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Assoluzione, le parti possono impugnare per .. formula diversa? (Cass. SSUU, 40049/08)

29 maggio 2008, Cassazione penale

Qualora l’impugnazione sia diretta al mutamento della formula di proscioglimento, la natura dell’interesse ad impugnare sarà diversa a seconda che l’impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento sia proposta dall’imputato o dal pubblico ministero ovvero dalla parte civile: l’interesse in questione potrà dipendere anche dagli effetti vincolanti extrapenali del giudicato assolutorio penale che vengano in concreto invocati dall’impugnante.

Normalmente si deve avere riguardo alla motivazione e non al dispositivo, il quale deve far uso della stessa formula tanto se sia positivamente accertato che il fatto non sussiste, ecc, quanto se le prove che il fatto sussista, ecc, non siano sufficienti.

Cassazione Penale

Sezioni Unite

29 maggio 2008, n. 40049

Fatto

1. G.A., assessore regionale del Friuli Venezia Giulia, venne rinviata a giudizio per rispondere del reato di diffamazione a mezzo stampa (art. 595 c.p., commi 1 e 3, in relazione alla L. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 13), per avere, mediante dichiarazioni rilasciate al quotidiano “(OMISSIS)” di Udine che le aveva pubblicate, offeso la reputazione del giornalista P.P., in relazione ad un esposto da questi presentato alla procura della Repubblica concernente presunte irregolarità nell’accordo tra la regione ed una fondazione per l’allestimento di mostre d’arte moderna.

Il giudice del Tribunale di Udine, con sentenza del 2 maggio 2006 – dopo aver premesso alcuni cenni in via generale sul diritto di critica come causa di giustificazione ed avere ricordato che l’illiceità penale del fatto oggettivamente pregiudizievole per la reputazione della persona offesa viene meno se l’esercizio dell’indicato diritto risponde ai criteri della pertinenza, della continenza e della veridicità della rappresentazione della vicenda, in merito alla quale si manifesta l’apprezzamento critico – osservò che nel caso in esame il diritto di critica era stato esercitato correttamente, col rispetto dei suddetti limiti. Ritenne quindi che sussisteva la causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p., per avere l’imputata legittimamente esercitato il proprio diritto di critica e, conseguentemente, la assolse dal reato ascrittole con la formula “perché il fatto non sussiste a norma dell’art. 51 c.p.”.

2. Avverso questa sentenza la persona offesa P.P., costituito parte civile, ha proposto per mezzo del suo difensore ricorso per Cassazione lamentando violazione dell’art. 652 c.p.p., e contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
In particolare, osserva che la sentenza impugnata ha chiaramente affermato di avere assolto l’imputata perché era presente la causa di giustificazione dell’esercizio del “diritto di cronaca” di cui all’art. 51 c.p.. Vi è dunque violazione dell’art. 652 c.p.p., in quanto il proscioglimento non avrebbe dovuto essere pronunciato con la formula “perché il fatto non sussiste” ma con quella “perché il fatto non costituisce reato”, giacché quest’ultima rende possibile una eventuale azione civile, che è invece preclusa dalla formula adottata.

3. La quinta sezione penale – cui il ricorso era stato assegnato -, con ordinanza dell’8 febbraio 2008, ha preliminarmente rilevato che nella specie (essendo ammissibile l’appello della parte civile avverso sentenza di proscioglimento) si tratta di ricorso per saltum ai sensi dell’art. 569 c.p.p., con cui si denunzia soltanto una violazione di legge costituita dall’indebito impiego di una formula di proscioglimento in luogo di un’altra. Ha quindi osservato che il ricorso dovrebbe essere dichiarato inammissibile, per carenza di interesse, alla stregua dell’orientamento giurisprudenziale che, nel riconoscere l’interesse della parte civile ad impugnare la sentenza di proscioglimento con la formula “il fatto non costituisce reato”, ha affermato che anche questa formula, come quelle “il fatto non sussiste” o “l’imputato non lo ha commesso” è preclusiva ai sensi dell’art. 652 c.p.p., del successivo esercizio dell’azione civile, data l’identità di natura e di intensità dell’elemento psicologico rilevante ai fini penali ed a quelli civili, sicché una sentenza del giudice civile che dovesse affermare l’esistenza di tale elemento escluso o messo in dubbio dal giudice penale si porrebbe contro il principio dell’unità della funzione giurisdizionale. Il ricorso sarebbe invece ammissibile alla stregua dell’altro orientamento, secondo cui l’imputato ha interesse ad impugnare una pronuncia assolutoria con la formula “il fatto non costituisce reato” in luogo di quella “il fatto non sussiste”, perché quest’ultima ha maggiore efficacia in senso a lui favorevole negli eventuali giudizi civili, disciplinari ed amministrativi, nonché alla stregua dell’orientamento secondo cui la parte civile ha interesse ad impugnare sentenze di proscioglimento, ancorchè non preclusive dell’azione civile, con formule che possano limitare il soddisfacimento della pretesa risarcitoria nella competente sede.

Di conseguenza la quinta sezione, rilevato tale contrasto sulla questione pregiudiziale dell’interesse a ricorrere, ha disposto la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite penali per la sua decisione ai sensi dell’art. 618 c.p.p..

Il Primo Presidente ha quindi assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali per la trattazione alla pubblica udienza del 29 maggio 2008.
In data 14 maggio 2008 il difensore della parte civile ricorrente ha depositato una “memoria con conclusioni” chiedendo l’accoglimento dei motivi e la condanna dell’imputata alle spese e competenze del grado.

Diritto

4. La questione che ha determinato l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite è la seguente: Se la parte civile abbia o meno interesse a proporre ricorso per Cassazione contro una sentenza che abbia prosciolto l’imputato dalla imputazione di diffamazione a mezzo stampa con la formula “perché il fatto non sussiste a norma dell’art. 51 c.p.”, allo scopo di ottenere la formula “perché il fatto non costituisce reato”.

L’attuale ricorrente sostiene di avere interesse a ricorrere in quanto il proscioglimento dell’imputata con la formula corretta, ossia “perché il fatto non costituisce reato”, lascerebbe al giudice civile della pretesa risarcitoria il potere di accertare autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti dedotti in giudizio, mentre questo potere viene meno e l’esercizio dell’azione civile resta precluso con la formula erroneamente adottata “perché il fatto non sussiste”, la quale ha efficacia di giudicato sul punto della non sussistenza del fatto. La sostituzione della formula, quindi, gli consentirebbe di agire in sede civile per ottenere un eventuale risarcimento dei danni.
Ai fini della decisione è opportuno richiamare alcuni principi relativi alla tipologia delle diverse formule di proscioglimento, e più specificamente alla formula da adottare nel caso di assoluzione per esistenza di una causa di giustificazione, alla natura dell’interesse a proporre ricorso per Cassazione ed agli effetti vincolanti nel giudizio civile della sentenza penale di assoluzione.

Devono inoltre farsi alcune osservazioni preliminari relativamente alla concreta vicenda in esame.
In primo luogo, il ricorrente, a fondamento del suo interesse a ricorrere, ha invocato esclusivamente gli effetti della sentenza di assoluzione in un eventuale giudizio civile di danno. Viene quindi in considerazione soltanto la disposizione dell’art. 652 c.p.p., che appunto disciplina gli effetti della sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile o amministrativo di danno.
In secondo luogo, nella specie ricorrono entrambe le condizioni richieste dall’art. 652 c.p.p., perché la sentenza di assoluzione possa produrre effetti preclusivi in un giudizio civile di danno promosso dal ricorrente. Da un lato, infatti, si tratta di una sentenza di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento e, dall’altro lato, il ricorrente, quale persona offesa e danneggiata, si è costituito parte civile nel giudizio penale.
In terzo luogo, la sentenza impugnata ha assolto l’imputata avendo espressamente riconosciuto che sussisteva la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di critica. Il ricorrente si è limitato a dedurre l’erroneità della formula adottata dal giudice di merito ed a chiedere una formula diversa, ma non ha minimamente contestato il contenuto della decisione assolutoria, ossia il riconoscimento della presenza della causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto, su cui quindi si è ormai formato il giudicato.
La concretezza e l’attualità dell’interesse a ricorrere vanno perciò valutati alla luce dell’oggetto e dei limiti dell’impugnazione.

5. Le varie ipotesi di proscioglimento dall’accusa sono previste, anche se in modo non esaustivo, in diverse disposizioni del codice di rito. Così, per la sentenza dibattimentale di assoluzione, l’art. 530 c.p.p., comma 1, contiene sei tipi di formule assolutorie: “il fatto non sussiste”, “l’imputato non lo ha commesso”, “il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato”, “il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per un’altra ragione”.

Le stesse formule sono in sostanza indicate, per la sentenza di non luogo a procedere pronunciata nell’udienza preliminare, dall’art. 425 c.p.p., il quale peraltro contempla anche l’ipotesi dell’esistenza di “una causa che estingue il reato o per la quale l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita”. Le cause di proscioglimento anticipato sono indicate dall’art. 129 c.p.p., comma 1, il quale, riferendosi alla “immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità”, include tra queste le ipotesi “che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero che il reato è estinto o che manca una condizione di procedibilità”. Nell’ambito delle sentenze di proscioglimento pronunziate a seguito di dibattimento, poi, accanto alle sentenze di assoluzione, indicate dall’art. 530 c.p.p., l’art. 529 c.p.p., prevede le sentenze di non doversi procedere perché l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita, mentre l’art. 531 c.p.p., riguarda le sentenze di non doversi procedere per estinzione del reato.

È pacifico che, pur essendo tutte accomunate nella più ampia categoria delle sentenze di proscioglimento, si tratta in realtà di sentenze diverse e che producono effetti diversi.

La Corte costituzionale, ancora di recente, con la sentenza n. 85 del 2008, ha ribadito che quella delle sentenze di proscioglimento è una categoria che “non costituisce un genus unitario, ma abbraccia ipotesi marcatamente eterogenee, quanto all’attitudine lesiva degli interessi morali e giuridici del prosciolto”. In questa categoria, infatti, sono comprese, oltre a decisioni ampiamente liberatorie, ossia quelle pronunciate con le formule “il fatto non sussiste” e “l’imputato non lo ha commesso”, decisioni che, “pur non applicando una pena, comportano – in diverse forme e gradazioni – un sostanziale riconoscimento della responsabilità dell’imputato o, comunque, l’attribuzione del fatto all’imputato medesimo”. Quali esempi di quest’ultimo tipo, la Corte ricorda le sentenze dichiarative di estinzione del reato per prescrizione, conseguente al riconoscimento di circostanze attenuanti (nel regime anteriore alla L. 5 dicembre 2005, n. 251); le sentenze di proscioglimento per cause di non punibilità legate a condotte o accadimenti post factum; o per concessione del perdono giudiziale (che si traducono in realtà in una affermazione di colpevolezza, non seguita dalla irrogazione della pena, ma con effetti preclusivi della reiterazione del beneficio); o per difetto di imputabilità; o anche perché il fatto non costituisce reato. Tutte queste sentenze di proscioglimento, invero, “sono idonee ad arrecare all’imputato significativi pregiudizi, sia di ordine morale che di ordine giuridico”. Quanto ai pregiudizi di ordine morale, la Corte ha sottolineato che essi, in alcune ipotesi, possono persino superare quelli derivanti da una sentenza di condanna, come nel caso di proscioglimento per totale infermità di mente o per cronica intossicazione da alcol o da sostanze stupefacenti, anche quando non venga applicata una misura di sicurezza. Quanto ai pregiudizi di ordine giuridico, essi derivano, in via generale, dalla possibilità “che l’accertamento di responsabilità o comunque di attribuibilità del fatto all’imputato, contenuto nelle sentenze in questione – ancorchè privo di effetti vincolanti – pesi comunque in senso negativo su giudizi civili, amministrativi o disciplinari connessi al medesimo fatto”.

Per quanto riguarda in particolare l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato, già con la sent. n. 200 del 1986 la Corte costituzionale aveva evidenziato la sostanziale diversità esistente tra le formule “perché il fatto non sussiste” e “perché l’imputato non l’ha commesso” (che indicano, rispettivamente, l’insussistenza materiale del fatto storico e la totale estraneità dell’imputato) e la formula “perché il fatto non costituisce reato”, la quale invece si caratterizza perché riconosce la sussistenza della materialità del fatto storico e la sua riferibilità all’imputato, ma nega la punibilità per la mancanza dell’elemento soggettivo oppure per la presenza di una causa di esclusione dell’antigiuridicità o anche (secondo la norma all’epoca vigente) di una causa di esclusione della punibilità. La Corte quindi riconobbe che soltanto le prime due formule hanno un contenuto ampiamente liberatorio ed escludono ogni pregiudizio (attuale o potenziale) per il prosciolto, mentre nel caso di formula “perché il fatto non costituisce reato” non può negarsi il diritto dell’imputato di impugnare per ottenere una formula più favorevole, che escluda la sussistenza materiale del fatto storico o la sua riferibilità all’imputato stesso.

6. Relativamente al contenuto delle diverse formule che qui vengono in rilievo, è parimenti pacifico, in dottrina e giurisprudenza, che la formula “perché il fatto non sussiste” indica la mancanza di uno degli elementi costitutivi di natura oggetti va del reato (la condotta, l’evento o il nesso di causalità), ossia l’esclusione del verificarsi di un fatto storico che rientri nell’ambito di una fattispecie incriminatrice, anche soltanto a livello di tentativo. La formula “perché l’imputato non l’ha commesso” presuppone invece la sussistenza di un fatto penalmente rilevante, ma dichiara l’impossibilità di attribuirne la commissione all’imputato, o perché è stata raggiunta la prova positiva della totale estraneità dell’imputato al fatto o perché manca o è insufficiente la prova del suo coinvolgimento (Sez. 2, 7 luglio 1981, n. 11125, Trupiano, m. 151326 e 151328).

È opportuno ricordare – per quel che si osserverà in seguito circa gli effetti della sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile o amministrativo di risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 652 c.p.p. – che, per quanto concerne la formula assolutoria da utilizzare, la regola di giudizio contenuta nell’art. 530 c.p.p., comma 2, impone l’adozione delle due formule in esame sia nel caso che sia stata raggiunta la prova positiva della insussistenza del fatto o della sua non commissione da parte dell’imputato, sia anche nel caso di mancanza, o di insufficienza o di contraddittorietà della relativa prova, dal momento che la diversa entità della prova non può riverberarsi sulla formula assolutoria da utilizzare, che deve rimanere uguale in entrambi i casi.

In considerazione del loro contenuto, queste due formule assolutorie debbono essere adottate in via preferenziale rispetto a tutte le altre, essendo le uniche totalmente liberatorie poiché con tutte le formule diverse la sentenza di proscioglimento in realtà “attribuisce all’imputato un fatto, o non esclude l’attribuzione di un fatto, che può non costituire reato ma tuttavia essere giudicato sfavorevolmente dall’opinione pubblica o comunque dalla coscienza sociale” (Corte cost., sent. n. 151 del 1967). E ciò sia quando sia stata raggiunta la prova positiva dell’insussistenza del fatto o della sua non commissione da parte dell’imputato, sia quando la prova contraria manchi del tutto o sia insufficiente o contraddittoria.

Accertata dunque l’insussistenza del fatto (o mancando la prova della sua sussistenza), l’assoluzione con la formula “perché il fatto non sussiste” deve essere pronunciata con prevalenza su qualsiasi altra e rende superflua ogni valutazione della condotta (Sez. 4, 5 giugno 1992, n. 1340, Battaglia, m. 193032). Tale formula, avendo una maggiore ampiezza di effetti liberatori, prevale anche su quella perché il fatto non è previsto dalla legge come reato (Sez. Un., 27 settembre 2007, n. 2451/08, Magera, m. 238195). Inoltre, pur essendo entrambe ampiamente liberatorie, la formula “perché il fatto non sussiste” è logicamente pregiudiziale rispetto a quella “per non aver commesso il fatto”, perché non è possibile assolvere taluno per non aver commesso il fatto senza aver potuto prima risolvere affermativamente la questione della sussistenza del fatto stesso.
Si tratta peraltro di una pregiudizialità solo logica, che non opera, ad esempio, nell’ipotesi di sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p., comma 1, nel qual caso il giudice dovrà comunque dichiarare la causa di assoluzione emersa per prima.

7. La formula “perché il fatto non costituisce reato” ha sostituito, nel nuovo codice, quella più grossolana, contenuta nell’art. 479 c.p.p. 1930, del proscioglimento per essere l’imputato “non punibile perché il fatto non costituisce reato o per altra ragione”. In tal modo la formula in esame è stata resa autonoma da quella della “non punibilità per altra ragione”, riferibile alle cause di non punibilità in senso stretto. La formula “perché il fatto non costituisce reato”, quindi, viene ora normalmente utilizzata nelle ipotesi in cui, pur essendo presenti gli elementi oggettivi del reato, manchi invece l’elemento soggettivo della colpa o del dolo, ovvero sussista una scriminante, o causa di giustificazione, comune o speciale (cfr. Sez. 5, 20 marzo 2007, n. 27283, Olimpio; Sez. 6, 1 marzo 2001, n. 15955, Fiori, m. 218875, in riferimento alla scriminante di cui all’art. 598 c.p.).

Nella vigenza dell’art. 479 del precedente codice di rito, peraltro, la formula era utilizzata anche nel caso di ricorrenza di una causa di non punibilità o non imputabilità (Sez. 3, 30 giugno 1982, n. 10276, Boscolo, m. 155896; Sez. 2, 7 luglio 1981, n. 11125, Trupiano, m. 151327; Sez. 6, 27 giugno 1978, n. 2242, La Valle, m. 140539).
Secondo l’opinione prevalente in dottrina, tale formula, dunque, sostanzialmente rileva l’insussistenza di uno degli elementi essenziali della fattispecie penale, ulteriori e diversi rispetto a quelli concernenti la sua struttura materiale. Esula dall’oggetto del presente giudizio prendere posizione su alcune questioni su cui non vi è uniformità di opinioni in dottrina, ed in particolare stabilire se la formula “perché il fatto non costituisce reato” possa essere utilizzata anche in altre ipotesi, come quando il giudice accerti l’assenza di determinati presupposti della condotta, o la mancata integrazione di un presupposto dell’evento o la carenza di una qualità soggettiva in capo all’agente, ovvero se in tali casi la formula assolutoria da adottare sia quella “perché il fatto non sussiste”. Allo stesso modo, non deve in questa sede essere valutata la tesi secondo cui, quando sia accertata, da un lato, l’integrazione di un fatto-reato completo di tutti i suoi elementi costitutivi, ma, dall’altro lato, l’esistenza di una condizione obiettiva di non punibilità o di una causa di non punibilità in senso stretto, il giudice dovrebbe pronunciare il proscioglimento con una formula diversa da quella “perché il fatto non costituisce reato”, e precisamente quella della non punibilità “per un’altra ragione”, e ciò perché il vigente codice di procedura, non riproducendo più il riferimento cumulativo alla “persona non punibile perché il fatto non costituisce reato o per un’altra ragione” contenuta nel vecchio codice, avrebbe tenuto ben distinte le ipotesi del fatto che non costituisce reato da quelle basate su situazioni di non punibilità.

Quel che interessa in questa sede è che non vi sono comunque incertezze sul punto che, nel caso in cui siano integrati gli elementi oggettivi del reato contestato ma sussista altresì una causa di giustificazione, che elimina l’antigiuridicità penale, ed esclude di conseguenza il reato, la formula di proscioglimento da adottare è quella che “il fatto non costituisce reato” (cfr. Sez. 5, 20 marzo 2007, n. 27283, Olimpio; Sez. 6, 1 marzo 2001, n. 15955, Fiori, m. 218875; Sez. 6, 8 aprile 1999, n. 7836, Barbieri; Sez. 5, 25 marzo 1997, n. 5109, Landonio, m. 208153; Sez. 6, 14 luglio 1989, n. 16706, Gatto, con riferimento all’art. 152 c.p.p.; Sez. 3, 30 giugno 1982, n. 10276, Boscolo, m. 155896; Sez. 3, 10 ottobre 1975, n. 5066/76, Patruno, m. 133394; Sez. 6, 22 ottobre 1971, n. 1226/72, Castaidi, m. 120341).

È anche pacifico che, ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 3, l’assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato” va pronunciata non solo quando vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione, ma anche quando vi è dubbio sull’esistenza della stessa (Sez. 5, 25 settembre 1995, n. 10332, Lajacona, m. 202658).

In particolare, si ritiene che il concetto di dubbio sull’esistenza di una causa di giustificazione, sussistendo il quale il giudice deve pronunziare sentenza di assoluzione, va ricondotto a quello di “insufficienza” o “contraddittorietà” della prova, di cui all’art. 529 c.p.p., comma 2, e art. 530 c.p.p., comma 2, sicché, quando la configurabilità di cause di giustificazione sia stata allegata dall’imputato, è necessario procedere ad un’indagine sulla probabilità della sussistenza di tali esimenti: la presenza di un principio di prova o di una prova incompleta porterà all’assoluzione, mentre l’assoluta mancanza di prove al riguardo, o la esistenza della prova contraria, comporterà la condanna. Allorquando, nonostante tale indagine, non si sia trovata alcuna prova che consenta di escludere la esistenza di una causa di giustificazione, il giudizio sarà parimenti di condanna, qualora non siano stati individuati elementi che facciano ritenere come probabile la esistenza di essa o inducano comunque il giudice a dubitare seriamente della configurabilità o meno di una scriminante (Sez. 1, 8 luglio 1997, n. 8983, Boiardi, m. 208473; Sez. 1, 30 ottobre 2002, n. 38399, La Terra, m. 222467; Sez. 5, 20 marzo 2007, n. 27283, Olimpio, m. 237253; Sez. 2, 4 luglio 2007, n. 32859, Pagliaro, m. 237758).

8. Nel caso in esame, il giudice di primo grado ha accertato che sussistevano tutti gli elementi del contestato reato di diffamazione a mezzo stampa, ma che vi era altresì la prova della esistenza della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di critica. Alla luce dei consolidati principi dianzi ricordati, il giudice avrebbe pertanto dovuto assolvere l’imputata con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, e non già con quella “perché il fatto non sussiste”, sia pure accompagnata dalla specificazione “ai sensi dell’art. 51 c.p.”.

Nel merito, dunque, sussiste chiaramente il lamentato errore di diritto del giudice del merito nella scelta della formula di assoluzione utilizzata.

Occorre però accertare se, nello specifico caso in esame, la parte civile abbia interesse a proporre impugnazione e se quindi questa sia ammissibile.

9. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’interesse a proporre impugnazione deve essere apprezzabile non solo nei termini dell’attualità, ma anche in quelli della concretezza, sicché non può risolversi nella mera aspirazione alla correzione di un errore di diritto contenuto nella sentenza impugnata. La concretezza dell’interesse può peraltro ravvisarsi anche quando l’impugnazione sia volta esclusivamente a lamentare una violazione astratta di una norma di diritto formale, purché però da essa derivi un reale pregiudizio dei diritti dell’imputato, che si intendono tutelare attraverso il raggiungimento di un risultato non soltanto teoricamente corretto, ma anche praticamente favorevole (Sez. Un., 11 maggio 1993, n. 6203, Amato, m. 193743; Sez. Un., 24 marzo 1995, n. 9616, Boido, m. 202018). In particolare, l’interesse richiesto dall’art. 568 c.p.p., comma 4, quale condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, deve essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare e sussiste se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l’eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa per l’impugnante rispetto a quella esistente (Sez. Un., 13 dicembre 1995, n. 42/1996, Timpani, m. 203093).

La concretezza dell’interesse peraltro è ravvisabile non solo quando l’imputato, attraverso l’impugnazione, si riprometta di conseguire effetti penali più vantaggiosi (come, ad esempio, l’assoluzione o la mitigazione del trattamento sanzionatorio), ma anche quando miri ad evitare conseguenze extrapenali pregiudizievoli ovvero ad assicurarsi effetti extrapenali più favorevoli, come quelli che l’ordinamento rispettivamente fa derivare dal giudicato delle sentenze di condanna o di assoluzione nei giudizi di danno (artt. 651 e 652 c.p.p.) o in altri giudizi civili o amministrativi (art. 654 c.p.p.) e dal giudicato di assoluzione nei giudizi disciplinari (art. 653 c.p.p.) (Sez. 6, 30 marzo 1995, n. 6989, Stella, m. 201953).

Si tratta di una regola valida per tutte le impugnazioni, anche per quelle del pubblico ministero, che pure persegue un interesse che non può essere assimilato a quello delle altre parti Né inquadrato negli stessi schemi. Il pubblico ministero può quindi proporre impugnazione, al fine di ottenere la esatta applicazione della legge, anche se a favore dell’imputato, ma l’interesse ad impugnare deve ugualmente presentare i caratteri della concretezza e della attualità, il che si verifica quando con l’impugnazione egli miri ad un risultato non solo teoricamente corretto, ma anche praticamente utile e favorevole, come ad esempio quello di non far ricadere sull’imputato effetti dannosi ascrivibili ad errori del giudice (Sez. Un., 11 maggio 1993, n. 6203, Amato, m. 193743; Sez. Un., 24 marzo 1995, n. 9616, Boido, m. 202018; Sez. 6, 27 ottobre 2004, n. 884/05, Serra, m. 230822; Sez. 4, 29 febbraio 2008, n. 16389, Ndiaye, m.
239976).

Insomma, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’impugnazione, per essere ammissibile, deve tendere alla eliminazione della lesione di un diritto o di un interesse giuridico dell’impugnante, non essendo prevista la possibilità di proporre un’impugnazione che si risolva in una mera pretesa teorica che miri alla sola esattezza giuridica della decisione, che di per sè non sarebbe sufficiente a integrare il vantaggio pratico in cui si compendia l’interesse normativamente stabilito che sottende l’impugnazione di ogni provvedimento giurisdizionale (Sez. Un., 13 dicembre 1995, Timpani, cit).

10. È poi evidente che qualora l’impugnazione sia diretta al mutamento della formula di proscioglimento, la natura dell’interesse ad impugnare sarà diversa a seconda che l’impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento sia proposta dall’imputato o dal pubblico ministero ovvero dalla parte civile.
Solitamente l’interesse in questione potrà dipendere anche dagli effetti vincolanti extrapenali del giudicato assolutorio penale che vengano in concreto invocati dall’impugnante.
Per l’ipotesi in cui la sentenza di proscioglimento sia impugnata dall’imputato prosciolto, è sufficiente qui richiamare quanto osservato dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 85 del 2008, ossia che le uniche decisioni totalmente assolutorie sono quelle pronunciate con le formule “il fatto non sussiste” e “l’imputato non lo ha commesso”, mentre tutte le altre formule di assoluzione comportano, con forme e gradazioni diverse, un riconoscimento della responsabilità dell’imputato o comunque l’attribuzione del fatto allo stesso, e quindi, sebbene non applichino una pena, sono sicuramente idonee ad arrecare ugualmente all’imputato significativi pregiudizi di ordine sia morale sia giuridico.
All’imputato va quindi normalmente riconosciuto il diritto di impugnare una sentenza di proscioglimento per ottenere una assoluzione con una formula per lui migliore perché totalmente liberatoria o comunque produttiva di effetti extrapenali più favorevoli o meno pregiudizievoli. In tal caso, infatti, l’interesse ad impugnare assume il carattere della concretezza in quanto tende non solo all’applicazione della formula giuridicamente più esatta ma anche alla eliminazione di un qualche effetto pregiudizievole.
È dunque pacificamente riconosciuto l’interesse dell’imputato ad impugnare la sentenza di assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato” al fine di ottenere la più ampia formula liberatoria “perché il fatto non sussiste” o “perché l’imputato non lo ha commesso”, e ciò perché, a parte le conseguenze di natura morale, l’interesse giuridico risiede nei diversi e più favorevoli effetti che gli artt. 652 e 653 c.p.p., connettono al secondo tipo di dispositivi nei giudizi civili o amministrativi di risarcimento del danno e nel giudizio disciplinare, a fronte degli effetti pregiudizievoli in tali giudizi derivanti dalla prima formula assolutoria (Sez. 6, 9 gennaio 2001, n. 2227, Viola, m. 217976; Sez. 4, 5 novembre 2002, n, 45976, Fasanella, m. 226719; Sez. 6, 6 febbraio 2003, n. 13621, Valle, m. 227194; Sez. 5, 28 settembre 2004, n. 14542/05, Carretti, m. 231680, in un caso di ritenuto esercizio putativo del diritto di critica; Sez. 4, 17 maggio 2006, n. 4675, Bartalini, m. 235655).
Allo stesso modo sussiste interesse ad impugnare quando si miri alla modifica della formula di proscioglimento da quella “perché il fatto non costituisce reato” per difetto dell’elemento psicologico, in quella del “fatto non preveduto dalla legge come reato”, perché quest’ultima attesta la piena estraneità della condotta dall’ambito del penalmente rilevante e, quindi, la completa infondatezza dell’accusa sul piano giuridico, con conseguente maggior valore, ai fini del riconoscimento dell’innocenza dell’imputato, di quello dell’affermazione che il fatto non costituisce reato per mancanza dell’elemento psicologico o per la presenza di una causa di giustificazione, cioè per fattori specifici e contingenti, che possono anche non escludere il carattere moralmente e socialmente riprovevole della condotta (Sez. Un., 24 marzo 1995, n. 9616, Boido, m. 202018, in un caso di ricorso proposto dal pubblico ministero a favore dell’imputato).
Si ritiene anche che l’imputato abbia un concreto interesse ad impugnare una sentenza di assoluzione con la formula “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato” al fine di ottenere la formula “perché il fatto non sussiste” per il motivo che l’art. 653 c.p.p., conferisce efficacia preclusiva nel giudizio disciplinare alla sentenza penale irrevocabile di assoluzione quanto all’accertamento che il fatto non sussiste e che l’imputato non lo ha commesso e non anche alla sentenza di assoluzione pronunciata “con formule diverse di grado inferiore” (Sez. 6, 30 marzo 1995, n. 6989, Stella, m. 201953 e 201954; nello stesso senso anche Sez. 5, 18 giugno 1999, n. 9135, Lecci, m. 213963, secondo la quale, tuttavia, per riconoscere l’interesse ad impugnare sarebbe necessario che l’imputato deduca l’eventuale pregiudizio derivante dagli effetti extrapenali del giudicato assolutorio). Va peraltro anche ricordato che, con la L. 27 marzo 2001, n. 97, art. 1, l’efficacia di giudicato della sentenza penale di assoluzione nel giudizio disciplinare è stato esteso anche all’accertamento che il fatto non costituisce illecito penale.

Analogamente, si ritiene che il pubblico ministero abbia un concreto interesse ad impugnare una sentenza di proscioglimento al fine di ottenere una modifica della formula di assoluzione anche a favore dell’imputato, sempre però che il mutamento di formula si risolva in un risultato pratico di vantaggio per l’imputato e non soltanto teoricamente corretto.

Sempre per il motivo che l’interesse del pubblico ministero ad impugnare sussiste non ogni qualvolta sia ravvisabile la violazione o l’erronea applicazione della legge, ma quando risulti concreto ed attuale per l’accusa l’interesse all’impugnazione, si è ritenuto che il pubblico ministero non ha un concreto interesse ad impugnare per il mutamento della formula assolutoria “perché il fatto non sussiste” in quella “perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato” al fine esclusivo di tutelare gli interessi della parti civili e di permettere alle stesse di far valere in sede civile le proprie pretese risarcitorie, e ciò in quanto il pubblico ministero è estraneo al rapporto processuale civile instauratosi incidentalmente nel processo penale tra i soggetti danneggiati dal reato e l’imputato, ed è perciò indifferente ai profili di soccombenza propri dell’azione civile risarcitoria (Sez. 1, 10 gennaio 2007, n. 9174, Bartolucci, m. 236241; Sez. 1, 6 marzo 1998, n. 3776, Gargano, m. 210126).

11. Per quanto concerne l’interesse della parte civile all’impugnazione delle sentenze e delle formule di proscioglimento, va innanzitutto ricordato che il vigente codice di rito riconosce alla parte civile il diritto di impugnazione, sia pure ai soli effetti della responsabilità civile, anche contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio, oltre che contro i capi della sentenza di condanna che attengono all’azione civile e, se ha consentito all’abbreviazione del rito, contro la sentenza pronunciata nel giudizio abbreviato.

Il codice di rito ammette, con l’art. 576 c.p.p., che, per effetto dell’impugnazione della sola parte civile, si possa rinnovare l’accertamento dei fatti posto a base della decisione assolutoria, e ciò al fine di valutare l’esistenza di una responsabilità per illecito e così giungere ad una diversa pronunzia che rimuova quella pregiudizievole per gli interessi civili. Resta invece esclusa la possibilità di una revisione dell’accertamento penale in assenza dell’impugnazione del pubblico ministero, in ragione dell’autonomia dei giudizi sui due profili di responsabilità, civile e penale. L’impugnazione proposta dalla parte civile ai soli effetti civili non può incidere sulla decisione del giudice del grado precedente in merito alla responsabilità penale, ma il giudice penale dell’impugnazione, dovendo decidere su una domanda civile che necessariamente dipende da un accertamento sul fatto di reato e dunque sulla responsabilità dell’autore dell’illecito extracontrattuale, può, seppure in via incidentale, statuire in modo difforme sul fatto oggetto dell’imputazione, ritenendolo ascrivibile al soggetto prosciolto (Sez. Un., 11 luglio 2006, n. 25083, Negri).
Non vi sono poi ostacoli al riconoscimento dell’interesse della parte civile all’impugnazione, sempre ai soli effetti civili, avverso la sentenza di proscioglimento al fine di ottenere il mutamento della formula utilizzata.

Essa infatti ha interesse ad impugnare tutte le sentenze di assoluzione che possono compromettere il suo diritto ad ottenere il risarcimento del danno, anche in considerazione dell’effetto preclusivo della sentenza dibattimentale irrevocabile di assoluzione nel giudizio civile di danno.

La parte civile ha dunque di solito interesse ad impugnare una sentenza di assoluzione con la formula perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso, al fine di ottenere l’accertamento della responsabilità dell’imputato ai fini civili o anche solo una formula di assoluzione che abbia conseguenze pratiche più favorevoli per i suoi interessi civili (cfr. Sez. 4, 31 gennaio 1996, n. 4950, Mazza, m. 205222; Sez. 5, 6 dicembre 1983, n. 1429/84, Guerri, m. 162670).
Più in generale, la parte civile ha normalmente interesse ad impugnare una sentenza di assoluzione che rigetti l’azione civile esercitata nel processo penale e precluda l’ulteriore esercizio dell’azione civile in sede civile, sia al fine di ottenere una pronuncia di accertamento della responsabilità sia anche al più limitato fine di ottenere una pronuncia che non abbia effetto preclusivo nel giudizio civile.
Ciò però non significa che sia vera anche la proposizione contraria. Non è perciò sufficiente il fatto che la sentenza di assoluzione non abbia effetto preclusivo dell’azione civile dinanzi al giudice civile per escludere automaticamente l’interesse della parte civile ad impugnarla per ottenere una pronuncia diversa e l’affermazione della responsabilità dell’imputato.

Non può pertanto condividersi la tesi, che pure è stata sostenuta (Sez. 3, 8 giugno 1994, n. 10792, Armellini, m. 200381; cfr., nella vigenza del vecchio codice, Sez. 6, 11 ottobre 1972, n. 866, Premstaller, m. 122429), secondo la quale la parte civile non avrebbe interesse ad impugnare la decisione penale quando questa manchi di efficacia preclusiva perché in tal caso la parte civile è libera di perseguire la sua pretesa risarcitoria nelle sedi proprie. Ed infatti, con la sua costituzione di parte civile nel giudizio penale, il danneggiato ha appunto inteso trasferire in sede penale l’azione civile di danno ed ha quindi interesse ad ottenere nel giudizio penale il massimo di quanto può essergli riconosciuto (Sez. 4, 22 gennaio 2008, n. 13922, Arcomanno; Sez. 5, 23 febbraio 2005, Nalesso, cit.)-

Di conseguenza, non può negarsi l’interesse della parte civile ad impugnare la decisione con la quale l’imputato sia stato prosciolto con la formula “perché il fatto non costituisce reato” anche quando questa manca di efficacia preclusiva. E ciò perché l’interesse ad impugnare assume un contenuto di concretezza tutte le volte in cui dalla modifica del provvedimento impugnato possa derivare l’eliminazione di un qualsiasi effetto pregiudizievole per la parte che ne invoca il riesame, il che avviene anche quando la parte civile miri ad assicurarsi conseguenze extrapenali a lei favorevoli, che possono comunque influire nel giudizio per il risarcimento dei danni, ed in particolare a sostituire formule che possano limitare il soddisfacimento, nella sede competente, della pretesa riparatoria.

La parte civile ha dunque interesse ad impugnare la sentenza di assoluzione “perché il fatto non costituisce reato”, che non abbia effetto preclusivo, al fine di ottenere l’affermazione di responsabilità per il fatto illecito perché chi intraprende il giudizio civile dopo avere già ottenuto in sede penale il riconoscimento della responsabilità per fatto illecito della sua controparte si giova di tale accertamento e si trova in una posizione migliore di chi deve cominciare dall’inizio (cfr. Sez. 3, 15 aprile 1999, n. 6581, Lamanuzzi, m. 213840; Sez. 6, 6 febbraio 2003, n. 13621, Valle, m. 227194; Sez. 5, 23 febbraio 2005, n. 15245, Nalesso, m. 232157).

È questa la ragione per la quale può solitamente riconoscersi alla parte civile interesse ad impugnare la sentenza di assoluzione “perché il fatto non costituisce reato”, senza necessità di aderire ad un recente orientamento, opportunamente ricordato dall’ordinanza di rimessione. Si è invero affermato che l’interesse della parte civile ad impugnare, ai fini civili, la sentenza di assoluzione dell’imputato con la formula “perché il fatto non costituisce reato” per mancanza dell’elemento psicologico, si fonderebbe sull’assunto che, a norma dell’art. 652 c.p.p., l’azione civile per il risarcimento del danno da fatto illecito sarebbe preclusa non solo quando l’imputato è stato assolto per non avere commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, ma anche quando è stato assolto perché il fatto non costituisce reato, attesa l’identità di natura e di intensità dell’elemento psicologico rilevante ai fini penali ed a quelli civili, con la conseguenza che un’eventuale pronuncia del giudice civile, che dovesse affermare l’esistenza di tale elemento, escluso o messo in dubbio dalla sentenza penale irrevocabile, si porrebbe in contrasto con il principio dell’unità della funzione giurisdizionale (Sez. 4, 5 dicembre 2000, n. 9795/01, Burgaretta, m.
218283; Sez. 5, 19 gennaio 2005, n. 3416, Casini, m. 231419). Questa tesi si fonda sull’interpretazione estensiva (o, meglio, sull’applicazione analogica) che, secondo dottrina e giurisprudenza, doveva essere data all’art. 25 c.p.p.(che è pressochè identico all’art. 652 c.p.p.), nel senso che, sempre che l’illecito civile sia costruito dal punto di vista dell’elemento psicologico in maniera identica all’illecito penale (non quindi nei casi in cui tale elemento si atteggia in modo diverso, come ad esempio nell’art. 2054 c.c.), non potrebbe ammettersi – perché ciò sarebbe in contrasto con il principio della unità della funzione giurisdizionale – che, se il giudice penale ha escluso o dichiarato dubbia la sussistenza dell’elemento psicologico, il giudice civile possa ritenere invece esistente quello stesso elemento, quanto meno ai fini della ordinaria responsabilità ex art. 2043 c.c.. La medesima interpretazione dovrebbe essere data, secondo questa tesi, anche al vigente art. 652 c.p.p., poiché continuano ad essere identici sia il presupposto della identità di natura e di intensità tra elemento soggettivo influente ai fini penali e quello che sta a base della ordinaria responsabilità aquiliana, sia il presupposto della unità della funzione giurisdizionale. Quindi, anche attualmente, la sentenza di assoluzione, anche emessa ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2, “perché il fatto non costituisce reato” per mancanza dell’elemento psicologico, precluderebbe la possibilità di adire il giudice civile per far valere l’ordinaria responsabilità per fatto illecito ex art. 2043 c.c..
Questa tesi però non può essere condivisa. In primo luogo, perché essa è contraddetta dalla concorde giurisprudenza delle sezioni civili di questa Corte, alle quali, in definitiva, spetta il compito di fornire la corretta interpretazione delle disposizioni che regolano gli effetti nei giudizi civili delle decisioni adottate in altre sedi, compresa quella penale. Il giudice penale, quindi, deve quanto meno tendere ad una interpretazione uniforme, che tenga conto del “diritto vivente” applicato dai giudici civili, e che eviti contrasti di giurisprudenza, tanto più gravi in quanto non è prevista una sede deputata alla loro composizione. In secondo luogo, e soprattutto, perché la tesi è comunque errata in quanto porta ad una interpretazione dell’art. 652 c.p.p., che, come meglio si vedrà in seguito, contrasta con la lettera e la ratio della disposizione oltre che con i principi generali e con la volontà del legislatore.
È sufficiente qui ricordare che la tesi stessa espressamente si basa sull’assunto che dovrebbe continuare a seguirsi l’interpretazione che era stata data all’art. 25 c.p.p., e ciò perché sarebbe rimasto invariato il presupposto su cui quella interpretazione si basava, e cioè il principio dell’unitarietà della funzione giurisdizionale.
Sennonché è proprio questo presupposto che è venuto meno, non essendo più vigente tale principio nell’attuale ordinamento processuale. Venuto meno il principio, non possono quindi più seguirsi interpretazioni estensive (o applicazioni analogiche) che si fondavano sostanzialmente sul principio stesso.

12. Se dunque la parte civile ha, in astratto, interesse ad impugnare qualsiasi pronuncia di assoluzione, la sussistenza del carattere di concretezza di tale interesse va naturalmente verificata tenendo conto degli specifici effetti favorevoli che, nella concreta vicenda, la parte civile si ripromette di ottenere dall’impugnazione e valutando se il suo accoglimento davvero le arrecherebbe una situazione di vantaggio o le eliminerebbe una situazione pregiudizievole.
Nel caso in esame la parte civile ricorrente, come rilevato, non contesta l’accertamento in fatto compiuto dal giudice del merito, ossia che l’imputata aveva agito in presenza della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di critica. Non chiede quindi che sia affermata la responsabilità dell’imputata. Si limita invece a domandare la sostituzione della formula di assoluzione – effettivamente erronea, come dianzi rilevato – “perché il fatto non sussiste a norma dell’art. 51 c.p.” con la formula corretta “perché il fatto non costituisce reato”, per la ragione che quest’ultima formula consentirebbe l’esercizio dell’azione civile di danno in sede civile, che invece le sarebbe precluso dalla formula adottata.
Per valutare dunque se l’interesse vantato ha effettivamente il carattere della concretezza occorre richiamare le norme che disciplinano gli effetti della sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile, ed in particolare nel giudizio civile per il risarcimento del danno.
13. Come è noto, anche a seguito di reiterati interventi della Corte Costituzionale sugli art. 25, 27 e 28 c.p.p. del 1930, la legge di delegazione per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale 16 febbraio 1987, n. 81 conteneva criteri direttivi (art. 2 nn. 22-25 e 53) miranti a ridurre l’efficacia extrapenale del giudicato. Il legislatore delegato in conformità di questi criteri ha previsto una drastica riduzione degli effetti extrapenali della decisione penale, coerentemente, del resto, con la logica complessiva del nuovo codice in ordine ai rapporti tra giudizio penale e giudizio civile, i quali ormai non sono più improntati al principio, in precedenza imperante nel sistema inquisitorio, della unitarietà della funzione giurisdizionale e quindi della priorità e del primato della giurisdizione penale e della sua pregiudizialità rispetto agli altri processi (cfr. Cass. civ., Sez. 3, 30 luglio 2001, n. 10399; Sez. 3, 3 dicembre 2002, n. 17166; Sez. 3, 2 agosto 2004, n. 14770). Nel nuovo ordinamento processuale, ispirato al principio accusatorio, il precedente principio generale è venuto meno e vige invece il principio della parità ed originarietà dei diversi ordini giurisdizionali e della sostanziale autonomia e separazione dei giudizi. Ciò si desume anche dal fatto che nel nuovo codice di procedura non è stata riprodotta la disposizione di cui all’art. 3, comma 2, del codice abrogato (sulla sospensione necessaria della controversia civile in pendenza del processo penale) Né diverse altre disposizioni alla stessa collegate (parte dell’art. 24 c.p.p. e ss.), e conseguentemente, con la sua riformulazione ad opera della L. n. 353 del 1990, è stato eliminato ogni riferimento alla c.d.
pregiudiziale penale dal testo dell’art. 295 c.p.c..
Il legislatore, dunque, con il codice di procedura del 1988 ha introdotto il diverso principio della (pressochè) completa autonomia e separazione fra giudizio civile e giudizio penale, nel senso che, tranne alcune particolari e limitate ipotesi di sospensione del processo civile previste dall’art. 75 c.p.p., comma 3, da un lato, il processo civile deve proseguire il suo corso senza essere influenzato dal processo penale e, dall’altro, il giudice civile deve procedere ad un autonomo accertamento dei fatti e della responsabilità civile dedotti in giudizio (così, Cass. civ., Sez. 3, 30 luglio 2001, n. 10399). Del resto, il “principio della reciproca indipendenza dell’azione penale e di quella civile” a cui è ispirato il nuovo codice di procedura, vige anche nell’ambito dello stesso processo penale, ove, qualora una sentenza di assoluzione dell’imputato venga impugnata dalla sola parte civile può aversi un giudicato di assoluzione agli effetti penali ed una decisione di condanna agli effetti civili.
Questo nuovo principio generale è peraltro attenuato dal riconoscimento al giudicato penale di valore preclusivo negli altri giudizi in specifiche limitate ipotesi, e precisamente in quelle disciplinate dall’art. 651 c.p.p., con riferimento al giudicato di condanna e dall’art. 652 c.p.p., con riferimento al giudicato di assoluzione nei giudizi civili ed amministrativi di danno, dall’art. 653 c.p.p., con riferimento al giudizio disciplinare e dall’art. 654 c.p.p., con riferimento al giudicato assolutorio o di condanna negli “altri” (diversi da quelli precedenti) giudizi civili ed amministrativi. Tutte queste disposizioni sottostanno al limite costituzionale, ripetutamente affermato dalla Corte Costituzionale e fatto proprio dalla Legge Delega, del rispetto del diritto di difesa e del contraddittorio e, costituendo un’eccezione al principio dell’autonomia e della separazione dei giudizi, sono soggette ad un’interpretazione restrittiva e non possono essere applicate per via di analogia oltre i casi espressamente previsti (Cass. civ., Sez. 3, 30 luglio 2001, n. 10399; Sez. 3, 3 dicembre 2002, n. 17166; Sez. 3, 2 agosto 2004, n. 14770).
La giurisprudenza civile ha messo in evidenza come le discipline relative all’efficacia della sentenza penale in procedimenti extrapenali (artt. 651 e 654 c.p.p.) sono notevolmente differenti a seconda del tipo di giudizio in cui la decisione penale è invocata.
Sono, infatti, individuate tre categorie di giudizi: quello (civile o amministrativo) di danno (artt. 651 e 652 c.p.p.), quello disciplinare (art. 653 c.p.p.) e genericamente gli “altri giudizi civili o amministrativi” (art. 654 c.p.p.). Ognuna di queste categorie ha una propria disciplina, sotto il profilo sia soggettivo (nell’ipotesi di cui all’art. 652 c.p.p., è sufficiente che il danneggiato sia stato posto nella condizione di costituirsi parte civile, mentre nell’ipotesi di cui all’art. 654 c.p.p., è necessario che vi sia stata la costituzione della parte civile) sia oggettivo (quanto ai fatti che possono costituire oggetto di giudicato ed ai limiti dello stesso).
In particolare, in ordine alla disciplina dettata dall’art. 654 c.p.p. – secondo cui la sentenza penale di condanna o di assoluzione, indifferentemente, fa stato “in altri giudizi civili o amministrativi” sui fatti, accertati dal giudice penale e rilevanti ai fini della decisione, che fondano il riconoscimento del diritto o dell’interesse legittimo controverso – si è specificato che – sia sulla base della formulazione letterale della disposizione, sia del fatto che essa non riproduce più l’inciso iniziale dell’art. 28 del vecchio codice (“fuori dei casi preveduti dall’articolo precedente”), sia della volontà del legislatore emergente dalla Relazione al progetto preliminare (p. 143) – tale disposizione deve ritenersi applicabile soltanto “agli altri giudizi”, diversi da quelli civili ed amministrativi di danno e disciplinari, contemplati negli articoli precedenti (Cass. civ., Sez. 3, 2 agosto 2004, n. 14770; Sez. 3, 3 dicembre 2002, n. 17166).
Nel caso in esame il ricorrente ha invocato gli effetti della sentenza impugnata in un eventuale giudizio civile di danno.
Pertanto, ai fini della valutazione del concreto interesse a ricorrere, è irrilevante l’efficacia che la sentenza stessa potrebbe avere in un altro giudizio a norma dell’art. 654 c.p.p., ed occorre invece avere riguardo ai soli effetti che, ai sensi dell’art. 652 c.p.p., essa può avere nel giudizio civile per il risarcimento del danno.
14. Come è noto l’art. 652 c.p.p., in attuazione di una specifica direttiva della legge di delega (L. 16 febbraio 1987, n. 81, art. 2, n. 23), ha previsto che la sentenza di proscioglimento produca effetti nel giudizio di danno quando ricorrano queste condizioni: a) che si tratti di sentenza penale irrevocabile pronunciata in seguito a dibattimento (o a seguito di rito abbreviato se la parte civile ha accettato il rito); b) che il danneggiato si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile e che comunque il danneggiato dal reato non abbia esercitato l’azione in sede civile a norma dell’art. 75 c.p.p., comma 2.
Ricorrendo questi due presupposti – che nella specie sussistono – l’art. 652 c.p.p., dispone poi che la sentenza penale irrevocabile di assoluzione ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni o il risarcimento del danno promosso dal danneggiato (o nell’interesse dello stesso, come da precisazione introdotta dalla L. 27 marzo 2001, n. 97, art. 9 con riferimento alle azioni risarcitorie esercitate nei giudizi di responsabilità amministrativa davanti alla Corte dei conti), “quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima”. Ai sensi dell’art. 652 c.p.p., dunque, la sentenza di assoluzione ha efficacia di giudicato nell’ambito del giudizio civile di danni solo relativamente a questi accertamenti. La sentenza dibattimentale di assoluzione può essere pronunciata anche per altre ragioni, come per mancanza dell’elemento psicologico, doloso o colposo, o per l’esistenza di una causa di giustificazione (reale o putativa) diversa da quella di cui all’art. 51 c.p., o per l’esistenza di una causa di non punibilità o per non imputabilità del soggetto. Però il legislatore, con una sua scelta discrezionale, peraltro coerente con il nuovo principio introdotto, ha limitato l’efficacia del giudicato, nel giudizio civile o amministrativo di danno, solo agli elementi relativi all’insussistenza del fatto, alla non commissione dello stesso, ed alla non illiceità per l’esistenza dell’esimente di cui all’art. 51 c.p..
È quindi esclusa l’efficacia delle pronunce di improcedibilità, sia di quelle emesse, per ragioni anche di merito, prima del dibattimento (artt. 425 e 469 c.p.p.), sia di quelle di carattere processuale (per mancanza di una condizione di procedibilità o per estinzione del reato) emesse in esito al dibattimento (artt. 529 e 531 c.p.p.).
In particolare, quanto alla sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato, dalla formulazione letterale dell’art. 652 c.p.p., emerge chiaramente che l’efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo di danno è riconosciuta soltanto quando essa contenga l’accertamento che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima, perché in tal caso difetta il carattere di illiceità del comportamento e quindi il requisito della ingiustizia del danno.
Negli altri casi, quando l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato è stata pronunciata per mancanza dell’elemento soggettivo del reato, o per la presenza di una causa di giustificazione diversa da quella di cui all’art. 51 c.p., o per un’altra ragione, la sentenza non ha efficacia di giudicato nel giudizio di danno e spetta al giudice civile o amministrativo il dovere di accertare autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti dedotti in giudizio e di pervenire a soluzioni e qualificazioni non vincolate all’esito del giudizio penale (Cass. civ., Sez. 3, 30 ottobre 2007, n. 2883, m. 600388; Sez. 3, 14 febbraio 2006, n. 3193, m. 590619; Sez. 3, 19 luglio 2004, n. 13355, m. 575647; Sez. 3, 17 novembre 2003, n. 17374, m. 568227; Sez. 3, 18 luglio 2002, n. 10412, m. 555882; Sez. 3, 7 agosto 2002, n. 11920; Sez. 3, 30 luglio 2001, n. 10399, m. 548623).
Né potrebbe riconoscersi efficacia di giudicato nel giudizio di danno alle sentenze di assoluzione “perché il fatto non costituisce reato” assimilandole o facendole rientrare, per via di interpretazione estensiva, fra quelle di assoluzione “perché il fatto non sussiste”. E ciò in considerazione della rilevante diversità di contenuto dei due tipi di sentenze, dato che le seconde si hanno quando manca uno degli elementi oggettivi del reato (azione, evento, nesso di causalità), mentre le prime vanno adottate quando non si ravvisa l’elemento soggettivo del reato o quando è presente una causa di giustificazione.
Questa limitazione degli effetti di giudicato risultante dal testo dell’art. 652 c.p.p., è, del resto, conforme alla volontà del legislatore, come risulta dai lavori preparatori del nuovo codice di rito (cfr. Cass. civ., Sez. 3, 30 luglio 2001, n. 10399). Dalla relazione al progetto preliminare del nuovo codice (in Gazz. Uff. n. 250 del 24 ottobre 1988, suppl. ord. n. 2) si desume che è stata seguita “la linea tracciata nel 1978” (nel progetto di codice redatto sulla base della precedente delega del 1974) nei punti in cui la nuova delega non era diversa dalla precedente, e in questa linea il legislatore delegato ha incluso “il preciso intento di limitare l’efficacia vincolante della sentenza penale irrevocabile pronunziata in esito a giudizio al solo accertamento del fatto materiale e della sua riferibilità all’imputato, così da escludere ogni efficacia vincolante per quanto riguarda l’accertamento della colpa” (pag. 141 della citata relazione). Si tratta del resto di disciplina del tutto coerente con il nuovo principio della reciproca indipendenza dell’azione penale e di quella civile cui si ispira il vigente codice di procedura penale.
È anche per questa ragione che, come si è detto, risulta erroneo l’orientamento dianzi ricordato (Sez. 4, 5 dicembre 2000, n. 9795/01, Burgaretta; Sez. 5, 19 gennaio 2005, n. 3416, Casini), che attribuisce efficacia vincolante nel giudizio civile per il risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., anche alla sentenza di assoluzione “perché il fatto non costituisce reato” ed all’accertamento in essa contenuto sulla mancanza o insufficienza della prova dell’elemento psicologico, orientamento che si fonda su una applicazione analogica dell’art. 652 c.p.p..
Ed invero questa applicazione analogica non è ormai più consentita nel nuovo sistema processuale, improntato al modello accusatorio, che ammette l’esercizio contemporaneo dell’azione penale e di quella civile e la possibilità di pervenire a giudicati tra loro discordanti. Sulla base sia della formulazione letterale dell’art. 652 c.p.p., sia dell’intenzione del legislatore, sia del complessivo nuovo sistema processuale, deve dunque convenirsi – con l’assolutamente prevalente giurisprudenza civile – che l’assoluzione dell’imputato per una causa diversa da quelle specificamente indicate nell’art. 652 c.p.p., compresa quella perché il fatto non costituisce reato, per assenza dell’elemento soggettivo o per la presenza di una causa di giustificazione diversa da quelle di cui all’art. 51 c.p., o per un’altra ragione, non ha efficacia di giudicato rispetto all’azione civile di danno.

15. Fino ad ora si è fatto riferimento soprattutto alla formula di assoluzione. In realtà però essa non è decisiva rispetto all’indagine da compiere.

L’art. 652 c.p.p., invero, stabilisce che la sentenza di assoluzione è idonea a produrre gli effetti di giudicato ivi indicati non in relazione alla formula utilizzata, bensì solo in quanto contenga, in termini categorici, un effettivo e positivo accertamento circa l’insussistenza del fatto o l’impossibilità di attribuirlo all’imputato o circa la circostanza che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima (circostanze, queste ultime, che escludono l’illiceità, non solo penale, del fatto, e conseguentemente l’ingiustizia del danno). La formula utilizzata di per sè è perciò non decisiva perché, al di là di essa, l’effetto di giudicato è collegato al concreto effettivo accertamento dell’esistenza di una di queste ipotesi. Secondo la giurisprudenza delle sezioni civili di questa Corte, al fine di stabilire l’incidenza del giudicato penale nel giudizio di danno il giudice civile non può limitarsi alla rilevazione della formula utilizzata, ma deve tenere conto anche della motivazione della sentenza penale per individuare la effettiva ragione dell’assoluzione dell’imputato, eventualmente anche prescindendo dalla formula contenuta nel dispositivo, ove tecnicamente non corretta (Cass. civ., Sez. L., 9 marzo 2004, n. 4775, m. 570909; Sez. 3, 20 maggio 1987, n. 4622, m. 453292; Sez. 1, 12 novembre 1985, n. 5523, m. 442726; Sez. 3, 11 gennaio 1969, n. 47, m. 337873). La formula di per sè dunque non è sufficiente se non vi è stato un concreto effettivo accertamento sull’esistenza di una delle ipotesi di assoluzione indicate.
Inoltre, l’art. 652 c.p.p., a differenza dell’art. 25 previgente c.p.p., ricollega l’efficacia di giudicato all’”accertamento”, e non più alla mera “dichiarazione” della insussistenza del fatto e delle altre cause di proscioglimento, conformemente alla Legge Delega, art. 2, n. 23, secondo cui “la sentenza di assoluzione non pregiudica …
salvo che dalla stessa risulti che il fatto non sussiste ecc”.
Poiché è necessario l’effettivo, specifico e concreto accertamento positivo della non sussistenza del fatto o della sua non attribuibilità all’imputato o della presenza di una scriminante di cui all’art. 51 c.p., l’effetto di giudicato non si verifica quando non vi è stato tale positivo accertamento e l’assoluzione sia stata pronunciata, ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2, a causa della mancanza, o della insufficienza o della contraddittorietà della prova circa la commissione del fatto o la sua attribuibilità all’imputato (Cass. civ., Sez. 3, sent. n. 22883 del 2007, cit.; Sez. 3, 20 settembre 2006, n. 20325; Sez. 3, 30 agosto 2004, n. 17401; Sez. 3, 19 maggio 2003, n. 7765; Sez. 3, sent. n. 10399 del 2001, cit.; Sez. L., 9 novembre 2000, n. 14557; Sez. 3, 11 luglio 2000, n. 9184; Sez. 1, 30 marzo 1998, n. 3330, m. 514091; Sez. 3, 13 dicembre 1996, n. 11162).

Allo stesso modo, non vi è effetto di giudicato quando l’assoluzione sia stata determinata, ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 3, non perché vi sia la prova certa, ma perché vi è il dubbio sull’esistenza dell’esercizio di un diritto o di un adempimento di un dovere.
Questa soluzione interpretativa non si pone in contrasto con la parificazione delle due situazioni probatorie disposta dall’art. 530 c.p.p., commi 1 e 2, e ciò perché l’equiparazione è prevista essenzialmente agli effetti penali, come corollario del principio della presunzione costituzionale di non colpevolezza.
La parificazione non è disposta dall’art. 652 c.p.p., che invece richiede espressamente “l’accertamento” di una delle situazioni indicate.

Ciò conferma che normalmente si deve avere riguardo alla motivazione e non al dispositivo, il quale deve far uso della stessa formula tanto se sia positivamente accertato che il fatto non sussiste, ecc, quanto se le prove che il fatto sussista, ecc, non siano sufficienti.

Di conseguenza, la formula assolutoria “perché il fatto non sussiste”, potendo astrattamente ricomprendere anche l’ipotesi della mancanza o dell’insufficienza delle prove in ordine alla sussistenza del fatto od all’attribuibilità di esso all’imputato, non deducibile per espressa esclusione di legge nel dispositivo della sentenza penale, non è di per se stessa ostativa all’introduzione del giudizio civile, al giudice del quale è rimesso accertare, previa interpretazione del giudicato penale sulla base della motivazione di esso, se l’esclusione della responsabilità dell’imputato sia stata certa o dubbia e, di conseguenza, stabilire se l’azione civile ne sia, rispettivamente, preclusa o meno (Cass. civ., Sez. 3, 30 agosto 2004, n. 17401; nello stesso senso Cass. pen., Sez. 5, 9 gennaio 1990, n. 7961, Rabito, m. 184.532) 16. Venendo al caso di specie, non ha dunque rilievo, ai fini dell’esercizio dell’azione civile, la circostanza che l’imputata sia stata assolta con l’impropria formula “perché il fatto non sussiste a norma dell’art. 51 c.p.” anziché con la più corretta formula “perché il fatto non costituisce reato”. La sentenza assolutoria, infatti, non può avere nessun effetto di giudicato circa la non sussistenza del fatto contestato con l’imputazione (ossia il rilascio di dichiarazioni offensive della reputazione del P.) in quanto, nonostante la formula utilizzata, essa non contiene alcun effettivo categorico accertamento della non sussistenza di tale fatto, ma anzi contiene l’accertamento che il fatto sussisteva. La sentenza di assoluzione, invece, fa stato nel giudizio civile quanto all’effettivo positivo accertamento – ivi anche contenuto – che il fatto non ha il carattere della illiceità perché è stato compiuto nell’esercizio di un diritto.

Tale accertamento infatti non solo emerge chiaramente dalla motivazione ma di esso vi è indicazione anche nel dispositivo (che pronuncia l’assoluzione “a norma dell’art. 51 c.p.”).
L’efficacia che in concreto la sentenza impugnata ha in un giudizio civile di danno è dunque totalmente identica a quella che avrebbe qualora il giudice avesse utilizzato la formula esatta “perché il fatto non costituisce reato”. Anche in questo caso l’effetto di giudicato riguarderebbe esclusivamente l’accertamento che il fatto è stato compiuto nell’esercizio di un diritto, e che quindi difetta il carattere di illiceità e l’ingiustizia del danno.

Con l’impugnazione è stata avanzata esclusivamente la richiesta di modificare la formula assolutoria senza alcun intervento sul contenuto dell’accertamento compiuto dalla sentenza impugnata.
L’accoglimento del ricorso e la sostituzione, ai soli fini civili, della formula utilizzata “perché il fatto non sussiste” con quella “perché il fatto non costituisce reato”, quindi, porrebbe sì rimedio ad un errore del giudice, ma non potrebbe portare alcuna posizione di vantaggio al ricorrente né eliminargli un qualche pregiudizio, perché la sua situazione relativamente all’esercizio dell’azione civile di danno (la sola invocata col ricorso) rimarrebbe immutata. L’accoglimento del ricorso, dunque, si risolverebbe in una mera declaratoria sulla esattezza teorica della decisione impugnata, senza determinare alcun effetto pratico a favore del ricorrente, nei cui confronti resterebbe comunque fermo e farebbe stato l’accertamento che il fatto è stato compiuto nell’esercizio del diritto di critica.

L’interesse invocato a fondamento del ricorso è perciò privo di qualsiasi concretezza. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile per difetto di interesse.
In applicazione dell’art. 616 c.p.p., segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento in favore della cassa delle ammende di una somma, che si ritiene congruo fissare in Euro 1.000,00.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 29 maggio 2007.
Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2008