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Rapporti sessuali con detenuto: è reato? (Cass. 5453/21)

11 febbraio 2021, Cassazione penale

In tema di violenza sessuale, l’abuso di autorità che costituisce, unitamente alla violenza o alla minaccia, una delle modalità di consumazione del reato previsto dall’art. 609-bis c.p., presuppone una posizione di preminenza, anche di fatto e di natura privata, che l’agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali.

L’esimente putativa del consenso dell’avente diritto non è configurabile nel delitto di violenza sessuale, in quanto la mancanza del consenso costituisce requisito esplicito della fattispecie e l’errore sul dissenso si sostanzia, pertanto, in un errore inescusabile sulla legge penale; ancora, in tema di violenza sessuale, il dissenso della vittima costituisce un requisito implicito della fattispecie e, pertanto, il dubbio sulla sua sussistenza investe la configurabilità del fatto - reato e non la verifica della presenza di una causa di giustificazione

Corte di Cassazione

sez. VI Penale, sentenza 20 ottobre 2020 – 11 febbraio 2021, n. 5453
Presidente Costanzo – Relatore Capozzi

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Bologna, a seguito di gravame interposto dall’imputato C.V. avverso la sentenza emessa il 30/03/2017 dal GUP del Tribunale di Rimini, ha confermato la decisione con la quale il predetto imputato è stato dichiarato responsabile dei reati di cui ai capi A) (violenza sessuale continuata ai danni del detenuto P.M.G. ), B) (concussione ai danni del P. per averlo costretto a dargli indebiti favori sessuali, abusando della sua qualità di assistente di polizia penitenziaria e del capo C)(induzione indebita continuata per aver indotto, sempre abusando della predetta qualità, il detenuto Ca.Ca.Ro. , a dare indebitamente sia allo stesso che ad altro detenuto F.M. , utilità consistite nel praticare prestazioni sessuali di tipo orale ed altre effusioni, regalandogli o promettendo di regalargli sigarette, tabacco, tinte per capelli e bagnoschiuma) con condanna a pena di giustizia, oltre pene accessorie.

2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato che, con atto del difensore, deduce:

2.1. Con primo motivo violazione ed erronea applicazione dell’art. 609-bis c.p. e carenza della motivazione in relazione alla ritenuta scriminante putativa del consenso dell’avente diritto di cui al combinato disposto dell’art. 5059 c.p., comma 4.
La Corte di appello ha escluso la scriminante putativa sulla sola base della disparità di posizioni e di ruoli del C. e del P.M. , il primo agente di polizia penitenziaria presso la casa circondariale di Rimini ed il secondo recluso presso la sezione protetta dei detenuti transessuali, senza chiarire quali comportamenti dell’imputato abbiano ingenerato nella persona offesa la dedotta situazione di soggezione, in assenza di alcuna richiesta, pressione o minaccia. Invece, risultava evidente che le reazioni della persona offesa a fronte dei comportamenti dell’imputato inequivocabilmente tesi ad ottenere prestazioni sessuali abbiano ingenerato in quest’ultimo l’erronea convinzione di agire in presenza di un valido consenso all’atto sessuale: in tal senso deponeva il ripetuto rifiuto del detenuto a rapporti anali e l’automatismo tra richiesta (per fatti concludenti) e prestazione sessuale da parte dello stesso detenuto.
2.2. Con il secondo motivo erronea applicazione dell’art. 317 c.p., in relazione alla ritenuta sussistenza del delitto di concussione sub B) affermata esclusivamente sulla base della formale disparità di posizione tra il C. ed il P.M. . Invero, il ritenuto fondato timore di quest’ultimo o di ritorsioni da parte dell’imputato o di non trovare sufficienti garanzie a sua tutela è sganciato da qualsivoglia dato fattuale. Invero, l’atteggiamento del C. in occasione dei rapporti sessuali intrattenuti con il P.M. , pur essendo indicativo dell’intenzione dell’imputato di compiere atti sessuali, non manifestava alcuna valenza intimidatoria, essendo privo di richieste esplicite o minacce di sorta, mai riferite alla persona offesa. Cosicché l’esercizio della funzione si poneva come occasione di commissione del reato di violenza sessuale e non in rapporto di causalità efficiente con la prevaricazione della vittima. Pertanto, nella gravata sentenza l’ipotesi concussiva viene illegittimamente ritenuta intrinseca alla stessa qualità di pubblico ufficiale.
2.3. Con il terzo motivo erronea applicazione dell’art. 319-quater c.p. e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla affermazione di responsabilità in ordine al reato di cui al capo C); mancanza assoluta di motivazione in ordine alla induzione indebita a fornire prestazioni sessuali al detenuto F. . Manca la condotta del pubblico ufficiale che, mediante l’abuso della qualità, abbia avuto un’efficacia condizionante sui comportamenti del Ca. . È ritenuta autosufficiente ai fini della sussistenza del delitto de quo l’individuazione di una condotta non iure dell’imputato - i rapporti sessuali con il detenuto Ca. e tra quest’ultimo ed il F. - e l’accertatata elargizione, ad opera dell’imputato, di regalie al detenuto transessuale. Anche in questo caso la Corte di merito ha illegittimamente ritenuto la condotta induttiva intrinseca alla qualità stessa di pubblico ufficiale, nonostante si palesi una relazione sentimentale paritaria tra l’imputato ed il detenuto transessuale Ca. . Quanto alle prestazioni sessuali date al detenuto F. , la Corte non ha considerato le deduzioni difensive che facevano leva sulle motivazioni dell’ingresso del predetto detenuto nella sezione protetta dei detenuti transessuali e sulla causalità dell’incontro sessuale con il Ca. .

Considerato in diritto

1. Il ricorso è inammissibile.

2. Il primo motivo è manifestamente infondato quando non genericamente proposto per ragioni in fatto che non possono trovare accesso in sede di legittimità.

La Corte di merito - secondo un giudizio in fatto scevro da vizi logici - ha escluso che i rapporti sessuali avuti da quest’ultimo con il ricorrente fossero consenzienti affermando che il P. li aveva subiti per la condotta violenta e per l’abuso della posizione da parte del ricorrente medesimo (v. pg. 23). Ha, inoltre, escluso che l’imputato abbia agito nella ragionevole convinzione di operare con l’approvazione della p.o. in quanto risulta innegabile che quest’ultima si trovava in una incondizionata posizione di soggezione, essendo ristretta in un carcere ed anche in una cella di isolamento senza alcuna possebilità di allontanarsi o fuggire e che il C. , per il suo ruolo di assistente della polizia penitenziaria esplicava di fatto una oggettiva efficacia intimidatoria nei confronti della p.o. che in tal modo ha subito una innegabile coartazione psicologica.
In ogni caso, la manifesta infondatezza della questione proposta dalla difesa si apprezza ancor più decisamente in relazione all’orientamento consolidato secondo il quale l’esimente putativa del consenso dell’avente diritto non è configurabile nel delitto di violenza sessuale, in quanto la mancanza del consenso costituisce requisito esplicito della fattispecie e l’errore sul dissenso si sostanzia, pertanto, in un errore inescusabile sulla legge penale (Sez. 3, n. 2400 del 05/10/2017 (dep. 2018), S., Rv. 272074); ancora, in tema di violenza sessuale, il dissenso della vittima costituisce un requisito implicito della fattispecie e, pertanto, il dubbio sulla sua sussistenza investe la configurabilità del fatto - reato e non la verifica della presenza di una causa di giustificazione (Sez. 3 n. 52835 del 19/06/2018, P., Rv. 274417).

3. Il secondo motivo è manifestamente infondato quando non proposto per questioni in fatto alle quali la Corte ha correttamente risposto.
Alla analoga censura in appello la Corte ha risposto richiamando quanto già detto in relazione al capo A) assumendo, secondo un incensurabile apprezzamento in fatto, che l’unica ragione per la quale il P. ha acceduto alle richieste esplicite o implicite del ricorrente, nel corso delle sue irruzioni notturne nella sua cella con il membro in erezione, è da ricondurre alla posizione di quest’ultimo ed alle mansioni da lui svolte all’interno della stessa struttura ove era detenuto. Disparità non solo formale ma sostanziale che impediva qualsiasi autodeterminazione da parte del P. , collocato in isolamento per motivi sanitari.
Secondo questo Collegio, il giudizio espresso dalla Corte di merito si pone nel più autorevole alveo di legittimità secondo il quale in tema di violenza sessuale, l’abuso di autorità che costituisce, unitamente alla violenza o alla minaccia, una delle modalità di consumazione del reato previsto dall’art. 609-bis c.p., presuppone una posizione di preminenza, anche di fatto e di natura privata, che l’agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali (Sez. U-n. 27326 del 16/07/2020, C., Rv. 279520).
4. Il terzo motivo è manifestamente infondato quando non proposto per questioni di fatto alle quali la Corte ha correttamente risposto.
La Corte, senza incorrere in vizi logici e giuridici, ha riconosciuto l’abuso della qualità in capo al ricorrente e la correlata induzione, nel contesto detentivo dato, nei confronti del Ca. ai rapporti sessuali, ancorché consenzienti, con lo stesso ricorrente e con altro detenuto comune fatto entrare dal ricorrente nella cella del Ca. sita nella sezione protetta dei detenuti transessuali.
Costituisce jus receptum che l’induzione indebita a dare o promettere utilità può essere alternativamente esercitata dal pubblico agente mediante l’abuso dei poteri, consistente nella prospettazione dell’esercizio delle proprie potestà funzionali per scopi diversi da quelli leciti, ovvero con l’abuso della qualità, consistente nella strumentalizzazione della posizione rivestita all’interno della pubblica amministrazione, anche indipendentemente dalla sfera di competenza specifica (Sez. 6 n. 7971 del 06/02/2020, Gatti, Rv. 278353) e, nella specie, la Corte ha del tutto correttamente affermato l’uso strumentale della posizione del ricorrente per ottenere le prestazioni sessuali del detenuto transessuale per sé e per altri.
5. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma che si stima equo determinare in Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
6. Devono essere disposti gli adempimenti di cancelleria di cui all’art. 154-ter disp. att. c.p.p..

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 154-ter disp. att. c.p.p..