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Consenso a rapporto sessuale per paura: è violenza (Cass. 3224/21)

27 gennaio 2021, Cassazione penale

Integra il reato di violenza sessuale nella forma cd. "per costrizione" qualsiasi forma di costringimento psico-fisico idoneo ad incidere sull’altrui libertà di autodeterminazione, ivi compresa l’intimidazione psicologica che sia in grado di provocare la coazione della vittima a subire gli atti sessuali, a nulla rilevando l’esistenza tra l’agente e il soggetto passivo di un rapporto affettivo, coniugale o paraconiugale, atteso che non esiste all’interno di dette relazioni il potere di imporre od esigere una prestazione sessuale.

Il contesto di costante sopraffazione e umiliazione della donna rende  del tutto irrilevante l’eventuale apparente accondiscendenza al rapporto prestata da quest’ultima alla consumazione di un rapporto sessuale. 

Non assume necessariamente valore scriminante il fatto che la vittima non si opponga palesemente ai rapporti sessuali e li subisca passivamente quando è provato che l’autore, per le violenze e minacce precedenti poste ripetutamente in essere, aveva la consapevolezza del rifiuto implicito agli atti sessuali; nè rileva, per le medesime ragioni, l’eventuale espressione manifesta del consenso della vittima allorquando è dimostrato che la sua volontà sia stata coartata dal timore delle conseguenze ben più pregiudizievoli che ai suoi occhi sarebbero potute scaturite dal rifiuto esplicito all’atto sessuale impostole, quale forma di violenza indiretta.

Ai fini della sussistenza del reato di violenza sessuale è sufficiente che la condotta tenuta dall’agente denoti il requisito soggettivo dell’intenzione di raggiungere l’appagamento dei propri istinti sessuali e quello oggettivo dell’idoneità a violare la libertà di autodeterminazione della vittima, tale cioè da costringerla, attraverso condotte minacciose o violente e che la vittima percepisca come tali, a fare ciò che altrimenti non avrebbe fatto.

 

Corte di Cassazione, sez. III Penale

sentenza 23 ottobre 2020 – 27 gennaio 2021, n. 3224
Presidente Aceto – Relatore Andronio

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 28 marzo 2019, il Tribunale di Roma ha condannato l’imputato alla pena di anni 6 e mesi 6 di reclusione per il reato di cui: al capo a) dell’imputazione (artt. 81, 581 e 612 c.p.) perché sottoponeva H.D. a continue vessazioni fisiche e psicologiche procurandole lesioni e, in particolare, nel mese di (OMISSIS) , stringendole le mani al collo; il (OMISSIS) , rivolgendole epiteti ingiuriosi e percuotendola; nel mese di (OMISSIS) , percuotendola sul viso fino a procurarle un rigonfiamento dell’occhio sinistro; il (OMISSIS) , colpendola con un pugno, nonché commettendo i reati di cui ai seguenti capi b) e c); al capo b) (art. 609-bis c.p., art. 609-ter c.p., comma 1, n. 5-quater, e art. 61 c.p., nn. 2 e 5) perché, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, al fine di compiere il reato di cui al capo a), costringeva con violenza e minaccia H.D. a subire atti sessuali e, segnatamente, il (OMISSIS) , compiva sulla medesima atti sessuali non consenzienti e tentava di introdurle una penna nella vagina e di compiere un rapporto anale, senza tuttavia riuscirci perché la vittima si dimenava; il (OMISSIS) , dopo aver ingenerato nella vittima un grave e fondato timore di una sua reazione violenza in caso di rifiuto, la induceva a subire un rapporto sessuale completo; al capo c) (art. 61 c.p., nn. 2 e 5, artt. 582, 585, in relazione all’art. 576,c.p.), perché, al fine di compiere il reato di cui al capo a), percuotendo H.D. con calci e pugni in tutto il corpo e afferrandola per il collo quasi fino al soffocamento, le cagionava lesioni personali consistite in contusioni multiple del tronco e degli arti, perforazione del timpano dell’orecchio sinistro e sindrome ansioso-reattiva, giudicate guaribili in 10 giorni.

Con sentenza del 16 dicembre 2019, la Corte d’appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Roma, ha riqualificato la condotta contestata al capo b) dell’imputazione, in relazione all’episodio del (OMISSIS) , come delitto tentato e, per l’effetto, ha rideterminato la pena inflitta all’imputato in anni 6 e mesi 4 di reclusione, confermando nel resto la sentenza impugnata.

2. Avverso la sentenza d’appello l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento nella parte in cui ha affermato la responsabilità del medesimo per il reato di violenza sessuale di cui al capo b) della rubrica.

2.1. Con un primo motivo di doglianza, si lamentano vizi della motivazione in ordine alla configurazione dell’elemento soggettivo del reato ex art. 609-bis c.p., nonché il travisamento delle dichiarazioni della persona offesa con riferimento all’episodio di violenza sessuale consumatosi il (OMISSIS) . Si argomenta che la Corte d’appello, nonostante le specifiche sollecitazioni della difesa, avrebbe omesso di valutare le dichiarazioni rilasciate dalla persona offesa nel corso dell’esame dibattimentale del 10 settembre 2018, nelle quali la stessa aveva ripetutamente riferito di non essersi opposta al rapporto sessuale del (OMISSIS) , e anzi di avere finto di provare piacere nel corso dello stesso. Tale ammissione dimostrerebbe il consenso, quantomeno simulato, prestato dalla vittima al compimento dell’atto sessuale, frutto di una forte capacità di autodeterminazione della stessa, incompatibile con qualunque forma di abuso. La difesa richiama orientamenti giurisprudenziali secondo i quali può sussistere il dubbio sulla ricorrenza dolo del reato di violenza sessuale qualora l’errore sull’esistenza del consenso prestato dal soggetto passivo si fondi sul contenuto espressivo di precise positive manifestazioni di volontà promananti da quest’ultimo.

2.2. Con un secondo motivo di ricorso, si deducono la violazione degli artt. 47 e 609-bis c.p. nonché vizi di motivazione del provvedimento quanto alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale. Ribadendo in parte le doglianze formulate con il precedente motivo, la tesi difensiva lamenta la totale pretermissione delle dichiarazioni della persona offesa dalle quali si sarebbe potuto desumere il consenso manifestato al rapporto sessuale del (OMISSIS) o quantomeno la percezione, da parte dell’imputato, di un consenso simulato che, in quanto errore sull’atteggiarsi della volontà della persona offesa, costituisce errore sul fatto di reato, idoneo ad escludere il dolo.

2.3. Con un terzo motivo di doglianza, si lamentano vizi di motivazione in ordine alla configurabilità degli elementi oggettivi e soggettivi del reato di cui agli artt. 56 e 609-bis c.p. relativamente all’episodio del (OMISSIS) nonché il travisamento delle dichiarazioni della persona offesa. In particolare, la Corte d’appello non avrebbe considerato che le dichiarazioni dell’imputato rese all’udienza del 4 marzo 2019 e quelle della vittima rispetto all’episodio del (OMISSIS) erano del tutto convergenti nel riferire che la penetrazione con la penna si era risolta in un urto sulla gamba a causa di un gesto repentino compiuto dalla stessa vittima; mentre la penetrazione anale, mai verificatasi, era stata concordata con la persona offesa come "regalo di compleanno" di quest’ultima. Tali elementi consentirebbero, per la difesa, di escludere qualunque condotta inquadrabile come violenza sessuale, anche nella forma tentata, erroneamente ritenuta sussistente dal giudice di secondo grado.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è nel suo complesso inammissibile in quanto, pur formalmente denunciando, con il secondo motivo, il vizio di violazione di legge, si articola in realtà in censure tutte attinenti al giudizio valutativo delle prove, sollecitando questa Corte ad un nuovo scrutinio inammissibile in sede di legittimità. Va infatti rilevato che il controllo sulla motivazione del giudice di legittimità resta circoscritto, per espresso dettato normativo dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), al solo accertamento della congruità e coerenza dell’apparato argomentativo e non può consistere in una diversa lettura degli elementi di fatto che sono stati posti a fondamento della decisione o nella scelta di nuovi e diversi criteri di giudizio in ordine alla ricostruzione e valutazione dei fatti. Ne deriva che, se le doglianze del ricorrente non sono idonee a disarticolare la logicità e la linearità del provvedimento impugnato, queste devono essere ritenute inammissibili perché proposte per motivi diversi da quelli consentiti (ex plurimis, Sez. 6, n. 8610 del 05/02/2020, Rv. 278457; Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, Rv. 277758; Sez. 2, n. 27929 del 12/06/2019, Rv. 276567; Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Rv. 273217).

1.1. Il primo e il secondo motivo di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente perché entrambi riferiti alla pretesa insussistenza del dolo del reato di violenza sessuale rispetto al rapporto consumatosi il (OMISSIS) , sono inammissibili. Va ricordato che integra il reato di cui all’art. 609-bis c.p., nella forma cd. "per costrizione", disciplinata dal comma 1, qualsiasi forma di costringimento psico-fisico idoneo ad incidere sull’altrui libertà di autodeterminazione, ivi compresa l’intimidazione psicologica che sia in grado di provocare la coazione della vittima a subire gli atti sessuali, a nulla rilevando l’esistenza tra l’agente e il soggetto passivo di un rapporto affettivo, coniugale o paraconiugale, atteso che non esiste all’interno di dette relazioni il potere di imporre od esigere una prestazione sessuale. Il concetto di intimidazione psicologica rimanda, logicamente, al peculiare contesto spazio temporale nel quale si svolge l’azione e impone di avere riguardo alle contingenze specifiche che, oltre a comprimere la capacità di reazione del soggetto passivo, ne limitino in concreto l’espressione di volontà. Ai fini del perfezionamento del delitto in esame, dunque, non assume valore scriminante il fatto che la vittima non si opponga palesemente ai rapporti sessuali e li subisca passivamente quando è provato che l’autore, per le violenze e minacce precedenti poste ripetutamente in essere, aveva la consapevolezza del rifiuto implicito agli atti sessuali; nè rileva, per le medesime ragioni, l’eventuale espressione manifesta del consenso della vittima allorquando è dimostrato che la sua volontà sia stata coartata dal timore delle conseguenze ben più pregiudizievoli che ai suoi occhi sarebbero potute scaturite dal rifiuto esplicito all’atto sessuale impostole, quale forma di violenza indiretta (ex plurimis, Sez. 3, n. 52835 del 19/06/2018, Rv. 274417; Sez. 3, n. 49597 del 09/03/2016; Sez. 3, n. 39865 del 17/02/2015, Rv. 275947 264788; Sez. 3, n. 29725 del 23/05/2013, Rv. 256823).

Svolta tale precisazione, nel caso di specie, le doglianze della difesa, nel loro complesso dirette a rimarcare l’efficacia scriminante dell’errore sul presunto consenso manifestato dalla persona offesa al rapporto sessuale del (OMISSIS) , appaiono per un verso inammissibili, perché si sviluppano sul profilo dell’apprezzamento delle prove sul quale non può pronunciarsi la giurisprudenza di legittimità, per altro verso del tutto prive di specificità, poiché esulano integralmente dal logico e coerente percorso argomentativo posto a fondamento della decisione impugnata.

La Corte d’appello, invero, pur non avendo confutato espressamente le censura difensiva nella parte in cui questa richiamava le affermazioni della persona offesa rispetto all’episodio di violenza sessuale del (OMISSIS) , ha svolto una valutazione complessiva degli elementi probatori, che si pone in netto contrasto con la tesi prospettata dalla difesa, laddove ha evidenziato che dal quadro istruttorio globalmente considerato emergeva il contesto di costante sopraffazione e umiliazione della donna nel quale si era consumato il rapporto sessuale collocato in quella data, tale da rendere del tutto irrilevante l’eventuale apparente accondiscendenza al rapporto prestata da quest’ultima. Siffatto clima di perseverante violenza, che si è esplicitamente manifestato nelle condotte dei capi a) e c) dell’imputazione, la cui sussistenza, in parte ammessa dallo stesso imputato, non viene confutata neanche con il ricorso per cassazione, trova riscontro: nelle dichiarazioni della persona offesa, ritenute intrinsecamente coerenti e lineari; nelle circostanze riferite da diversi testimoni (Z. , P. e M. ), alcuni dei quali avevano personalmente assistito ai maltrattamenti; nella cartella clinica relativa alla visita medica espletata sulla persona offesa, che aveva documentato i lividi e i segni di percosse sul corpo della donna, nonché lo stato psicologico di assoluta sudditanza della stessa. Il giudice, dunque, del tutto in linea con i richiamati orientamenti giurisprudenziali in materia, ha ritenuto plausibile, in ragione del sentimento di terrore ingenerato nella vittima dalle continue vessazioni e dagli abusi subiti, l’assenza di un’espressa opposizione della medesima agli atti sessuali, essendo sempre implicita e ben percepibile dall’agente, in un contesto ambientale compromesso come quello di specie, la manifestazione del dissenso.

1.2. Il terzo motivo di ricorso, riferito alla pretesa insussistenza del tentativo di violenza sessuale rispetto all’episodio del (OMISSIS) , è parimenti inammissibile. Va rilevato che ai fini della sussistenza del reato di violenza sessuale è sufficiente che la condotta tenuta dall’agente denoti il requisito soggettivo dell’intenzione di raggiungere l’appagamento dei propri istinti sessuali e quello oggettivo dell’idoneità a violare la libertà di autodeterminazione della vittima, tale cioè da costringerla, attraverso condotte minacciose o violente e che la vittima percepisca come tali, a fare ciò che altrimenti non avrebbe fatto (ex plurimis, Sez. 3, n. 27123 del 18/03/2015, Rv. 264036). Nel caso di specie, il ricorrente argomenta che la valutazione delle dichiarazioni dell’imputato e della vittima rispetto all’avvenimento del (OMISSIS) avrebbe consentito di escludere qualunque forma di violenza sessuale anche tentata, essendo emerso dalle stesse che il rapporto anale, comunque mai avvenuto, era stato concordato con la persona offesa e che la penetrazione con la penna, descritta nell’imputazione come in vagina, era avvenuta in realtà nella gamba della vittima a causa di un gesto inconsulto di quest’ultima. Tali deduzioni appaiono, tuttavia, del tutto inconsistenti alla luce della ricostruzione dei fatti emersa dalla lettura congiunta delle sentenze di primo e secondo grado - non contestata dalla difesa - nonché della stessa descrizione del capo b) dell’imputazione, da cui si desume non solo la sussistenza del tentativo del reato di violenza sessuale rispetto alla condotta di penetrazione anale e con la penna, ma anche che questi atti" non giunti a consumazione solo per opposizione della vittima, erano stati preceduti da atti sessuali consumati anch’essi non consensuali, perché avvenuti nel clima di terrore nel quale la donna è stata posta per effetto delle continue violenze subite dal compagno.
2. Il ricorso, per tali motivi, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 3.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Si dà atto che, ai sensi dell’art. 546 c.p.p., comma 2, conformemente alle indicazioni contenute nel decreto del Primo Presidente, n. 163/2020 del 23 novembre 2020 - recante "Integrazione linee guida sulla organizzazione della Corte di cassazione nella emergenza COVID-19 a seguito del D.L. n. 137 del 2020" - la presente sentenza viene sottoscritta dal solo presidente del collegio per impedimento dell’estensore.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.