimità dell'uso del titolo di dottore da parte del DiLo e, comunque, la riconducibilità del suo comportamento alla diversa fattispecie di cui all'art. 498 c.p. (usurpazione di titoli).

E' evidente, infatti, che nel caso in esame si è di fronte all'esercizio di una "attività" e non alla diversa ipotesi della mera "assunzione arbitraria" dei segni distintivi di una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione, che è contemplata nell'art. 498 c.p..

3. Passando ad esaminare il quinto ed il sesto motivo di ricorso con i quali si lamenta la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata il collegio ricorda che la giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente analizzato e descritto le coordinate ed i limiti entro cui deve svolgersi il controllo sulla motivazione dei provvedimenti giudiziali (cfr. al riguardo, tra le sole pronunce delle Sezioni Unite, Cass. Sez. Un. sent. n. 12 del 23.6.2000; Cass. Sez. Un. sent. n. 6402 del 2.7.1997; Cass. Sez. Un. sent n. 930 del 29.1.1996).

In particolare è stato più volte chiarito che il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato è - per espressa disposizione legislativa - rigorosamente circoscritto a verificare che la pronuncia sia sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell'applicazione delle regole della logica, non fondate su dati contrastanti con il "senso della realtà" degli appartenenti alla collettività ed infine esenti da vistose ed insormontabili incongruenze tra di loro.

In altri termini - in aderenza alla previsione normativa che attribuisce rilievo solo al vizio della motivazione che risulti "dal testo del provvedimento impugnato" - il controllo di legittimità si appunta esclusivamente sulla coerenza strutturale "interna" della decisione, di cui saggia la oggettiva "tenuta" sotto il profilo logico-argomentativo e, tramite questo controllo, anche l'accettabilità da parte di un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento e da osservatori disinteressati della vicenda processuale.

Al giudice di legittimità è invece preclusa - in sede di controllo sulla motivazione - la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perchè ritenuti maggiormente e plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa). Queste operazioni trasformerebbero infatti la Corte nell'ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard minimo di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l'iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.

Esaminata in quest'ottica la decisione impugnata si sottrae alle censure che le sono state mosse perchè il giudice del merito - con motivazione esente da vizi logici ed interne contraddizioni - ha rappresentato le ragioni che l'hanno indotto a ritenere la responsabilità del ricorrente per il reato di cui all'art. 348 c.p. sottolineando, da un lato, che l'imputato ha posto in essere attività tipiche e riservate agli esercenti la professione medica nel momento in cui ha rilasciato ricette e prescritto farmaci e, dall'altro, che la qualifica di iridologo è stata presentata in un contesto idoneo ad ingenerare l'opinione che il titolare di tale qualifica fosse un medico.

4. Egualmente infondato è il settimo ed ultimo motivo di ricorso con il quale ci si duole della violazione dell'art. 606 lett. d) ed e) c.p.p. sul rilievo che la gravata sentenza ha rigettato - senza motivazione alcuna - l'assunzione di una prova decisiva consistente nella richiesta dimostrazione dell'estraneità dell'imputato alla inserzione del proprio nominativo sotto la voce "medici" negli elenchi telefonici.

In proposito il collegio osserva che - contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente - la Corte di appello non ha "omesso" di pronunciarsi sulla richiesta istruttoria ma l'ha rigettata ritenendo inverosimile la tesi difensiva dell'estraneità dell'imputato alla inserzione e comunque inutile e non necessaria la prova richiesta.

Questa Corte ha già avuto modo di affermare che il vizio denunciato dal ricorrente si configura come una sorta di error in procedendo che si verifica solo nel caso in cui l'assunzione della prova, richiesta e non effettuata, avrebbe potuto determinare una diversa valutazione da parte del giudice (cfr. ex plurims, Cass., 5^, sent. n. 3549 del 9.2.1999).

In quest'ottica il collegio deve escludere che i fatti che costituiscono l'oggetto della prova richiesta e non ammessa fossero idonei ad inficiare i dati posti a base del convincimento del giudice di merito in quanto tale convincimento si è fondato sullo svolgimento da parte del DiLo di attività tipiche della professione medica e sulle modalità del suo rapporto con la clientela e non sul carattere volontario della inserzione del suo nominativo negli elenchi dei medici della Provincia di Savona contenuti nelle pagine gialle e nelle pagine utili.

5. Va infine ricordato che la difesa del ricorrente - dopo aver rilevato che la Regione Piemonte ha già disciplinato l'esercizio delle medicine alternative così garantendo pluralismo scientifico e libertà di scelta del paziente - ha affermato testualmente che "una eventuale .... sentenza di conferma del deciso di prime e seconde cure creerebbe una problematica di legittimità costituzionale in relazione all'art. 3 della Costituzione, eccezione che questa difesa, subordinatamente alle richieste infrascritte, formalmente eleva in questa sede".

Nonostante che il ricorrente abbia attribuito alla eccezione di illegittimità costituzionale un carattere "formale" si osserva che essa - in ragione della sua assoluta genericità - non può costituire oggetto di valutazione e di una specifica delibazione da parte di questa Corte in merito alla sussistenza o meno dei requisiti della rilevanza e della non manifesta infondatezza.

Il richiamo ad una "problematica di legittimità costituzionale in relazione all'art. 3 della Costituzione" non consente infatti di individuare con la necessaria chiarezza nè quale sia la norma della cui legittimità costituzionale il ricorrente dubita nè quale sia il vulnus asseritamente arrecato all'art. 3 della Costituzione.

Il ricorso va pertanto respinto ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 4 aprile 2005.

Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2005